Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.31823 del 04/11/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Maria Giuli – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20892 del ruolo generale dell’anno 2015 proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro

Rametal s.r.l., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’Avv. Vincenzo Taranto per procura speciale a margine del ricorso, presso il cui studio in Catania, via Aldebaran, n. 21, è

elettivamente domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, n. 762/17/2015, depositata in data 27 febbraio 2015;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 24 giugno 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza censurata e dagli atti difensivi delle parti si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti di Rametal s.r.l. un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2005, erano stati disconosciuti costi per utilizzo di fatture per operazioni, alcune solo in parte, inesistenti e iva non detraibile; la società aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Catania; avverso la decisione del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: l’appello era ai limiti dell’ammissibilità; la contribuente aveva offerto valida prova documentale, non contestata dall’ufficio, che aveva valore probatorio prevalente sugli elementi presuntivi dedotti dall’amministrazione finanziaria;

l’Agenzia delle entrate ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a quattro motivi di censura, cui ha resistito la società depositando controricorso, illustrato con successiva memoria.

CONSIDERATO

che:

ai fini della definizione della presente controversia assume rilievo centrale l’eccezione della controricorrente di formazione del giudicato interno in ordine alla illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 5, relativo alla eccessiva durata della verifica;

si legge, a tal proposito, in sentenza che il giudice di primo grado aveva ritenuto la illegittimità dell’atto impositivo sulla base di due differenti rationes decidendi: la prima, “relativa alla nullità dell’avviso di accertamento per la permanenza dei verificatori oltre i trenta giorni previsti per legge”; la seconda, in quanto “era stata fornita la prova circa l’effettività e la congruità del costo sostenuto e quindi della sua corretta deducibilità, documentazione non contestata dall’ufficio”;

risulta, altresì, che l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello contestando, fra l’altro, la statuizione del giudice di primo grado che aveva ritenuto l’illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, censurando, quindi, anche la prima ratio decidendi del giudice di primo grado;

il giudice del gravame non si è espresso sulla questione, avendo, da un lato, evidenziato la possibile inammissibilità del ricorso (“lo stesso è ai limiti dell’ammissibilità”), e, dall”altro, avendo esaminato la diversa questione della rilevanza probatoria della documentazione prodotta dalla ricorrente e degli elementi presuntivi dedotti dall’amministrazione finanziaria;

con il presente ricorso, parte ricorrente, soccombente nel giudizio di secondo grado, non ha in alcun modo prospettato alcuna ragione di censura avverso la mancata pronuncia del giudice di primo in ordine al motivo di appello relativo alla violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12;

la statuizione del giudice di primo, relativa alla violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, non oggetto di pronuncia da parte del giudice di appello e non censurata con il presente ricorso e’, dunque, passata in giudicato;

invero, l’Agenzia delle entrate, al fine di evitare il passaggio in giudicato della statuizione del giudice di primo grado che aveva ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento anche in relazione alla violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, avrebbe dovuto censurare anche in questa sede la mancata pronuncia del giudice del gravame sulla questione, di per sé autonoma rispetto alla questione di infondatezza nel merito della domanda per difetto di prova, sulla quale soltanto il giudice del gravaime si è pronunciato, con conseguente formazione del giudicato interno, di per sé preclusivo dell’ulteriore esame delle ragioni di censura proposte, relative, invece, alla diverse questioni esaminate;

la formazione del giudicato interno sulla questione della violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, rende, dunque, inammissibili le ragioni di censura proposte dalla ricorrente, in particolare: il primo motivo, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, e dell’art. 342 c.p.c., per avere ritenuto inammissibile l’appello; il secondo motivo, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per avere omesso di pronunciare sui motivi di appello relativi alla legittimità dei rilievi contenuti nell’avviso di accertamento; del terzo motivo, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per avere reso una motivazione apparente in ordine alle ragioni della infondatezza della pretesa; del quarto, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e dell’art. 2697 c.c., per avere attribuito efficacia probatoria prevalente ai documenti prodotti dal contribuente rispetto agli elementi di prova presuntiva dell’ufficio; ne consegue l’inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente.

P.Q.M.

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite che si liquidano in complessive Euro 12.000,00, oltre spese forfettarie nella misura del quindici per cento, Euro 200 per spese vive, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472