LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANZON Enrico – Presidente –
Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Maria Giuli – Consigliere –
Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13322 del ruolo generale dell’anno 2015 proposto da:
C.C., rappresentata e difesa dall’Avv. Emiliano Potenza per procura speciale a margine del ricorso, elettivamente domiciliati in Roma, via Giuseppe Mazzini, n. 6, presso lo studio dell’Avv. Elio Vitale;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Basilicata, n. 617/1/2014, depositata in data 28 novembre 2014;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 24 giugno 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.
RILEVATO
che:
dall’esposizione in fatto della sentenza censurata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti di C.C. un avviso di recupero del credito di imposta indebitamente utilizzato negli anni 2003 e 2004; la contribuente aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Potenza; avverso la decisione del giudice di primo grado la contribuente aveva proposto appello;
la Commissione tributaria regionale della Basilicata ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: l’avviso di recupero del credito di imposta aveva natura di atto di accertamento, con conseguente applicabilità del regime ad esso riferibile; l’avviso di recupero era legittimo anche sotto il profilo della possibilità che lo stesso si riferisse a diverse annualità e della sufficienza della motivazione; il credito di imposta utilizzato era illegittimo in quanto le fatture erano state emesse da soggetto privo di strutture idonee a realizzare i lavori, non potendosi dare rilievo alla prova contraria consistente nella produzione di assegni bancari;
la contribuente ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a tre motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;
la ricorrente ha, altresì, depositato memoria ed allegato sentenza del giudice penale n. 673/2015, depositata il 2 aprile 2015, con attestazione di passaggio in giudicato il 18 gennaio 2016.
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione o falsa applicazione della L. n. 388 del 2000, art. 8, del D.L. n. 185 del 2008, art. 27, commi 16 e 17, della L. n. 311 del 2004, art. 421, nonché del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36 bis, 36 ter e 43;
in particolare, censura la sentenza per avere erroneamente ritenuto che non era intervenuta alcuna decadenza dal potere impositivo, tenuto conto del fatto che, alla data di entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008 (che aveva prorogato i termini di decadenza) erano decorsi i termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, 36 ter e 43;
il motivo è parzialmente fondato;
va disattesa, in primo luogo, l’eccezione di inammissibilità del presente motivo proposta dalla controricorrente per novità della domanda, tenuto conto del fatto che la questione dell’applicabilità del termine di decadenza all’atto di recupero era entrato nel thema decidendum, sicché, una volta che il giudice del gravame ha ritenuto di ricondurre la fattispecie nell’ambito del regime di decadenza proprio dell’avviso di accertamento, la questione dei limiti di applicabilità del suddetto regime rientra comunque nell’oggetto della controversia;
va osservato, con riferimento al regime della decadenza relativo agli avvisi di recupero di cui alla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421, che il D.L. n. 185 del 2008 ha previsto, all’art. 27, comma 16, che: “Salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per il reato previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-quater, l’atto di cui alla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 421, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo”;
quindi, con specifico riferimento all’ipotesi, quale quella di specie, di indebito utilizzo in compensazione dei crediti di imposta, la suddetta previsione normativa ha esteso il termine di decadenza previgente, individuandolo al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo all’indebito utilizzo;
il successivo comma 17, inoltre, ha dettato la specifica disciplina diretta a regolare l’applicabilità del regime di decadenza con riferimento alla situazione previgente e, sotto tale profilo, ha previsto che: “La disposizione di cui al comma 16 si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione in anni con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore del presente decreto siano ancora pendenti i termini di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, comma 1 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57;
in sostanza, per quanto riguarda il regime di decadenza previgente, la disposizione in esame ha fatto riferimento ai termini di decadenza di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, e al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, in conformità alla natura di atto di accertamento del provvedimento di recupero, ed ha previsto, sotto tale profilo, l’applicabilità della proroga solo per l’indebito utilizzo del credito di imposta per il quale non era scaduto, alla data di entrata in vigore della disciplina (29 novembre 2008), il termine di decadenza;
ciò precisato, va quindi verificato se, con riferimento alla presente fattispecie, al momento di entrata in vigore della disciplina in esame, erano o meno scaduti i termini di decadenza per l’adozione dell’atto di recupero del credito;
va quindi osservato che i termini in questione, quanto a durata, atteso l’esplicito riferimento alle previsioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 e al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, erano, ratione temporis, di quattro anni, decorrenti, dal momento in cui si era verificato l’indebito utilizzo del credito, ciò in conformità alla specifica previsione di cui al D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 17, che fa riferimento, nonché alla considerazione che se non si verifica l’indebito utilizzo del credito d’imposta, il “potere di recupero” spettante all’amministrazione nemmeno può sorgere (Cass. civ., 22 luglio 2016, n. 15186);
nel caso di specie, risulta in sentenza che il credito di imposta era stato utilizzo negli anni 2003 e 2004;
pertanto, tenuto conto del previgente termine di decadenza di quattro anni, al momento della entrata in vigore della norma di proroga (29 novembre 2008) l’amministrazione finanziaria era decaduta dal potere di emettere l’atto di recupero per l’anno 2003, mentre non era decaduta dal potere di emissione per l’anno 2004; con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, tenuto conto del fatto che, successivamente alla sentenza del giudice del gravame, è intervenuta sentenza di assoluzione, non passata in giudicato, della contribuente sui medesimi fatti oggetto del presente giudizio, con conseguente venire meno del presupposto applicativo della proroga del termine, consistente nella inesistenza dei crediti compensati;
peraltro, la ricorrente ha depositato, con la memoria ex art, 380 bis 1 c.p.c., copia della sentenza del giudice penale n. 673/2015, depositata il 2 aprile 2015, con attestazione di passaggio in giudicato il 18 gennaio 2016, da cui risulta l’assoluzione perché il fatto non sussiste;
il motivo è infondato;
questa Corte (Cass. civ., 2 agosto 2017, n. 19237; Cass. civ., 30 ottobre 2020, n. 24093) ha già avuto modo di osservare che “il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16, conv., con modif., dalla L. n. 2 del 2009, nel fissare il termine di otto anni per il recupero dei crediti d’imposta inesistenti indebitamente compensati, non intende elevare l’inesistenza” del credito a categoria distinta dalla “non spettanza” dello stesso (distinzione a ben vedere priva di fondamento logico giuridico), ma mira a garantire un margine di tempo adeguato per il compimento delle verifiche riguardanti l’investimento che ha generato il credito d’imposta, margine di tempo perciò indistintamente fissato in otto anni, senza che possa trovare applicazione il termine più breve stabilito dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per il comune avviso di accertamento”;
sicché, la circostanza che è intervenuta sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, passata in giudicato, non ha alcuna refluenza sul regime di decadenza del potere di emettere l’avviso di recupero, come prorogato dal D.L. n. 185 del 2008, art. 27; con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727,2729 c.c., e dell’art. 116 c.p.c., per avere valorizzato gli elementi indiziari dedotti dall’amministrazione finanziaria, privi dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, senza dare rilevanza, invece, agli elementi di prova contraria offerta dalla contribuente (documenti fiscali, contratto di appalto, bonifici di pagamento, fatture di acquisto dei materiali, relazione asseverata), violando i principi di riparto dell’onere della prova, anche tenuto conto della sopravvenuta sentenza di assoluzione;
il motivo è infondato;
va precisato che, in tema di riparto dell’onere della prova in caso di contestazione di operazioni oggettivamente inesistenti, quale quella di specie, questa Corte di legittimità ha da tempo chiarito che, qualora l’amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che le operazioni commerciali oggetto di fatturazione non sono mai state poste in essere, indicando gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo, altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, trattandosi di dati e circostanze facilmente falsificabili (Cass. civ., 15 maggio 2018, n. 11873);
in questo, il contribuente ha l’onere di provare l’effettiva sussistenza ed il preciso ammontare dei costi medesimi e tale prova non può, peraltro, consistere nella esibizione della fattura, in quanto espressione cartolare di operazioni commerciali mai realizzate, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. civ., 9 giugno 2021, n. 16116; Cass. civ., 19 dicembre 2019, n. 33915);
con riferimento al caso di specie, la valutazione della inesistenza oggettiva delle operazioni in relazione alle quali la contribuente ha utilizzato il credito di imposta si è basata sulla circostanza che il soggetto che aveva emesso le fatture era privo di strutture adeguate per la realizzazione dei lavori, profilo sul quale non si sofferma in alcun modo parte ricorrente, limitandosi a sostenere genericamente la mancanza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza;
d’altro lato, il giudizio espresso dal giudice del gravame, secondo cui la prova contraria offerta dalla contribuente non era idonea a superare la valenza di prova presuntiva degli elementi dedotti dall’amministrazione finanziaria, è conforme ai principi espressi da questa Corte, sopra indicati;
del resto, parte ricorrente, si limita ad indicare i diversi ulteriori atti da cui il giudice del gravame avrebbe dovuto esprimere il giudizio di rilevanza della prova contraria della contribuente, senza, tuttavia, assolvere al principio di specificità;
con riferimento, infine, alle risultanze del processo penale, in particolare alla sopravvenuta sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, passata in giudicato, va precisato che il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno e’, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto di cui all’art. 372 c.p.c., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., al solo fine di dimostrare l’effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti;
in tale evenienza, infatti, la sua astratta rilevanza potrebbe ravvisarsi soltanto in relazione all’affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di stretto merito non deducibili nel giudizio di legittimità;
tale conclusione rileva, a maggior ragione, con riguardo alle specificità del giudizio tributario, nel quale la sentenza penale irrevocabile non ha mai efficacia di regula iuris, cui il giudice civile deve necessariamente attenersi, vigendo, invece, le limitazioni probatorie sancite dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e potendo ivi valere anche le presunzioni, inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (v. da ultimo Cass. n. 17258 del 27/06/2019);
ne consegue che in questi casi va ritenuta l’inammissibilità della produzione della sentenza penale, siccome estranea all’ambito previsionale dell’art. 372 c.p.c. (Cass. civ., 8 ottobre 2020, n. 21695; Cass. civ., 19 novembre 2020, n. 23483; Cass. civ., 26 settembre 2017, n. 22376);
peraltro, anche con riferimento alla sentenza passata in giudicato, questa Corte ha precisato che tale accertamento è assimilabile allo ius superveniens e che “il giudizio di legittimità, avendo ad oggetto non già l’operato del giudice di merito, bensì la conformità all’ordinamento giuridico della decisione adottata, non richiede necessariamente un errore del primo” (Cass. n. 8284/2019), sicché nulla vieterebbe, in linea teorica, di denunciare in dinanzi alla Corte l’oggettiva incompatibilità della decisione di merito rispetto ad un giudicato formatosi dopo la sua pubblicazione, ma prima della proposizione del ricorso per cassazione; tuttavia, l’art. 654 c.p.p. non comporta affatto l’estensione automatica del giudicato penale in ambito tributario, ma gli attribuisce una valenza lato sensu probatoria. Ancora recentemente, infatti, è stato ribadito che “La sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula perché il fatto non sussiste, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare” (Cass. n. 17258/2019);
si tratta, dunque, di un elemento lato sensu probatorio sopravvenuto alla decisione, non valutato dal giudice d’appello in quanto formatosi in epoca successiva alla sua decisione, ma come tale di per sé inidoneo a supportare la cassazione della decisione stessa (si tratta di una “possibile” fonte di prova, non certo di prova legale);
in conclusione, è fondato, per quanto di ragione il primo motivo di ricorso, infondati il secondo ed il terzo, con conseguente cassazione della sentenza per il motivo accolto e” non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, accogliendo il ricorso originario limitatamente alla pretesa relativa all’anno 2003;
con riferimento alle spese di lite, atteso il parzialmente accoglimento, sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese di lite dei giudizi di merito e del presente giudizio.
PQM
La Corte:
accoglie per quanto di ragione il primo motivo di ricorso, infondati il secondo ed il terzo, cassa la sentenza censurata per il motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario limitatamente alla pretesa relativa all’anno 2003;
compensa interamente le spese di lite dei giudizi di merito e del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021