Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.31825 del 04/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

Dott. MELE Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23864 del ruolo generale dell’anno 2015 proposto da:

Interflora E. s.r.l. in liquidazione, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’Avv. Tommaso De Fusco per procura speciale a margine del ricorso, elettivamente domiciliata in Roma, via Tiburtina, n. 352, presso lo studio dell’Avv. Giuseppe Sellaro;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 2307/23/2015, depositata in data 6 marzo 2015;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 7 luglio 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza censurata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti di Inteflora E. s.r.l. un avviso di accertamento con il quale erano state contestate, per l’anno 2007, maggiori imposte Ires, Irap e Iva in conseguenza della riscontrata omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e delle movimentazioni dei conti correnti bancari intestati a soggetti diversi dalla società; in particolare, erano state rinvenute presso la società Gepi Flowers s.r.l. delle fatture emesse dalla ricorrente ritenute relative ad operazioni oggettivamente inesistenti; la società aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli; avverso la decisione del giudice di primo grado la società aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale della Campania ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: il giudice di primo grado aveva correttamente ritenuto che dalla documentazione prodotta dalla ricorrente non emergeva alcuna prova in ordine alla imputazione dei movimenti ad attività estranea all’impresa; le fatture emesse dalla ricorrente erano relative ad operazioni oggettivamente inesistenti; sussisteva una evidente commistione tra le attività di impresa delle due società, gestite dal medesimo rappresentante legale e partecipate da questi e dalla moglie, sicché proprio la diversificazione dei conti correnti intestati alle due società ed ai medesimi soci era prova della inesistenza oggettiva delle operazioni; non aveva alcuna rilevanza la imputazione della responsabilità al commercialista incaricato dell’assistenza fiscale e contabile;

la società ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a due motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, commi 1, 2, 4 e 5, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, u.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, nonché dell’art. 2729 c.c.;

in particolare, parte ricorrente lamenta che il giudice del gravame ha ritenuta legittima la pretesa dell’amministrazione finanziaria basata anche sulle movimentazioni bancarie dei conti correnti intestati a terzi, seppure collegati anche per ragioni di parentela, pur avendo ritenuto che le operazioni relative ai conti correnti erano non identificabili, in tal modo evidenziando di avere fatto riferimento a meri indizi, non anche, come avrebbe dovuto, a presunzioni gravi, precise e concordanti;

il motivo è infondato;

lo stesso si basa, invero, su di una non corretta interpretazione del contenuto della pronuncia del giudice del gravame;

la pronuncia del giudice del gravame si fonda, in realtà, su due diversi, sebbene correlati, profili decisori;

in primo luogo, il giudice del gravame ha esaminato la questione della natura oggettivamente inesistente delle operazioni di cui alle fatture emesse dalla società ricorrente in favore della società Gepi s.r.l. ed ha motivato specificamente sulla base di quali presupposti di fatto la pretesa dell’amministrazione finanziaria doveva essere considerata legittima;

in secondo luogo, la sentenza censurata ha, altresì, esaminato la questione relativa all’accertamento compiuto sulla base delle movimentazioni di conto corrente di soggetti che, secondo l’assunto dell’amministrazione finanziaria, erano comunque riconducibili alla società ricorrente;

sotto tale profilo, (sebbene nella parte finale della motivazione) il giudice del gravame ha esposto l’orientamento di questa Corte in ordine alla ripartizione dell’onere di prova quando l’accertamento si basa su verifiche relative ai conti correnti bancari, specificando, per quel che rileva, che il contribuente deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non è riferibile ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare che ciascuna delle operazioni effettuata sia estranea a fatti imponibili;

questa affermazione di principio, in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ., 29 luglio 2016, n. 15857), richiede, dunque, che il contribuente fornisca la prova contraria ed analitica relativa al fatto che ciascuna movimentazione bancaria riguardi operazioni estranee all’attività di impresa, in quanto solo in tal caso può essere sottratta all’imponibilità;

il suddetto principio, in realtà, è stato applicato dal giudice del gravame in relazione alla presente fattispecie, ed è alla luce di esso che deve essere compreso il senso della precisione compiuta nella parte iniziale della motivazione;

invero, il giudice del gravame ha ritenuto che la documentazione prodotta dalla società ricorrente non consentiva di ritenere assolto l’onere di prova sulla stessa gravante, in quanto la stessa non aveva fornito elementi per ritenere imputabili i movimenti ad attività estranea all’impresa, in quanto non erano “identificabili le singole operazioni”;

la suddetta espressione, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, proprio laddove analizzata alla luce del principio riportato dal giudice del gravame in materia di prova contraria, non attiene alla mancanza di identificazione delle movimentazioni bancarie, quanto, piuttosto, alla mancanza di prova analitica di riconducibilità delle singole operazioni ad attività estranea a quella di impresa, sicché non sussiste il vizio di violazione di legge prospettato dalla ricorrente;

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 2, comma 2, art. 5, art. 11, comma 2, nonché per falsa applicazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 7, per avere ritenuto applicabile la sanzione nonostante la responsabilità del commercialista tenuto agli adempimenti per conto della contribuente;

il motivo è inammissibile;

in linea generale, va precisato che, secondo questa Corte (Cass. civ., 14 giugno 2021, n. 17757), il contribuente non assolve agli obblighi tributari con il mero affidamento ad un commercialista del mandato a trasmettere in via telematica la dichiarazione alla competente Agenzia delle Entrate, essendo tenuto a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto, sicché la sua responsabilità è esclusa solo in caso di comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento; con riferimento alla fattispecie, il motivo di ricorso non tiene in alcun modo conto della ratio decidendi della pronuncia censurata, avendo il giudice del gravame escluso in radice” dunque anche a prescindere dalle cause di esclusione della responsabilità precisate da questa Corte, che non era stata data alcuna prova del conferimento dell’incarico ad un professionista e dell’ampiezza dello stesso;

sotto tale profilo, il motivo di ricorso è inammissibile in quanto non tiene conto della ratio decidendi della pronuncia censurata;

in conclusione, il primo motivo è infondato, il secondo inammissibile, con conseguente rigetto e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite.

si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite che si liquidano in complessive Euro 10.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

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