LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VANNUCCI Marco – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 18067/2015 r.g. proposto da:
Unicredit Leasing s.p.a., e per essa dalla mandataria Unicredit Credit Management Bank s.p.a., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Marco Nicolosi, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma, Via Lima n. 28.
– ricorrente –
contro
Fallimento ***** s.r.l.;
– intimato –
avverso il decreto del Tribunale di Napoli n. 1314/2015, depositato in data 15 giugno 2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 23 settembre 2021 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.
RILEVATO
Che:
1. La Unicredit Leasing s.p.a. (per essa, la mandataria Unicredit Credit Management Bank s.p.a.) presentò domanda di ammissione al passivo del Fallimento ***** s.r.l. per l’importo complessivo di Euro 445.895,04, esponendo che era creditrice della fallita in virtù di tre contratti di locazione finanziaria, aventi ad oggetto beni strumentali, per canoni scaduti e non pagati, oltre che per penali risarcitorie e interessi di mora.
2. Il giudice delegato alla procedura, pendente avanti il Tribunale di Napoli, non ammise tali crediti al passivo: rilevando la mancanza di data certa dei contratti e dunque la non opponibilità degli stessi al fallimento; evidenziando la natura traslativa dei contratti di leasing e la loro risoluzione prima della dichiarazione di fallimento, con conseguente applicazione analogica del disposto normativo di cui all’art. 1526 c.c..
3. Tale società propose quindi opposizione al passivo dichiarato esecutivo deducendo che la prova dell’anteriorità dei contratti rispetto alla dichiarazione di fallimento emergeva dalla documentazione prodotta e che inoltre il contratto n. ***** era pervenuto alla sua naturale scadenza e non era stato pertanto risolto anticipatamente, come invece affermato dal fallimento, e sostenendo inoltre, per gli altri due contratti, l’applicabilità del disposto normativo di cui alla L. Fall., art. 72-quater; con richiesta dunque di ammissione al passivo dei crediti azionati.
4. Con il decreto impugnato il Tribunale di Napoli: accolse l’opposizione nella sola parte relativa al credito di Euro 2.238,50, oltre interessi di mora sino alla dichiarazione di fallimento, maturato per effetto del contratto n. *****; respinse le altre domande della società opponente.
5. La motivazione del decreto è nel senso che: in primo luogo, era stata dimostrata in giudizio l’anteriorità dei contratti rispetto alla dichiarazione di fallimento; per il contratto n. ***** (privo di data certa e con data apparente del 29.11.2006) gli obblighi contrattuali avevano avuto naturale scadenza dopo il quinquennio contrattualmente stabilito, con conseguente diritto della società opponente a essere ammessa al passivo per l’importo di Euro 2.238,50, costituendo lo stesso il residuo corrispettivo del detto contratto di leasing maturato, scaduto e non pagato e non applicandosi dunque le regole previste dall’art. 1526 c.c., in caso di risoluzione anticipata del contratto di leasing traslativo; invece, per i contratti di cui ai nn. ***** e *****, era stata acquisita in atti la prova della loro anticipata risoluzione negoziale sulla base della clausola risolutiva espressa concordata tra le parti, non trovando dunque applicazione la L. Fall., art. 72-quater (la cui disciplina presuppone la pendenza del rapporto al momento della dichiarazione di fallimento) ma diversamente (e come correttamente ritenuto dal g.d.) il disposto normativo di cui all’art. 1526 c.c. e ciò escludeva anche l’applicazione della regola generale prevista dall’art. 1458 c.c., comma 1, per la risoluzione dei rapporti contrattuali ad esecuzione periodica e continuativa; i due contratti da ultimo menzionati rientravano nel paradigma dei contratti di leasing traslativo, secondo gli indici identificativi indicati dalla giurisprudenza di legittimità, posto che: i) i beni oggetto del leasing rientravano pacificamente, secondo le nozioni di comune esperienza, tra quelli destinati a consumarsi, economicamente e tecnologicamente, nell’arco naturale di esecuzione dei contratti medesimi; ii) il prezzo di opzione doveva considerarsi irrisorio rispetto al valore iniziale dei beni; iii) l’acquisto dei beni oggetto dei menzionati contratti, sebbene non previsto contrattualmente come obbligo dell’utilizzatore, doveva comunque ritenersi evenienza ineludibile perché giustificato dalla necessità per quest’ultimo di non subire una perdita economica secca; iv) erano state altresì pattuite tra le parti clausole prevedenti obblighi di manutenzione e di assicurazione, chiaramente espressive della consapevolezza del perdurante valore dei beni alla scadenza del contratto, della sua palese eccedenza rispetto al prezzo di opzione e della coessenzialità al contratto della causa di trasferimento; è dunque applicabile al caso di specie il disposto normativo di cui all’art. 1526 c.c., comma 1, con conseguente obbligo del concedente alla restituzione dei canoni percetti, non potendosi tuttavia accedere a tale statuizione di condanna in assenza di una domanda riconvenzionale all’uopo presentata dal fallimento nel giudizio di opposizione e non potendosi neanche riconoscere il diritto della società opponente all’ammissione al passivo per i canoni scaduti e non pagati, non trovando applicazione la regola generale di cui all’art. 1458 c.c., comma 1; non è infine possibile ammettere la società istante al passivo per il credito da equo compenso per l’uso della cosa ovvero per il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento dell’utilizzatore (come previsto espressamente dell’art. 1526 c.c., comma 1) posto che la società opponente non aveva avanzato domande in tal senso, né aveva allegato e dimostrato in giudizio l’eventuale danno subito.
6. Il decreto, pubblicato il 15 giugno 2015, è impugnato dalla Unicredit Leasing s.p.a., e per essa dalla mandataria Unicredit Credit Management Bank s.p.a., con ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
Il Fallimento intimato non ha svolto difese.
CONSIDERATO
Che:
1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c. e L. Fall., art. 72-quater, per la ritenuta inapplicabilità ai due contratti di cui ai nn. ***** e *****, della normativa da ultimo citata per essere stati gli stessi risolti in data antecedente alla dichiarazione di fallimento. Si osserva che doveva considerarsi ormai desueta e superata la distinzione tra leasing traslativo e di godimento, distinzione invece affermata nel decreto del tribunale partenopeo, perché lo stesso legislatore, nella disciplina introdotta in ambito concorsuale dalla L. Fall., art. 72-quater, aveva ricondotto ad unità le due figure, di matrice pretoria, così dando prevalenza alla causa di finanziamento rispetto a quella di scambio e così dimostrando di voler definitivamente superare l’indirizzo giurisprudenziale tradizionale.
2. Con il secondo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1526 e 1458 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Osserva la società ricorrente che le ragioni – che avevano indotto la giurisprudenza di legittimità ad applicare in via analogica le disposizioni recate dall’art. 1526 c.c. e che si identificavano nell’esigenza di ripristinare il sinallagma contrattuale ed evitare l’ingiustificato arricchimento della società concedente il leasing – dovevano considerarsi superate in ragione dell’uniforme riformulazione delle clausole contrattuali volte alla determinazione della c.d. “penale di risoluzione”, nelle quali si prevede espressamente l’imputazione in favore dell’utilizzatore inadempiente di quanto ricavato dalla riallocazione del bene, con conseguente necessità di rendere applicabile la regola generale, in tema di risoluzione dei contratti, dettata dall’art. 1458 c.c., dovendosi pur sempre ritenere il contratto di leasing un negozio ad esecuzione continuata e periodica e con l’ovvia conseguenza che la risoluzione non potrebbe travolgere le prestazioni già eseguite.
2.1 I primi due motivi – da trattare congiuntamente, essendo in essi implicate le medesime questioni in diritto – devono essere rigettati.
2.2 Sul punto, è necessario ricordare il recentissimo intervento nomofilattico espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte nell’arresto contenuto nella sentenza n. 2061 del 28 gennaio 2021, secondo cui, in tema di leasing finanziario: la disciplina di cui alla L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140, non ha effetti retroattivi, sì che il comma 138, si applica alla risoluzione i cui presupposti si siano verificati dopo l’entrata in vigore della legge stessa; per i contratti anteriormente risolti resta valida, invece, la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, con conseguente applicazione analogica, a quest’ultima figura, della disciplina dell’art. 1526 c.c. e ciò anche se la risoluzione sia stata seguita dal fallimento dell’utilizzatore, non potendosi applicare analogicamente la L. Fall., art. 72-quater.
2.3 E’ stato così superato un precedente orientamento interpretativo, inaugurato da Cass. n. 8980 del 2019, che predicava proprio l’applicazione analogica della disciplina dettata dalla L. Fall., art. 72-quater, in caso di scioglimento di contratto di leasing ad opera del curatore nell’ambito di procedura fallimentare, siccome assunta in guisa di principio generale proprio alla luce, retrospettiva, della novella legislativa del 2017 e in forza del comune denominatore, tra le due fattispecie, rappresentato dall’attribuzione al concedente del diritto alla restituzione del bene concesso in godimento e all’utilizzatore o alla curatela del ricavato della vendita o di altra allocazione del bene medesimo, detratto l’ammontare del credito residuo (nella portata specificamente stabilita per ciascuna fattispecie interessata). Sul punto le Sezioni Unite nell’arresto sopra ricordato hanno avuto modo di precisare, in motivazione, che:
rappresenta “jus receptum (tra le altre, Cass., 9 febbraio 2016, n. 2538, Cass., 13 febbraio 2017, n. 3750, Cass., 7 settembre 2017, n. 20890, Cass., 15 settembre 2017, n. 21476, Cass., 12 giugno 2018, n. 15202, Cass., 18 giugno 2018, n. 15975, Cass., 17 aprile 2019, n. 10733, Cass., 24 gennaio 2020, n. 1581) che la L. Fall., art. 72-quater, introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006 – sebbene quanto agli effetti da essa regolati ha superato la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, assumendo a proprio fondamento una disciplina unitaria del leasing improntata alla causa del contratto di finanziamento – è norma, di natura eccezionale, a valenza e portata endoconcorsuale, presupponendo lo scioglimento, per volontà del curatore e quale conseguenza del fallimento, del contratto ancora pendente a quel momento. Sicché, la norma fallimentare mantiene salda la distinzione strutturale esistente tra la nozione di risoluzione contrattuale e quella di scioglimento del contratto, quale facoltà riconosciuta ad una pluralità di rapporti pendenti tra il contraente ed il fallito, tra i quali, per l’appunto, anche il leasing, che rientra nel novero dei contratti che – al momento dell’apertura del concorso – restano sospesi secondo la regola generale di cui alla L. Fall., art. 72, comma 1”.
inoltre, “il “diritto vivente” ha escluso – in assenza di una eadem ratio e di simili elementi, strutturali e/o funzionali, rilevanti – che la disciplina dettata dalla L. Fall., art. 72-quater, potesse trovare applicazione analogica in caso di contratto di leasing finanziario risolto, per inadempimento dell’utilizzatore, prima del fallimento di quest’ultimo, avendo invece rinvenuto la disposizione idonea a colmare la lacuna ordinamentale, in coerenza con i criteri di cui all’art. 12 preleggi, in quella generale codicistica dell’art. 1526 c.c., in ipotesi di leasing traslativo. Ma tale giuridica configurazione della L. Fall., art. 72-quater, non ha subito una trasmutazione con l’avvento della disciplina di cui alla L. L. n. 124 del 2017, art. 1, comma 136-140, la quale, anzi, al citato comma 140 ha stabilito che “(r)estano ferme le previsioni di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 72-quater (…)”, con ciò ribadendo la specialità della norma fallimentare e la sua portata circoscritta all’ambito di specifica pertinenza”.
Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte – e qui applicati anche per espresso obbligo di legge – le doglianze sollevate dalla società ricorrente devono essere pertanto disattese; essendo il decreto impugnato caratterizzato da motivazione conforme a tali principi.
3. Con il terzo motivo si censura il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione degli artt. 1526 e 1382 c.c.. Osserva la ricorrente che il provvedimento impugnato, con motivazione censurabile in punto di diritto, avrebbe affermato che il disposto normativo di cui all’art. 1526 c.c. è norma imperativa, non considerando che le parti negoziali avevano contrattualmente stabilito, all’art. 21 delle condizioni generali di contratto, le conseguenze convenzionali della risoluzione contrattuale per inadempimento dell’utilizzatore prevedendo, per evitare indebiti arricchimenti in favore della concedente, l’obbligo della stessa di dedurre dall’ammontare complessivo delle somme dovute contrattualmente il ricavato della vendita del bene locato, convenzione quest’ultima che non risultava neanche contraria alle stesse disposizioni normative dettate dall’art. 1526 c.c., posto che quest’ultime, non solo dispongono che le parti possano pattuire di trattenere i ratei versati (comma 2), ma anche la possibilità del risarcimento del danno (comma 1), senza contare che le parti, nell’ambito della loro autonomia negoziale, potrebbero predeterminate contrattualmente l’ammontare del risarcimento mediante la clausola penale.
3.1 La doglianza – così articolata – è inammissibile sia perché la richiesta di ammissione al passivo sulla base di quanto disposto dalla clausola delle condizioni generali di contratto di cui al richiamato art. 21 rappresenta fatto nuovo la cui deduzione non risulta formulata nel corso del giudizio di opposizione (il decreto impugnato non ne fa menzione alcuna e la ricorrente non indica ove avrebbe sollevato tale questione), sia perché la stessa dimentica di censurare la ratio decidendi del provvedimento impugnato che, sul punto qui da ultimo in discussione, esclude che la ricorrente avesse richiesto, quale titolo giustificativo della domanda di ammissione del credito al passivo, il risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento dell’utilizzatore ovvero, più semplicemente, l’equo compenso per il godimento del bene.
4. Con il quarto mezzo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., commi 1 e 2, laddove il decreto impugnato aveva affermato che il prezzo di opzione era irrisorio rispetto al valore iniziale del bene, secondo una valutazione affidata alla comune esperienza.
4.1 Anche tale ultima doglianza è inammissibile perché trascura di censurare le ulteriori rationes decidendi poste a sostegno della qualificazione giuridica del contratto quale leasing traslativo (consumazione economica e tecnologica dei beni nell’arco naturale di esecuzione dei contratti; necessità di acquisto dei beni oggetto dei contratti di leasing da parte dell’utilizzatore, sebbene non prevista contrattualmente come obbligo dell’utilizzatore, per evitare perdita economica; clausole contrattuali con obblighi di manutenzione e di assicurazione, chiaramente espressive della consapevolezza del perdurante valore dei beni alla scadenza del contratto, della sua palese eccedenza rispetto al prezzo di opzione e della coessenzialità al contratto della causa di trasferimento).
Sul punto è utile ricordare che il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata e a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi (cfr., in questo senso: Cass. S.U., n. 7931 del 2013; Cass., n. 2108 del 2012; Cass., n. 4293 del 2016; Cass., 9752 del 2017; Cass., n. 11493 del 2018; Cass., n. 16314 del 2019; Cass., n. 18119 del 2020).
A ciò va aggiunto che la doglianza introduce, sotto l’egida formale del vizio di violazione di legge, una richiesta di rivalutazione di questione di fatto, inammissibile nel giudizio di legittimità.
5. Nessuna statuizione è dovuta per le spese processuali relative al giudizio di legittimità non avendo la parte vittoriosa svolto difese.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. S.U., n. 23535 del 2019).
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021
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