LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5296/2015 proposto da:
Unicredit Credit Management Bank S.p.a., in qualità di mandataria della Unicredit Leasing s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Felice Grossi Gondi n. 62, presso lo studio dell’avvocato Foti Carlo Sebastiano, rappresentata e difesa dall’avvocato Zurlo Gianfranco, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Fallimento ***** S.n.c., in persona del curatore rag.
I.F., domiciliato Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Castellucci Andrea, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto del TRIBUNALE di FIRENZE, del 07/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 24/06/2021 dal Cons. Dott. TRICOMI LAURA.
RITENUTO
che:
UNICREDIT CREDIT MANAGEMENT BANK SPA propose domanda di rivendica e di ammissione allo stato passivo del Fallimento ***** SNC in ragione di un contratto di leasing stipulato il 21/10/2004 con la società in bonis avente ad oggetto la locazione finanziaria di una porzione di fabbricato sita in *****; contratto risolto per l’inadempimento persistente dell’utilizzatrice con raccomandata del 28/2/2011, prima del fallimento di quest’ultima, dichiarato il 23/12/2011.
Accolta la domanda di rivendica, venne respinta la domanda di ammissione allo stato passivo avanzata per il complessivo importo di Euro 284.277,65 – sotto deduzione della somma ricavata dalla vendita del bene rivendicato – somma comprensiva del saldo per i canoni scaduti e non pagati, dell’importo corrispondente alla clausola penale risarcitoria e degli interessi.
UNICREDIT CREDIT MANAGEMENT BANK SPA propose opposizione allo stato passivo dinanzi al Tribunale di Firenze, contestando la mancata integrale ammissione al passivo del credito Il Tribunale, qualificato il contratto in esame come leasing traslativo, in ragione delle condizioni economiche dello stesso, ha escluso l’applicabilità in via analogica del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 72 quater (di seguito, anche, L. Fall.). Ha, invece, ritenuto il contratto soggetto alla disciplina dell’art. 1526 c.c., ed ha affermato che, in caso di risoluzione del contratto in epoca anteriore al fallimento, “il concedente ha solo diritto a scomputare dalle rate riscosse l’equo compenso per l’uso della cosa ed al risarcimento del danno subito, ottenendo un’ammissione al passivo per un importo anche maggiore, ma senza possibilità di ottenere il recupero del capitale originariamente impiegato” (fol. 5 del decr. imp.).
Il Tribunale ha, quindi, esaminato la domanda risarcitoria fondata dalla banca sulla previsione della clausola penale pattizia, che commisurava il quantum all’ammontare dei canoni a scadere (pari ad Euro 214.497,16), condizionandola alla deduzione della somma ricavata dalla vendita del bene. Il Tribunale ha ritenuto legittima la clausola penale, volta alla predeterminazione del danno ex art. 1382 c.c., rilevando che la Curatela non aveva chiesto la riduzione della penale ad equità (art. 1384 c.c.); ha affermato la cumulabilità tra equo indennizzo e risarcimento del danno; ha ritenuto, quindi, di dare applicazione alla clausola anzidetta, detraendo dall’importo dei canoni a scadenza il valore all’attualità del bene, come stimato dal perito.
Sulla scorta della CTU, il Tribunale ha determinato l’equo indennizzo, cui aveva diritto la società di leasing in virtù dell’inadempimento contrattuale, in Euro 222.443,00; ha accertato che i canoni versati dalla società fallita in bonis e gli interessi a cui aveva diritto il Fallimento ammontavano ad Euro 198.939,00; ha accertato che il valore dell’immobile alla data di restituzione ammontava ad Euro 332.500,00 (negando l’applicabilità di un coefficiente di deprezzamento, utilizzato dal perito, ma non dedotto dall’opponente) a fronte di un costo sostenuto dalla banca di Euro 295.500,00, con un differenziale di debito per la ricorrente di Euro 37.000,00. Quindi, sulla scorta del complessivo computo delle voci di dare ed avere, ha, conclusivamente, accertato un credito di Unicredit di Euro 223.443,00 e un contrapposto credito del Fallimento di Euro 235.939,00 e, per tale motivo, ha respinto l’opposizione allo stato passivo, non riconoscendo alcun credito in favore della banca.
UNICREDIT CREDIT MANAGEMENT BANK SPA ha proposto ricorso per cassazione con quattro mezzi; il Fallimento ha replicato con controricorso, corroborato da memoria.
CONSIDERATO
che:
1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 72 e 72 quater, nonché dell’art. 12 preleggi e dell’art. 1526 c.c.; si sostiene che erroneamente il Tribunale di Firenze ha escluso l’applicabilità della L. Fall., art. 72 quater, ai contratti di leasing risolti in epoca anteriore al fallimento ed ha ritenuto applicabile la disciplina di cui all’art. 1526 c.c..
1.2. Come si evince dagli atti, il contratto di leasing traslativo in discussione venne concluso il 21/10/2004 e risolto per inadempimento in data 28/2/2011 anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 124 del 2017 – che non può trovare, pertanto, applicazione – ed in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento.
1.3. Il primo motivo è infondato, alla luce del recente arresto delle Sezioni Unite, secondo il quale “In tema di leasing finanziario, la disciplina di cui alla L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140, non ha effetti retroattivi, sì che il comma 138 si applica alla risoluzione i cui presupposti si siano verificati dopo l’entrata in vigore della legge stessa; per i contratti anteriormente risolti resta valida, invece, la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, con conseguente applicazione analogica, a quest’ultima figura, della disciplina dell’art. 1526 c.c. e ciò anche se la risoluzione sia stata seguita dal fallimento dell’utilizzatore, non potendosi applicare analogicamente la L. Fall., art. 72 quater” (Cass. Sez. U. n. 2061/2021), principio che va applicato al caso in esame, concernente una fattispecie di leasing traslativo risolto anteriormente al fallimento.
2.1. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c., nonché degli artt. 1322 e 1371 c.c.; la ricorrente sostiene la idoneità delle clausole contrattuali a garantire l’equilibrio del rapporto sinallagmatico in caso di anticipata risoluzione del contratto di leasing; richiama gli artt. 21 e 23 della c.g.c. e l’art. 1526 c.c., sostenendo che esprimono la medesima ratio.
A parere della ricorrente una corretta interpretazione teleologica dell’art. 1526 c.c. e della disciplina pattizia, avrebbe dovuto condurre all’ammissione del credito fatto valere, sia per quanto riguardava i canoni scaduti, sia per quanto riguardava la penale, senza necessità di dover determinare l’equo compenso previsto dall’art. 1526 c.c..
Sostiene che la disciplina ex art. 1526 c.c., non è inderogabile e che la disciplina pattizia – che prevedeva la corresponsione dei canoni scaduti e non pagati alla data della risoluzione, l’incameramento dei canoni già riscossi, l’attualizzazione dei canoni scaduti con decurtazione di quanto conseguito dal concedente disponendo dei beni (anche a credito dell’utilizzatore, ove fosse stato realizzato un maggior prezzo di realizzo) era lecita e proponeva un assetto di interessi volto a ristabilire l’equilibrio economico tra le parti.
2.2. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c., nonché degli artt. 1322 e 1371 c.c., assumendo il diritto della società di leasing di conseguire la propria legittima aspettativa contrattuale.
2.3. I due motivi, da trattarsi congiuntamente per connessione, sostanzialmente criticano l’applicazione delle norme indicate, lamentano la mancata valorizzazione della disciplina pattizia derogatoria, sia in relazione agli effetti ex tunc della risoluzione contrattuale, sia in relazione alle pretese risarcitorie per il pregiudizio conseguente alla risoluzione – a dire della ricorrente contrattualmente concordati mediante la previsione di una clausola penale.
2.4. Occorre, però, ricordare che, come ancora recentemente ribadito, nelle rispettive motivazioni, da Cass. n. 25432 del 2020, Cass. n. 14938 del 2018 e Cass. n. 25470 del 2019, il sindacato di legittimità sull’interpretazione degli atti privati – quale risulta essere in concreto quello sollecitato con i due motivi dalla ricorrente – è governato da criteri giuridici cogenti e tendente alla ricostruzione del loro significato in conformità alla comune volontà dei contraenti, costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, censurabile, in sede di legittimità, solo per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (essendo, a questo scopo, imprescindibile la specificazione dei canoni e delle norme ermeneutiche che in concreto sarebbero state violate, puntualizzandosi – al di là della indicazione degli articoli di legge in materia – in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sarebbe discostato) e nel caso di riscontro di una motivazione contraria a logica ed incongrua, e cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione in sé (occorrendo, altresì, riportare, nell’osservanza del principio dell’autosufficienza, il testo dell’atto nella parte in questione). Inoltre, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando siano possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (su tali principi, cfr., ex plurimis, Cass. n. 24539 del 2009, Cass. n. 2465 del 2015, Cass. n. 10891 del 2016; Cass. n. 7963 del 2018, in motivazione).
2.5. In altri termini, il sindacato suddetto non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ed afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà privata operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (cfr., ex aliis, Cass. n. 2465 del 2015; Cass. n. 10891 del 2016).
2.6. La censura neppure può, poi, essere formulata mediante l’astratto riferimento a dette regole, essendo imprescindibile, come si è già anticipato, la specificazione dei canoni in concreto violati e del punto, e del modo, in cui il giudice di merito si sia, eventualmente, discostato dagli stessi, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella decisione impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni (cfr. Cass. n. 28319 del 2017; Cass. n. 25728 del 2013).
2.7. Nel quadro di detti principi, risulta chiaro che la doglianza con cui la ricorrente contesta l’avvenuto riconoscimento in suo favore dell’equo indennizzo ex art. 1526 c.c., comma 1, assumendo che la disciplina pattizia prevedeva altro tipo di regolamentazione dei rapporti in caso di risoluzione, maggiormente confacente a contemperare i contrapposti interessi – sostanzialmente si risolve in una personale valutazione di alcune clausole contrattuali, peraltro senza riportarne, in assolvimento del principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, il testo integrale, non essendo soddisfatto tale onere da una parziale riproduzione delle stesse (cfr. Cass. n. 2560 del 2007; Cass. n. 3075 del 2006; Cass. n. 16132 del 2005).
2.8. Per quanto riguarda la clausola penale, va comunque, rilevato che la stessa è stata ritenuta legittima dal Tribunale e che la decisione è in linea con il principio secondo il quale “In tema di leasing traslativo, nel caso in cui, dopo la risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, intervenga il fallimento di quest’ultimo, il concedente che, in applicazione dell’art. 1526 c.c., intenda far valere il credito risarcitorio derivante da una clausola penale stipulata in suo favore è tenuto a proporre apposita domanda di insinuazione al passivo L. Fall., ex art. 93, in seno alla quale dovrà indicare la somma ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto del contratto ovvero, in mancanza, allegare una stima attendibile del relativo valore di mercato all’attualità, onde consentire al giudice di apprezzare l’eventuale manifesta eccessività della penale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1526 c.c., comma 2” (Cass. Sez. U. n. 2061/2021), anche se non ha dato luogo ad alcun riconoscimento di credito in favore della concedente perché l’ammontare della clausola penale (canoni attualizzati per Euro 214.497,16) è risultato inferiore al valore di stima del bene (Euro 332.500,00), senza che le censure – già carenti nel riportare lo specifico contenuto della clausola contengano alcuna specifica contestazione avverso la CTU, posta dal Tribunale a base dei conteggi.
3.1. Con il quarto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., per avere posto il Tribunale di Firenze le spese di lite ed il compenso del consulente tecnico d’ufficio esclusivamente a carico della società, nonostante potesse ravvisarsi una reciproca soccombenza, quantomeno parziale, avendo avanzato la Curatela una contrapposta domanda di riconoscimento di credito.
3.2. Il motivo è infondato.
3.3. La stessa ricorrente, nel proporre la doglianza, non ha mancato di evidenziare che il Tribunale, avendo rilevato la tardività della costituzione della Curatela la aveva dichiarata decaduta dalle eccezioni in senso stretto e non ne aveva esaminato le domande, come si evince sia dalla parte motiva che dal dispositivo del decreto, che dà conto esclusivamente del rigetto dell’opposizione allo stato passivo: ciò esclude la ricorrenza della reciproca soccombenza.
Ciò detto, la decisione risulta immune dal vizio denunciato, poiché non risulta violato il principio della soccombenza, così ribadendo che il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (Cass. n. 24502 del 17/10/2017; Cass. n. 26912 del 21/11/2020).
4. In conclusione, il ricorso va rigettato, infondati i motivi primo e quarto, inammissibili i motivi secondo e terzo.
Le spese seguono la soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. U. n. 23535 del 20/9/2019).
PQM
Rigetta il ricorso, infondati i motivi primo e quarto, inammissibili i motivi secondo e terzo;
– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, che liquida in Euro 10.000,00, oltre Euro 200,00, per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;
Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021