Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.31867 del 05/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13198/2012 R.G. proposto da:

FRAMEC S.p.A., in liquidazione in concordato preventivo, in persona del liquidatore pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Fausto Bellato ed Antonino Spinoso, presso cui è elettivamente domiciliata in Roma Via Mordini n. 14;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma, in via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza n.26/22/11 della Commissione tributaria regionale del Piemonte, pronunciata in data 10 febbraio 2011, depositata in data 7 aprile 2011 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 marzo 2021 dal consigliere Andreina Giudicepietro.

RILEVATO

CHE:

la FRAMEC S.p.A. ricorre con due articolati motivi contro l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n.26/22/11 della Commissione tributaria regionale del Piemonte, pronunciata in data 10 febbraio 2011, depositata in data 7 aprile 2011 e non notificata, che ha parzialmente accolto l’appello incidentale dell’Ufficio, rigettando quello principale della contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnativa dell’avviso di accertamento per maggiori Ires, Irap ed Iva relative all’anno di imposta 2004;

a seguito del ricorso, l’Agenzia si costituisce e resiste con controricorso;

il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio 10 marzo 2021, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197;

il P.G. Alberto Cardino ha fatto pervenire requisitoria scritta, con cui ha chiesto l’accoglimento parziale del ricorso;

parte ricorrente ha depositato memoria, ex art. 380 bis 1 c.p.c..

CONSIDERATO

CHE:

preliminarmente, deve rilevarsi che sulle questioni che riguardano il rilievo n. 1 dell’avviso di accertamento, su cui la società ricorrente non ha impugnato il capo sfavorevole della sentenza della C.t.r., nonché i rilievi 4 e 6 dell’atto impositivo, sui quali non vi è stato ricorso incidentale dell’ufficio, si è formato il giudicato interno; inoltre, risulta formatosi il giudicato interno anche sul rilievo dell’avviso di accertamento, limitatamente alla non deducibilità dei costi relativi ad operazioni con paesi cd. black list, su cui vi è acquiescenza espressa della società contribuente;

con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3);

il motivo si articola in quattro distinte doglianze: L. violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 106, commi 1 e 2, (T.u.i.r.) ed errata applicazione dell’art. 101, comma 4 e 5, T.u.i.r. quanto ai rilievi nn. 2, 3 dell’avviso di accertamento; violazione dell’art. 112 c.p.c. quanto al rilievo n. 3 dell’avviso; II. violazione dell’art. 109, nn. 4-5 T.u.i.r. per errata applicazione quanto al rilievo n. 5 dell’avviso di accertamento; III. violazione dell’art. 109, comma 4 e 5, T.u.i.r. quanto al rilievo n. 7 dell’avviso di accertamento; IV. violazione ed errata applicazione dell’art. 109 T.u.i.r. quanto al rilievo n. 8 dell’avviso di accertamento;

quanto ai rilievi nn. 2 e 3 dell’accertamento (prima doglianza), la ricorrente deduce la violazione dell’art. 106, commi 1 e 2 Tu.i.r. e l’errata applicazione dell’art. 101, comma 4 e 5 Tu.i.r., in quanto, con la sentenza impugnata, è stata effettuata un’unica “classazione” delle “perdite su crediti” occorrendo invece distinguerne all’interno la ben diversa natura e disciplina relative;

inoltre, limitatamente al rilievo n. 3, la ricorrente muove l’ulteriore censura di violazione dell’art. 112 c.p.c. per aver omesso lo stesso giudice di pronunciare su tutta la domanda, non avendo assolutamente preso in considerazione le singole peculiarità di ciascuna perdita;

bisogna premettere che l’ufficio di Casale Monferrato dell’Agenzia delle Entrate, competente all’epoca dei fatti, aveva notificato alla società – svolgente l’attività di fabbricazione di attrezzature per refrigerazione – l’avviso di accertamento n. ***** afferente il periodo di imposta 2004, a seguito di verifica fiscale da parte di funzionari della Direzione Regionale del Piemonte, Settore Accertamento, Ufficio Controlli Fiscali che avevano redatto processo verbale di constatazione;

al punto n. 2 (Perdite su crediti utilizzazione fondo Euro 35.218,13) dell’avviso di accertamento, l’ufficio rilevava che la società aveva contabilizzato perdite su crediti riferite a debitori vari per l’importo di Euro 35.218,13, utilizzando il relativo fondo perdite su crediti, senza che tali perdite risultassero da elementi certi e precisi in violazione del disposto del D.P.R. n. 917 del 1986 artt. 101 e 106;

al punto n. 3 (Perdite su crediti costo dell’esercizio Euro 212.573,47) l’ufficio rilevava, inoltre, che la società imputava all’esercizio 2004 perdite su crediti riferite a clienti e debitori vari italiani e stranieri, senza essere in possesso di idonea documentazione atta a determinare la presenza di elementi certi e precisi che attestassero la definitiva inesigibilità del credito stesso, in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 101 e 106;

la ricorrente, in ordine al rilievo n. 2 contesta l’addebito, ritenendo che aver giustificato il recupero a tassazione con il richiamo degli artt. 101 e 106 T.u.i.r., come aveva fatto il giudice d’appello, costituisse una falsa applicazione di legge, in quanto l’utilizzo del c.d. fondo perdite non costituisce imputazione di costi al conto economico ma si riflette unicamente sul passivo dello stato patrimoniale, non comportando nessuna variazione in aumento del reddito di esercizio, non incidendo pertanto sull’imponibile fiscale dell’esercizio;

in ordine al rilievo n. 3, la ricorrente rileva trattarsi di perdite su crediti addebitate a costi di esercizio riconducibili a tre diverse situazioni oggettive:

3.1 – Euro 62.211,84 – crediti verso Dirigenti e/o dipendenti dell’Azienda sorti in seguito ad emissione di documenti fiscali nel 1998/1999/2000, quando semestralmente la FRAMEC emetteva nota a debito a Dirigenti e dipendenti che avessero in uso un’auto aziendale, anche per raggiungere il proprio domicilio, attribuendola ad uso privato;

la società deduce che nell’anno 1999 erano intervenuti nuovi accordi con i Dirigenti/dipendenti ai quali l’uso dell’auto aziendale in quota al dipendente non sarebbe più stato addebitato con effetto retroattivo al fine di recupero di fiducia e collaborazione con gli interessati;

secondo la ricorrente, tali “crediti” non derivano né da cessioni di beni né da prestazioni di servizi di cui all’art. 85, comma 1, T.u.i.r., restando del tutto estranei ed esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 106 Tu.i.r. e ricompresi piuttosto nella disciplina di cui all’art. 101, n. 4 Tu.i.r. con natura di “sopravvenienze passive”;

3.2 – Euro 13.708,48 – trattasi di perdite su crediti clienti Italia (dei quali tutti i nominativi riportati dai Verificatori sub lett. B); pag. 19 del processo verb. const.) per “importi di carattere molto esiguo” ai quali la società aveva rinunziato in quanto il recupero di detti importi sarebbe stato di costo superiore e, comunque, per la grandissima parte prescritti;

3.3 – Euro 191.871,28 – crediti verso clienti stranieri così composti: – per Euro 116.962,46 crediti “extra CEE” al 31/12/04 – per Euro 54.908,82 crediti CEE al 31/12/04;

la FRAMEC S.p.A. aveva eccepito che, quanto al primo “gruppo” di crediti (extra CEE) “tutti gli importi in questione sono relativi a differenze cambio generatesi in contabilità tra il cambio in vigore alla data della fattura emessa dalla FRAMEC S.p.A. ed il cambio in vigore alla data del pagamento della stessa da parte del cliente”; non si sarebbe trattato, quindi, di “perdite su crediti”, ma di perdite su cambio per crediti da clienti extra CEE per i quali l’incasso in valuta straniera era stato contabilizzato ad un cambio inferiore a quello del momento della cessione;

quanto al secondo gruppo di crediti, la società sostiene di aver dimostrato che la Società Ind. del Frio (E) – codice aziendale ***** – era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Valencia (E) nel 1994 ed, altresì, che le numerose azioni intraprese nei confronti di altri clienti avevano avuto esito negativo;

secondo la ricorrente, l’omissione di un’accurata individuazione della diversa natura delle “perdite su crediti” e la singola disamina delle medesime in luogo del “cumulo” indifferenziato effettuato dal giudice d’appello, oltre che rivelare le singole specifiche violazioni di legge sopra eccepite, importerebbe l’ulteriore censura di violazione dell’art. 112 c.p.c. per aver omesso lo stesso giudice di pronunciare “su tutta la domanda”, non avendo assolutamente preso in considerazione le singole peculiarità di ciascuna “perdita”, né le risultanze dei relativi documenti nella generica affermazione “agli atti non si ravvisano elementi certi (decreti di ingiunzione o similari)”;

con il secondo motivo, da esaminare unitamente al primo, la ricorrente denunzia l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5);

secondo la ricorrente, il giudice di appello sarebbe incorso, per i singoli rilievi già oggetto del primo motivo, nell’omissione di motivazione, per l’omessa o errata valutazione di risultanze istruttorie, che se effettuata avrebbe potuto condurre a decisione diversa ed opposta rispetto a quella adottata dal Giudice a quo, ed anche di documenti, che se esaminati avrebbero potuto determinare un convincimento diverso;

i motivi sono in parte fondati;

riguardo alla prima doglianza, relativa all’utilizzo del fondo “perdite su crediti”, deve rilevarsi che, in tema di imposte sui redditi, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 101, comma 5, prevede che le perdite su crediti sono deducibili dal reddito imponibile soltanto se risultino da elementi certi e precisi ed, in ogni caso, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali;

l’utilizzo del fondo per la copertura delle perdite su crediti non si sottrae a questa regola e deve avvenire nel pieno rispetto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5;

inoltre, come è stato detto, “ove venga istituito un fondo rischi su crediti, le perdite sui crediti realizzate successivamente agli accantonamenti previsti in bilancio, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 106, comma 2, sono deducibili, a norma dell’art. 101 dello stesso decreto, non integralmente, ma solo per la parte che eccede l’ammontare complessivo degli accantonamenti dedotti nei precedenti esercizi” (Cass. Sez. trib., 03/04/2019, n. 9237);

passando alla prospettata violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alle questioni sollevate sul rilievo n. 3 dell’avviso di accertamento, la censura è infondata, in quanto la C.t.r. ha pronunciato su tutto quanto oggetto di devoluzione in appello;

in particolare, per quanto riguarda la deduzione della perdita su crediti nei confronti dei dirigenti e dipendenti per l’utilizzo dell’auto aziendale, la ricorrente ritiene che si tratti di un costo d’esercizio in dipendenza di accordi sindacali, che hanno eliminato l’addebito a carico dei dipendenti anche per gli anni precedenti (1998/1999/2000), quindi di sopravvenienze passive deducibili;

questa Corte ha avuto modo di precisare che “la disciplina fiscale della perdita su crediti, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5, stabilisce che l’inesigibilità del credito deve risultare da “elementi certi e precisi”, sicché, ove la perdita derivi da rinuncia al credito, occorre che l’atto unilaterale di rinuncia sia giustificato da un’effettiva irrecuperabilità del credito, rientrando diversamente negli atti di liberalità indeducibili a fini fiscali” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 7860 del 20/04/2016);

pertanto, avendo la società rinunziato, nell’ambito dei citati accordi sindacali, ai crediti già maturati verso i dipendenti, la rinunzia agli stessi rende indeducibile la perdita;

inoltre, come rilevato dall’Agenzia delle entrate, l’anno di competenza per operare la deduzione deve coincidere con quello in cui si acquista la certezza che il credito non sarà soddisfatto (nel caso di specie, l’anno in cui sarebbero intervenuti gli accordi sindacali, cioè il 1999);

secondo la giurisprudenza di questa Corte, “l’art. 101 T.u.i.r. va interpretato nel senso che l’anno di competenza per operare la deduzione delle perdite sui crediti deve coincidere con quello in cui si acquista certezza che questi non possono più essere soddisfatti, materializzandosi in tale momento gli elementi “certi e precisi” della loro irrecuperabilità. Diversamente, infatti, si rimetterebbe all’arbitrio del contribuente la scelta del periodo d’imposta più vantaggioso per operare la deduzione, snaturando la regola espressa dal principio di competenza, che rappresenta invece criterio inderogabile e oggettivo per determinare il reddito d’impresa” (Cass. Sez. trib., 06/10/2017, n. 23330);

nella doglianza non è chiaro il motivo per cui la ricorrente abbia dedotto nel 2004 quelle che qualifica sopravvenienze passive risalenti al 1999;

essa risulta generica, priva di alcun riferimento all’esatto contenuto dell’avviso di accertamento ed alla fattispecie concreta;

con riferimento ai crediti da riscuotere di esigua entità, prima della novella introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 33 era onere del contribuente dimostrare la deducibilità, quale componente negativa del reddito d’impresa, con elementi certi, precisi e concreti, alla luce del fatto che la parvità dell’importo non configurava ex se la prova della non convenienza dell’attuazione coattiva del credito (solo nell’attuale previsione normativa, “gli elementi certi e precisi sussistono in ogni caso quando il credito sia di modesta entità e sia decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza di pagamento del credito stesso”);

anche la doglianza relativa alla prescrizione della gran parte di tali crediti non è accoglibile, in quanto del tutto generica e priva di riferimenti ai singoli crediti, all’epoca degli stessi e ad eventuali atti interruttivi;

quanto ai crediti verso clienti esteri extra CEE, il ricorso appare ancora una volta privo di autosufficienza, poiché fa un riferimento complessivo alle perdite derivate dalle differenze di cambio in vigore alla data della fattura emessa dalla società contribuente ed alla data del pagamento, senza specificare null’altro;

per quanto riguarda, poi, i crediti verso debitori CEE, deve rilevarsi che la deduzione delle perdite sui crediti, consequenziali alla dichiarazione di fallimento (nel caso di specie la società spagnola debitrice era fallita nel 1994), deve avvenire nell’anno in cui si acquisisca la certezza che il credito non possa essere più soddisfatto, perché, come già evidenziato, diversamente si rimetterebbe all’arbitrio del contribuente la scelta del periodo d’imposta più vantaggioso per operare la deduzione, derogando così il principio di competenza che è criterio inderogabile ed oggettivo per determinare il reddito d’impresa;

per il resto, la doglianza rimane estremamente generica, priva del riferimento ai singoli crediti ed alle prove offerte, a fronte della recisa contestazione dell’ufficio, che rimarca come le asserzioni della controparte nei precedenti gradi di giudizio siano rimaste mere enunciazioni, non supportate da alcuna prova;

con riferimento al rilievo n. 5 dell’avviso di accertamento, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 109, commi 4 e 5, T.u.i.r.;

il rilievo riguarda spese di consulenza rispetto a tre fornitori, e precisamente:

“CVE s.r.l.” di Vigevano (PV), in quanto l’importo spesato non trovava corrispondenza con il contenuto del contratto di consulenza stipulato in data 03/03/2004 (maggior importo spesato Euro 13.185,71 – Iva illegittimamente detratta Euro 2.530,00);

“EFFETRE s.a.s. di F.N. e C.” di *****, in quanto il sig. F.N. (socio accomandatario della società Effetre), per alcuni mesi dell’anno 2004 era stato anche Consigliere e Direttore Generale della “Framec S.p.A.” e per tale attività gli veniva corrisposto un compenso di Euro 60.000,00; dalla disamina delle delibere societarie, risultava che i compiti di Direttore Generale erano del tutto assorbenti rispetto a quelli assolti come consulente, per cui ne discendeva che la società si era sottoposta ad un doppio onere a fronte di una medesima funzione, in contrasto con la logica imprenditoriale (i costi non inerenti erano pari ad Euro 92.779,20 oltre all’Iva illegittimamente detratta per l’importo di Euro 18.555,85);

“STUDIO DUSIO E C. SAS” di Gallarate (VA) in quanto il sig. D.S. (socio accomandatario dello Studio) era anche Consigliere della “Framec S.p.A.” e per tale attività gli veniva corrisposto un compenso di Euro 20.000,00; in sede di verifica non era stato prodotto alcun contratto o accordo tra lo “STUDIO D.” e la “Framec Spa” e, dall’analisi della “Nota sul lavoro svolto nel 2004” esibita, emergeva che parte del lavoro era profuso per fornire assistenza a società controllate o a società nei confronti delle quali la “Framec S.p.A.” esercitava notevole influenza, ma tali costi non erano rifatturati alle stesse, per cui ne discendeva che la società si era sottoposta ad un doppio onere a fronte di una medesima funzione, in contrasto con la logica imprenditoriale e, inoltre, si spesava costi di competenza di altre aziende (i costi non inerenti erano pari ad Euro 46.233,35 oltre ad Iva illegittimamente detratta pari ad Euro 9.246,67);

secondo i giudici di appello “il recupero a tassazione di provvigioni di Euro 13.185,71 riguarda l’eccedenza delle spese già previste nel contratto di consulenza con la CVE, il recupero a tassazione delle provvigioni erogate alla EFFETRE deriva da un contratto di consulenza tra la FRAMEC e la EFFETRE di cui il Sig. F.N. era socio e legale rappresentante, ma anche socio e Direttore Generale della FRAMEC per il periodo 22.9.2003 al 22.4.2004. Sia la Delib. Consiglio di Amministrazione della FRAMEC che il contratto di consulenza, a vantaggio del Sig. F., conteneva uguali oneri, i quali erano relativi alle stesse funzioni esercitate. Per il recupero relativo alle spese nei riguardi di STUDIO D. s.a.s. non risulta stipulato alcun contratto di consulenza”;

la C.t.r., dunque, ha ritenuto che detti recuperi si giustificassero in parte con la mancanza di un contratto e la deduzione di costi di competenza di altre aziende (STUDIO D.) o con l’eccedenza delle somme dedotte rispetto a quelle contrattualmente previste (C.V.E. s.r.l.) ed in parte (Effetre) “con la sovrapposizione di funzioni, in quanto gli incarichi compresi nella funzione di Amministratori della società ricorrente assorbivano anche quelli di consulente”;

secondo il collegio, nella decisione non si riscontra la dedotta violazione di legge, in quanto essa è in linea con l’orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui i costi, per essere ammessi in deduzione quali componenti negativi del reddito di impresa, debbono soddisfare i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità;

invero, “in tema di deducibilità dei costi, l’inerenza, desumibile dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, (in precedenza, art. 75, comma 5, del detto decreto), deve essere riferita all’oggetto sociale dell’impresa, in quanto non integra un nesso di tipo utilitaristico tra costo e ricavo, bensì una correlazione tra costo ed attività di impresa, anche solo potenzialmente capace di produrre reddito imponibile, ma – a differenza di quanto avviene ai fini della detrazione dell’IVA, rispetto alla quale il concetto ha valenza esclusivamente qualitativa – nelle imposte dirette l’antieconomicità di una spesa, ossia la sproporzione sul piano quantitativo, può costituire significativo sintomo della non inerenza della stessa” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 13588 del 30/05/2018);

sotto il profilo del vizio motivazionale, la ricorrente deduce che il convincimento del giudice di appello sia ingiustificato alla luce degli atti di causa e che le prestazioni di consulenza nulla avrebbero a che vedere con le funzioni di amministratore all’interno della società;

tuttavia, la società non specifica quali sarebbero gli elementi da cui dedurre l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione del giudice di appello che, sulla base del materiale istruttorio a sua disposizione, ha ritenuto che i costi non fossero giustificati per la loro irragionevole duplicazione;

la doglianza relativa al vizio motivazionale risulta altresì generica con riferimento ai costi che la C.t.r. ha ritenuto non deducibili per la mancanza di idonea documentazione (l’eccedenza della somma portata in deduzione rispetto all’importo contrattualmente pattuito per il compenso alla “CVE s.r.l.” di Vigevano, oppure la mancanza di un contratto con lo STUDIO D. e la circostanza, emersa dalla “Nota sul lavoro svolto nel 2004”, che i costi erano di competenza di altre aziende – per lo più società controllate dalla Framec S.p.A. -), circostanza fattuale non specificamente contestata dalla società contribuente, su cui ricadeva l’onere della prova, trattandosi di componenti negativi del reddito;

quanto ai rilievi nn. 7 ed 8 dell’avviso di accertamento, la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 109, commi 4 e 5, T.u.i.r.;

con il rilievo n. 7 l’ufficio riteneva indeducibili le provvigioni per Euro 139.315,50 corrisposte dalla “Framec S.p.A.” nel corso dell’anno 2004 alla “Framec France”, controllata al 100%, in quanto la società, in sede di verifica, non aveva esibito alcun contratto, accordo o documento equipollente, al fine di determinare i criteri posti a base dei predetti compensi;

secondo l’amministrazione finanziaria vi era l’impossibilità di valutare se e in quale misura l’onere sostenuto dal soggetto italiano, in termini di provvigioni corrisposte alla propria controllata, fosse congruo, certo ed oggettivamente determinabile in base alle disposizioni fiscali (“transfer pricing”);

con il rilievo n. 8 l’ufficio evidenziava che la società aveva spesato costi per provvigioni, imputandoli al conto di mastro n. *****, privi delle caratteristiche di certezza, esistenza ed oggettiva determinabilità della spesa, come dettagliatamente descritto nel processo verbale di constatazione;

secondo l’ufficio, la società non aveva esibito contratti e/o accordi volti a regolare i rapporti oggetto delle provvigioni, non vi erano fatture o documenti equipollenti emessi dall’agente, né tabulati relativi alle vendite, che permettessero la riconciliazione tra le fatture degli agenti e le vendite effettivamente effettuate;

inoltre, in alcuni casi i costi per provvigioni identificavano rapporti di intermediazione simili alla commissione per i quali, in assenza di accordo scritto, non era possibile valutare la determinazione del compenso;

la censura è fondata e va accolta;

in merito a tali rilievi, la C.t.r. riteneva che i meri accordi verbali, suffragati dalla documentazione prodotta (fatture e tabulati contenenti i dati relativi alle vendite, sulle quali veniva calcolata la percentuale delle provvigioni), attestante il pagamento delle provvigioni, non fossero sufficienti a dimostrare la legittimità del pagamento e, quindi, la deducibilità dei costi;

la ricorrente deduce che dagli atti del giudizio d’appello risultavano i “tabulati” contenenti gli elenchi delle vendite, le percentuali per il calcolo delle provvigioni, ma soprattutto emergeva la circostanza che la FRAMEC FRANCE s.a.r.l., società di diritto francese controllata dalla FRAMEC S.p.A. che svolgeva la propria attività di commercializzazione del prodotto di quest’ultima sul territorio francese e spagnolo, aveva per oggetto sociale la commercializzazione del prodotto della controllante in Francia;

tale attività era svolta, in parte, con acquisto diretto dei prodotti dalla controllante FRAMEC S.p.A. e, per altra parte, con la vendita diretta a clienti “importanti”, ancorché francesi, dalla controllante FRAMEC e con riconoscimento della provvigione pari al 5% alla controllata poiché l’assistenza post-vendita era effettuata da quest’ultima;

quanto al rilievo n. 8, la ricorrente evidenzia la necessità di una disamina delle varie tipologie di prestazioni, anche in relazione alle diverse aree geografiche interessate all’acquisto delle macchine frigorifere oggetto della produzione;

in grande parte non si tratterebbe neppure di “provvigioni”, intese come percentuale riconosciuta a compenso di ordini di vendite, bensì di “commissioni” a copertura dell’impegno di assistenza (in garanzia) sulle consegne effettuate da FRAMEC S.p.A. nei vari Stati, calcolate forfettariamente sull’importo del venduto in ciascuno Stato;

per tali costi, il giudice di appello, pur avendone riconosciuto l’effettività, ne ha escluso la deducibilità sul mero rilievo della mancanza di un contratto scritto, che è richiesto dall’art. 1742 c.c. unicamente ad probationem, con la conseguenza che rimane valida l’esecuzione volontaria del contratto;

pertanto, il giudice avrebbe dovuto valutare la documentazione prodotta dalla contribuente e verificare se essa avesse carattere probante ai fini della certezza ed inerenza dei costi (cfr. Cass. n. 20551/2018 e n. 20057/2014, in tema di canoni corrisposti per l’affitto di azienda), non potendo l’amministrazione finanziaria disconoscerli in caso di esito positivo;

in conclusione, il ricorso va solo parzialmente accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla C.t.r. del Piemonte, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.t.r. del Piemonte, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

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