LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VANNUCCI Marco – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 13102/2015 r.g. proposto da:
Unicredit Leasing s.p.a., e per essa dalla mandataria, Unicredit Credit Management Bank s.p.a., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Marco Nicolosi, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma, Via Lima n. 28.
– ricorrente –
contro
Fallimento ***** s.r.l.;
– intimato –
avverso il decreto del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n. 1642/2015, depositato il 15 aprile 2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 23 settembre 2021 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.
RILEVATO
Che:
1. La Unicredit Leasing s.p.a.’ (per essa, la mandataria Unicredit Credit Management Bank s.p.a.) propose domanda di insinuazione al passivo del fallimento della ***** s.r.l., relativamente al credito, pari ad Euro 119.101,45, vantato in forza di un contratto di locazione finanziaria avente per oggetto veicoli pesanti e accessori, stipulato con la D.M.D. Beton s.r.l. in data 1 luglio 2008 e da quest’ultima società ceduto alla ***** s.r.l. in bonis, come da comunicazione di contraente ceduto intervenuta in data 30 dicembre 2008.
2. Il giudice delegato alla procedura (in corso avanti il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere) rigettò tale domanda sul rilievo dell’inopponibilità della comunicazione di cessione del contratto in quanto priva di data certa (art. 2704 c.c.) anteriore alla dichiarazione di fallimento e del fatto che la sottoscrizione della detta comunicazione non proveniva dal legale rappresentante della società D.M.D..
3. A definizione di procedimento di opposizione alla dichiarazione di esecutività dello stato passivo promosso dalla Unicredit Leasing s.p.a., il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con il decreto qui impugnato, confermò la decisione di segno negativo adottata dal giudice delegato alla procedura.
4. La motivazione del decreto è nel senso che: il contratto di cessione è privo di data certa e la sua anteriorità alla dichiarazione di fallimento non può essere desunta dalle registrazioni contabili della società fallita, posto che il curatore, all’udienza del 1 aprile 2015, aveva ribadito l’assenza di qualsiasi documentazione atta a comprovare l’opponibilità del regolamento negoziale; neanche la corrispondenza intercorsa tra la società opponente ed un terzo – contenente il riferimento al contratto ceduto e dotata di timbro postale (peraltro illeggibile) – può attribuire certezza al contenuto del contratto; non è stata neanche fornita la prova del preventivo consenso scritto del concedente alla cessione del contratto richiesta dall’art. 18 delle condizioni generali; anche a voler ritenere il titolo contrattuale opponibile al fallimento, l’infondatezza della domanda discende dal fatto che il contratto di leasing, fondante la pretesa dell’opponente, era stato risolto prima del fallimento e che, all’esito della risoluzione del contratto, i beni erano stati riconsegnati al concedente e venduti a. terzi per l’importo di Euro 140.166,66; non può dunque trovare applicazione la L. Fall., art. 72 quater, limitato alle ipotesi di contratti ancora in corso al momento del fallimento, dovendo invece applicarsi il diverso parametro normativo dettato dall’art. 1526 c.c., in materia di vendita con patto di riservato dominio, proprio in ragione della natura traslativa del contratto di locazione finanziaria stipulato tra le parti (come era evincibile dall’irrisorietà del presso di opzione rispetto al valore dichiarato nel contratto dei beni oggetto di leasing); in applicazione, poi, dell’art. 1526 c.c., il concedente avrebbe dovuto restituire le rate riscosse (ipotesi quest’ultima inattuale in mancanza di una domanda riconvenzionale del fallimento) e, comunque, l’opponente non poteva essere ammesso al passivo per i canoni scaduti e non pagati, non trovando applicazione l’art. 1458 c.c., comma 1, dovendosi ritenere precluso anche il diritto all’equo compenso e al risarcimento del danno ex art. 1526 c.c., in mancanza di domande avanzate in tal senso dall’opponente.
2. Il decreto, pubblicato il 15 aprile 2015, è impugnato dalla Unicredit Leasing s.p.a., e per essa dalla mandataria Unicredit Credit Management Bank s.p.a., con ricorso per cassazione, affidato a nove motivi.
Il Fallimento intimato non ha svolto difese.
CONSIDERATO
Che:
1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 99, comma 9 e dell’art. 183 c.p.c., comma 7, art. 115 c.p.c. e del combinato disposto degli artt. 116 e 117 c.p.c.. Si evidenzia che aveva formulato mezzi istruttori (ordine di esibizione ex art. 201 c.p.c. e interrogatorio formale del curatore), volti a dimostrare l’anteriorità del regolamento contrattuale e della sua cessione alla fallita e, conseguentemente, del credito oggetto della richiesta di insinuazione, rispetto alla dichiarazione di fallimento, e ciò nonostante il tribunale nulla aveva disposto in proposito e, anzi, aveva ritenuto non dimostrato il detto requisito dell’anteriorità. Si evidenzia ancora che il tribunale, in violazione dell’art. 117 c.p.c., avrebbe attribuito rilevanza assorbente alle dichiarazioni rese dal curatore fallimentare in sede di interrogatorio libero, dando per acquisito il dato relativo all’inidoneità della documentazione contabile in possesso della curatela per dimostrare il requisito dell’anteriorità.
1.1 Il motivo è infondato.
1.1.1 Occorre subito chiarire che, sebbene non vi sia stata un’espressa pronuncia del tribunale in ordine alla richiesta di ammissione dell’interrogatorio formale, essa si presenta come mezzo istruttorio inammissibilmente formulato.
Sul punto è necessario ricordare che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore, in quanto terzo rispetto al fallito e privo della capacità di disporre del diritto controverso, non può essere sollecitato alla confessione su interrogatorio formale con riferimento a vicende attinenti all’obbligazione dedotta in giudizio, né gli è deferibile il giuramento decisorio (in questo senso, cfr., fra le molte: Cass., n. 15570 del 2015; Cass., n. 19418 del 2017).
1.1.2 Inoltre, non è neanche prospettabile una violazione dell’art. 116 del codice di rito, in relazione alla mancata ammissione dell’ordine di esibizione della documentazione contabile, posto che la dichiarazione di indisponibilità di quest’ultima resa dal curatore fallimentare rendeva evidente la non esperibilità del mezzo istruttorio qui in discussione che non può certo rivestire funzioni esplorative e che deve essere ancorato alla disponibilità della documentazione da parte del soggetto cui è indirizzato l’ordine di esibizione. Ne’ tale circostanza integra la dedotta violazione dell’art. 117 c.p.c., nel senso voluto dalla ricorrente, giacché la dichiarazione di indisponibilità della documentazione resa dal curatore non ha in alcun modo introdotto un elemento di prova liberamente apprezzabile dal giudicante, ma piuttosto ha reso evidente la non fruibilità dell’ordine di esibizione per acquisire la prova del sopra menzionato requisito di anteriorità del credito.
2. Il secondo luogo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2704 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Osserva la ricorrente che il tribunale avrebbe errato nel ritenere inidonea la documentazione contabile proveniente dal fallito nonché la corrispondenza intercorsa tra la società opponente e un terzo al fine di comprovare l’opponibilità del regolamento contrattuale al fallimento, posto che l’art. 2704 c.c., non detta una elencazione tassativa dei fatti in relazione ai quali la datazione di una scrittura privata deve ritenersi certa rispetto ai terzi (e dunque anche rispetto alla curatela fallimentare), di modo che la prova dell’anteriorità del credito avrebbe potuto essere estratta anche da altre fonti di prova e da elementi presuntivi di prova. Si osserva ancora che, a tal fine, erano stati depositati nel giudizio oppositivo la missiva del 30 dicembre 2008 a firma della DMD Beton s.r.l., la missiva del 2 gennaio 2009 a firma della ***** srl, nonché l’assegno n. 1006240948 emesso in data 15.2.2010 dalla ***** srl in favore della Unicredit (vincolato a garanzia del contratto di leasing n. PS 1025846).
2.1 Il motivo è inammissibile.
Sul punto, giova ricordare che – in tema di ricorso per cassazione – il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (così, Cass., n. 3340 del 2019; cfr. anche Cass., n. 24155 del 2017). Più precisamente è stato affermato, sempre dalla giurisprudenza di legittimità, che le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3), l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (in questo senso, cfr. Cass., n. 640 del 2019).
2.2 Ciò detto, risulta evidente come la società ricorrente intenda, ora, sollecitare questa Corte di legittimità, sotto l’egida applicativa del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, ad una rivisitazione diretta della quaestio facti, tramite la rilettura della documentazione sopra ricordata, per accreditare un diverso scrutinio del requisito dell’anteriorità del credito; scrutinio che, invece, è inibito alla Corte di cassazione per le ragioni già sopra illustrate.
E ciò senza neanche contare che le censure proposte dalla ricorrente, come tali incentrate sul profilo della datazione del contratto di leasing (e dunque della sua esistenza prima della dichiarazione di fallimento), trascurano di censurare la ratio decidendi posta a sostegno del giudizio di non opponibilità del credito: e cioè che era rimasto indimostrata – sia in sede di verifica dei crediti che nel successivo giudizio oppositivo – l’intervenuta cessione del predetto contratto tra D.M.D. BETON s.r.l. e la ***** s.r.l. (all’epoca in bonis); cessione che costituiva il titolo negoziale in base al quale la società concedente il leasing aveva fondato la ragione giuridica della sua domanda di ammissione al passivo.
3. Con il terzo motivo si censura il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), per violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 101 c.p.c., comma 2. Si evidenzia che il tribunale, nel rigettare la domanda di ammissione al passivo avanzata dalla società ricorrente, avrebbe evidenziato, con rilievo peraltro officioso della questione, che non sarebbe stata neanche fornita la prova del preventivo consenso scritto del concedente rispetto alla cessione del contratto, come invece richiesto dall’art. 18 delle condizioni generali di contratto. Osserva ancora la ricorrente che tale eccezione non era stata sollevata dalle parti, con ciò determinando, da un lato, la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c., e, dall’altro, la necessità comunque di concedere un termine alle parti, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 2, per consentire il contraddittorio tra le parti sulla questione rilevata d’ufficio dal giudice.
3.1 La doglianza è inammissibile perché la questione relativa al mancato consenso scritto del concedente, ai sensi dell’art. 18 delle clausole generali del contratto di leasing, costituisce, all’evidenza, un mero argomento ad abundantiam; non essendo invero questa la vera ratio decidendi del provvedimento di rigetto della domanda di ammissione al passivo; ratio che riposa, invece, sulla diversa questione della mancata dimostrazione dell’anteriorità delle cessione del contratto rispetto alla dichiarazione di fallimento e che, per quanto sopra detto, non è stata adeguatamente censurata in questa sede (cfr. Cass., n. 30354 del 2017).
4. Il quarto mezzo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 1526 c.c. e L. Fall., art. 72-quater. Si osserva l’erroneità della decisione impugnata laddove la stessa aveva ritenuto, pur volendo superare il profilo della non opponibilità del titolo contrattuale sulla cui base era stata chiesta l’ammissione al passivo, che la domanda non era comunque da accogliere sulla scorta di quanto disposto dall’art. 1526 c.c., con ciò incorrendo nella violazione dell’art. 112 c.p.c., non essendo tale questione stata prospettata dalle parti e in particolare dalla curatela fallimentare.
4.1 Il motivo è infondato.
Sul punto qui in discussione occorre ricordare che – in materia di procedimento civile – l’applicazione del principio iura novit curia, di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, importa la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili al caso concreto sottoposto al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Tale principio deve essere posto in immediata correlazione con il divieto di ultra o extra-petizione, di cui all’art. 112 c.p.c., in applicazione del quale è invece precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato (cfr.: Cass., n. 5832 del 2021; Cass., n. 11629 del 2017). Ciò posto, non può sfuggire che il tribunale – proprio in applicazione del principio iura novit curia e della doverosità per il giudice di dare la più corretta qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite – si è limitato a ritenere applicabile al caso concreto il disposto normativo di cui all’art. 1526 c.c. (peraltro correttamente), anziché il diverso parametro normativo invocato dalla società opponente (L. Fall., art. 72-quater); e ciò, ricercando le norme giuridiche applicabili alla vicenda descritta in giudizio e ponendo a fondamento della sua decisione disposizioni e principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalla parte opponente, senza tuttavia immutare la fattispecie concreta, da cui conseguirebbe, sì, la violazione del principio di correlazione tra il chiesto e il pronunciato (si veda: Cass. n. 12943 del 2012).
5. Il ricorrente propone, inoltre, un quinto motivo con il quale deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, e art. 1526 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3) e 4). Si osserva che, anche a voler comunque ritenere rilevabile d’ufficio la questione dell’applicazione analogica al caso di specie dell’art. 1526 c.c., il tribunale avrebbe dovuto comunque concedere, ai sensi della norma processuale da ultimo ricordata, un termine alle parti per poter contraddire sul punto, perché, diversamente operando invece il giudice dell’opposizione, si era preclusa la possibilità ad essa società opponente di contrastare la qualificazione del contratto come leasing traslativo e l’applicazione delle disposizioni normative di cui all’art. 1526 c.c., sia mediante argomentazioni in fatto che in diritto, sia mediante articolazione di apposite istanze istruttorie (richiesta di consulenza tecnica di ufficio).
5.1 Anche la doglianza in esame è infondata.
Va precisato che la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, stabilito dall’art. 101 c.p.c., comma 2, non riguarda le questioni di solo diritto, ma quelle di fatto ovvero quelle miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese (cfr., per tutte: Cass. n. 11724 del 2021).
Ebbene, la questione relativa all’applicazione del diverso parametro normativo invocato (peraltro erroneamente, per quanto si dirà a breve), e cioè il disposto normativo di cui alla L. Fall., art. 72-quater, anziché quello (correttamente applicato) dettato dall’art. 1526 c.c., integra una questione di mero diritto che non richiede invero accertamenti in fatto ovvero approfondimenti istruttori da parte del giudice del merito: la decisione adottata non determina dunque la, denunciata, violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2.
6. Con il sesto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c. e della L. Fall., art. 72-quater, in relazione al regime normativo applicabile al caso di specie.
7. Il settimo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1526 e 1458 c.c..
7.1 Tali due motivi – che possono essere trattati congiuntamente, proponendo la soluzione delle medesime questioni in diritto – devono essere rigettati.
Sul punto, è necessario ricordare il recentissimo intervento nomofilattico espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte nell’arresto contenuto nella sentenza n. 2061 del 28 gennaio 2021, secondo cui, in tema di leasing finanziario: la disciplina di cui alla L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140, non ha effetti retroattivi, sì che il comma 138 si applica alla risoluzione i cui presupposti si siano verificati dopo l’entrata in vigore della legge stessa; per i contratti anteriormente risolti resta valida, invece, la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, con conseguente applicazione analogica, a quest’ultima figura, della disciplina dell’art. 1526 c.c.; e ciò anche se la risoluzione sia stata seguita dal fallimento dell’utilizzatore, non potendosi applicare analogicamente la L. Fall., art. 72-quater.
7.2 E’ stato così superato un precedente orientamento interpretativo, inaugurato da Cass. n. 8980 del 2019, che predicava proprio l’applicazione analogica della disciplina dettata dal citato art. 72-quater, in caso di scioglimento di contratto di leasing per iniziativa del curatore nell’ambito di procedura fallimentare, siccome assunta in guisa di principio generale proprio alla luce, retrospettiva, della novella legislativa del 2017 e in forza del comune denominatore, tra le due fattispecie, rappresentato dall’attribuzione al concedente del diritto alla restituzione del bene concesso in godimento e all’utilizzatore o alla curatela del ricavato della vendita o di altra allocazione del bene medesimo, detratto l’ammontare del credito residuo (nella portata specificamente stabilita per ciascuna fattispecie interessata). Sul punto le Sezioni Unite, nell’arresto sopra ricordato, hanno avuto modo di precisare, in motivazione, che:
rappresenta “jus receptum (tra le altre, Cass., 9 febbraio 2016, n. 2538, Cass., 13 febbraio 2017, n. 3750, Cass., 7 settembre 2017, n. 20890, Cass., 15 settembre 2017, n. 21476, Cass., 12 giugno 2018, n. 15202, Cass., 18 giugno 2018, n. 15975, Cass., 17 aprile 2019, n. 10733, Cass., 24 gennaio 2020, n. 1581) che la L. Fall., art. 72-quater, introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006 – sebbene quanto agli effetti da essa regolati ha superato la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, assumendo a proprio fondamento una disciplina unitaria del leasing improntata alla causa del contratto di finanziamento – è norma, di natura eccezionale, a valenza e portata endoconcorsuale, presupponendo lo scioglimento, per volontà del curatore e quale conseguenza del fallimento, del contratto ancora pendente a quel momento. Sicché, la norma fallimentare mantiene salda la distinzione strutturale esistente tra la nozione di risoluzione contrattuale e quella di scioglimento del contratto, quale facoltà riconosciuta ad una pluralità di rapporti pendenti tra il contraente ed il fallito, tra i quali, per l’appunto, anche il leasing, che rientra nel novero dei contratti che – al momento dell’apertura del concorso – restano sospesi secondo la regola generale di cui alla L. Fall., art. 72, comma 1”;
inoltre, “il “diritto vivente” ha escluso – in assenza di una eadem ratio e di simili elementi, strutturali e/o funzionali, rilevanti – che la disciplina dettata dalla L. Fall., art. 72-quater, potesse trovare applicazione analogica in caso di contratto di leasing finanziario risolto, per inadempimento dell’utilizzatore, prima del fallimento di quest’ultimo, avendo invece rinvenuto la disposizione idonea a colmare la lacuna ordinamentale, in coerenza con i criteri di cui all’art. 12 preleggi, in quella generale codicistica dell’art. 1526 c.c., in ipotesi di leasing traslativo. Ma tale giuridica configurazione della L. Fall., art. 72-quater, non ha subito una trasmutazione con l’avvento della disciplina di cui alla L. n. 124 del 2017, art. 1, comma 136-140, la quale, anzi, al citato comma 140 ha stabilito che “(r)estano ferme le previsioni di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 72-quater (…)”, con ciò ribadendo la specialità della norma fallimentare e la sua portata circoscritta all’ambito di specifica pertinenza”.
Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte – e qui applicati anche per espresso obbligo di legge – le doglianze sollevate dalla società ricorrente devono essere pertanto disattese; essendo il decreto impugnato caratterizzato da motivazione conforme a tali principi.
8. Con l’ottavo motivo si impugna il decreto del tribunale per violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Si evidenzia che il tribunale, nel ritenere applicabile in via analogica il disposto normativo di cui all’art. 1526 c.c., al caso concreto in esame, avrebbe omesso di considerare l’applicabilità del regolamento negoziale di cui all’art. 21 delle condizioni generali di contratto, applicabilità che sarebbe consentita anche sulla base di quanto disposto dall’art. 1526 c.c., commi 1 e 2, laddove prevede la possibilità per il concedente di richiedere l’equo compenso ed il risarcimento del danno, anche tramite la previsione di una clausola penale convenzionalmente stabilita dalle parti.
8.1 La censura, per come formulata, è inammissibile. Invero, non emerge né dalla lettura del provvedimento impugnato né dallo stesso motivo di ricorso in esame che la società ricorrente avesse prospettato la questione qui oggi dedotta come ragione legittimante la sua richiesta di ammissione al passivo, così rendendo la censura non autosufficiente, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 6) e comunque nuova perché proposta per la prima volta in questo giudizio di legittimità.
9. Il nono motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2729 c.c., in ordine alla valutazione degli elementi indiziari apprezzati dal tribunale per ritenere traslativo il contratto di leasing in discussione.
9.1 Risulta utile ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, in tema di prova presuntiva, è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (cfr. e multis, Cass., n. 1234 del 2019).
Orbene, rileva il Collegio come in realtà la società ricorrente pretenda, ora, una nuova valutazione degli elementi di prova indiziaria per accreditare un nuovo giudizio sulla qualificazione giuridica del contratto (che rappresenta, invero, un accertamento in fatto demandato al giudice del merito), senza neanche prospettare un vizio di motivazione nel senso sopra ricordato.
10. Il ricorso deve in conclusione essere rigettato.
Nessuna statuizione è dovuta per le spese del giudizio di legittimità non avendo la parte vittoriosa svolto difese.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. S.U., n. 23535 del 2019).
PQM
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021
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