Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.31870 del 05/11/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15898/2014 R.G. proposto da:

R. Hotels s.a.s. di R.G. e R.F., già R. Hotels s.a.s. di R.A., in persona dei soci accomandatari e legali rappresentanti R.G. e R.F., rappresentata e difesa dall’Avv. Liana Di Molfetta, giusta mandato in calce al ricorso, elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avv. Michele Clemente, in Roma, Vicolo Orbitelli, n. 113;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, n. 83/13/2013, depositata il 9 dicembre 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 marzo 2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

RILEVATO

CHE:

1.La Commissione tributaria regionale della Puglia rigettava l’appello proposto dalla società R. Hotels s.a.s. di R.A., avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bari (n. 114/13/129), che aveva accolto il ricorso della società contribuente contro la richiesta presentata, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 22 dall’Agenzia delle entrate al fine di ottenere l’autorizzazione al sequestro conservativo sull’intero patrimonio mobiliare e immobiliare della società, per effetto del processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza in data 21 giugno 2011. Il giudice di prime cure, dopo aver rigettato l’istanza di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 22 condannava l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 1000,00, oltre Iva e Cap come per legge. Il giudice d’appello, invece, rigettava l’appello proposto dalla società in ordine alla liquidazione delle spese di lite, evidenziando, da un lato, che la contribuente non aveva accluso al ricorso introduttivo di primo grado la nota delle spese di lite, e dall’altro, che dalla documentazione emergeva che l’Ufficio aveva avanzato la richiesta di pignoramento, indicando i beni pignorabili, ed indicando, altresì, come cifra massima ipotecabile, il valore di Euro 77.789,41, oltre sanzioni e spese. Pertanto, secondo la Commissione regionale l’appello era temerario, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., in quanto volto ad ottenere un indebito vantaggio, poiché la contribuente aveva richiesto la rideterminazione delle spese di giudizio, quantificandole in Euro 45.258,72, in rapporto al valore dei beni, semplicemente individuati dall’ufficio come beni “ipotecabili”, e non in base al valore effettivo della controversia. Pertanto, il giudice d’appello condannava la società contribuente alle spese di lite, quantificate in Euro 5000,00.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.

3. L’Agenzia delle entrate si costituisce al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

CONSIDERATO

CHE:

1.Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “l’illegittimità della sentenza impugnata per mancanza assoluta di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, sostanziandosi la sentenza in un’apparente motivazione, che si limita a motivare il rigetto dell’appello, in maniera apodittica, sulla scorta del presupposto che “e’ ragionevole ritenere temerario l’appello proposto ex art. 96 c.p.c.”, poiché la contribuente ha chiesto la rideterminazione delle spese di giudizio quantificandole in Euro 45.258,72, in rapporto al valore dei beni, che invece erano stati indicati dall’Ufficio solo come beni “ipotecabili” e non quindi in base al valore effettivo della controversia. Il giudice di appello non ha spiegato le ragioni per cui il valore della controversia è errato, non dovendosi far riferimento al valore dei beni aziendali e personali sui quali è stato richiesto il sequestro conservativo da parte della Agenzia delle entrate. Non ha fornito motivazione neppure sulla congruità o meno delle spese di primo grado liquidate in Euro 1.000,00, a fronte del valore delle imposte pari ad Euro 268.198,00. Non ha motivato in alcun modo sulla quantificazione in Euro 5.000,00 delle spese di lite in favore della Agenzia delle entrate.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “illegittimità della sentenza impugnata per omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” in quanto il giudice d’appello ha omesso di pronunciarsi sulla congruità delle spese liquidate nel giudizio di primo grado (Euro 1.000,00), unico punto controverso.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione del R.D. 18 dicembre 1941, n. 1368, art. 75, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto diversamente da quanto stabilito dal giudice d’appello, la mancata allegazione agli atti di causa della nota spese non provoca alcun effetto negativo in capo alla parte inadempiente; la liquidazione delle spese di causa deve essere effettuata dal giudice in base all’attività professionale concretamente espletata difensore, anche in mancanza della specifica degli onorari.

4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “illegittimità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto il giudice d’appello, dopo aver premesso che non era stata allegata agli atti la nota spese e che il valore della causa era di Euro 77.798,41, ha asserito che la contribuente voleva conseguire un indebito vantaggio, con conseguente condanna alle spese dell’appello quantificate in Euro 5000. In realtà, il giudice d’appello non si è reso conto che il valore della causa del gravame era limitato alle spese di lite, sicuramente inferiore ad Euro 77.789,41.

5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il giudice d’appello ha condannato l’appellante al pagamento delle spese di giudizio, nonostante l’espressa richiesta di compensazione avanzata dall’Agenzia delle entrate con l’atto di costituzione in giudizio dinanzi alla Commissione tributaria regionale.

6. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto il giudice d’appello ha liquidato e spese del giudizio di gravame in Euro 5000, senza fornire alcuna giustificazione al riguardo.

7.Il primo motivo è fondato, sia pure riqualificando il vizio di “difetto assoluto della motivazione”, in relazione al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

7.1.Invero, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 22 (“ipoteca e sequestro conservativo”), nella versione all’epoca vigente (anno 2012), prima delle modifiche di cui al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, in vigore dal 1 gennaio 2016 “in base all’atto di contestazione, al provvedimento di irrogazione della sanzione o al processo verbale di constatazione e dopo la loro notifica, l’ufficio o l’ente, quando ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può chiedere, con istanza motivata, al presidente della Commissione tributaria provinciale l’iscrizione di ipoteca sui beni del trasgressore e dei soggetti obbligati in solido e l’autorizzazione a procedere, a mezzo di ufficiale giudiziario, al sequestro conservativo dei loro beni, compresa l’azienda”.

7.2.Il procedimento, di natura cautelare e non sanzionatoria (Cass., sez. un., 20 dicembre 2006, n. 17173), dopo il contraddittorio con le parti (Cass., sez. 5, 19 marzo 2008, n. 7342), viene deciso con sentenza, sottoposta ai mezzi di impugnazione previsti per la stessa, con conseguente ricorribilità per cassazione della decisione pronunciata in grado di appello (Cass., sez.5, 11 ottobre 2018, n. 25256).

7.3.L’istituto presenta due peculiarità rispetto a tutte le altre misure di garanzia del credito previste nel sistema tributario (ruolo straordinario D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 15 bis; fermo amministrativo R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, ex art. 69; sospensione dei rimborsi D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 23): da un lato, infatti, si fornisce una tutela del credito erariale “anticipata” rispetto all’emissione del ruolo di riscossione, ma anche rispetto all’emissione dell’atto impositivo impugnabile, in quanto l’Amministrazione può procedere alla richiesta di sequestro conservativo dei beni del trasgressore anche sulla scorta del solo processo verbale di constatazione (Cass.-., sez. 5, 20 dicembre 2006, n. 27226); dall’altro, l’accertamento dei presupposti che giustificano l’adozione del sequestro conservativo (fumus boni iuris e periculum in mora) avviene nell’ambito di un procedimento giurisdizionale, nel contraddittorio delle parti; inoltre, il procedimento non è strumentale, ma è del tutto autonomo rispetto al giudizio principale di merito, eventualmente instaurato dal contribuente con l’impugnazione degli atti impositivi di cui all’art. 22 citato.

La sentenza conclusiva, peraltro, non assume la stabilità tipica di un vero e proprio giudicato, in quanto basato sul “fumus boni iuris” e sul “periculum in mora” e, quindi, destinato a perdere efficacia a seguito della sentenza, anche non passata in giudicato, che accoglie il ricorso o la domanda di merito (Cass., sez. 5, 25 maggio 2018, n. 13148).

7.4.Con il D.L. n. 185 del 2008, convertito con modificazioni dalla L. 2 febbraio 2009, n. 102, si è disposto che le misure di cui all’art. 22 si applichino anche alle somme dovute per il pagamento di tributi e dei relativi interessi, ancorché non formalizzati in un processo verbale di constatazione, ma direttamente nell’atto impositivo. Pertanto, è pacifico che gli Uffici siano legittimati a richiedere l’iscrizione di ipoteca ed il sequestro conservativo sui beni del trasgressore, quale garanzia riguardante tutti gli importi dovuti (imposta evasa, relativi interessi e sanzioni) sulla base di un atto formale, che può consistere in un processo verbale di constatazione (in tal senso anche Cass., sez. 5, 28 gennaio 2010, n. 1838; anche Circolare della Agenzia delle entrate 15 febbraio 2010, n. 4).

7.5.Il giudice d’appello si è limitato ad affermare l’infondatezza del gravame proposto dalla società contribuente, evidenziando che la stessa non aveva accluso al ricorso introduttivo la nota delle spese di lite, di cui all’art. 75 c.p.c.. Inoltre, dalla documentazione emergeva che l’Ufficio aveva presentato la richiesta di pignoramento, indicando i beni pignorabili, ma individuando altresì, come cifra massima da ipotecare, il valore dei beni per Euro 77.789,41, oltre sanzioni e spese; sicché questo era il valore della causa; l’appello, poi, era temerario, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., in quanto volto ad ottenere un indebito vantaggio, perché la società contribuente ha richiesto la rideterminazione delle spese di giudizio, quantificandole in Euro 45.258,72, in rapporto al “valore dei beni”, individuati dall’ufficio come beni “ipotecari”, e non “in base al valore effettivo della controversia”.

7.6.Dal tenore della motivazione, come riportata in sintesi, emerge la mera apparenza della stessa. Infatti, la Commissione regionale non ha spiegato le ragioni per le quali il valore della controversia, indicato dalla contribuente, su cui determinare il valore della causa, fosse errato. Non ha in alcun modo chiarito quali fossero i criteri da utilizzate per determinare il valore della controversia; quindi, se dovesse farsi riferimento al valore dei beni aziendali e personali sui quali era stato chiesto il sequestro conservativo da parte dell’Agenzia delle entrate, come prospettato dalla società; oppure al valore delle imposte da versare al momento del sequestro.

Inoltre, ha sostenuto che le spese di lite liquidate dal giudice di primo grado in Euro 1000 fossero congrue, anche rispe’tto al valore delle imposte dovute per Euro 268.198,00, come risulterebbe dalle copie degli avvisi di accertamento successivamente emessi e prodotti in giudizio.

Insomma, tutti i parametri, che, in ipotesi, potevano avere rilevanza nella determinazione del valore della lite, sono stato del tutto negletti dal giudice di appello.

7.7.Peraltro, anche la condanna per lite temeraria di cui all’art. 96 c.p.c., non chiarisce le ragioni della stessa, limitandosi il giudice d’appello ad affermare che “e’ ragionevole ritenere temerario l’appello proposto, ex art. 96 c.p.c., in quanto volto ad ottenere un indebito vantaggio, dato che la contribuente ha richiesto la rideterminazione delle spese di giudizio, quantificandole in Euro 45.258,72, in rapporto al valore dei beni, semplicemente, individuati dall’ufficio come beni ipotecatili, e non in base al valore effettivo della controversia”. Non si è chiarito neppure il criterio in base al quale le spese di lite temeraria sono state quantificate in Euro 5000,00. Infatti, il giudice di appello ha liquidato un’unica somma di Euro 5.000,00 per le “spese di lite”, senza distinguere tra spese di giudizio e danni da lite temeraria di cui all’art. 96 c.p.c., e senza indicare quale delle ipotesi di lite temeraria (in base all’art. 96 c.p.c., commi 1, 2 o 3) sia stata presa in concreto in considerazione. L’ipotesi di cui all’art. 96 c.p.c., comma 3, è stata introdotta dalla L. n. 69 del 2009, ed è applicabile ai giudizi iniziati a decorrere dal 4 luglio 2009, quindi in vigore per il processo in esame, che attiene all’anno 2012.

7.8.Invero, per questa Corte, a sezioni unite, la responsabilità processuale aggravata di cui all’art. 96 c.p.c. è applicabile anche al processo tributario, in virtù del generale rinvio di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, (Cass., sez., un., 3 giugno 2013, n. 13899).

7.9.Inoltre, si è chiarito che la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (Cass., sez. 6-2, 24 settembre 2020, n. 20018). Viene, dunque, in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass., sez. un., 13 settembre 2018, n. 22405).

7.10.Si e’, poi, affermato che, in tema di responsabilità processuale aggravata, l’art. 96 c.p.c., comma 3, nel disporre che il soccombente può essere condannato a pagare alla controparte una “somma equitativamente determinata”, non fissa alcun limite quantitativo per la condanna alle spese della parte soccombente, sicché il giudice, nel rispetto del criterio equitativo e del principio di ragionevolezza, può quantificare detta somma sulla base dell’importo delle spese processuali (o di un loro multiplo) o anche del valore della controversia – nella specie, la S.C. ha ritenuto non irragionevole la scelta di commisurare la condanna a quanto ancora dovuto dal debitore, determinato dal giudice dell’esecuzione a seguito di conversione del pignoramento e infondatamente contestato con l’opposizione agli atti esecutivi – (Cass., sez. 3, 20 novembre 2020, n. 26435; Cass., sez. 5, 14 settembre 2016, n. 18057, che ha condannato la parte al pagamento, in favore dell’altra, delle spese del giudizio di legittimità in misura doppia; Cass., sez 6-2, 30 novembre 2012, n. 21570).

8. Invero, la sentenza della Commissione regionale è stata depositata il 9 dicembre 2013, sicché trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella versione successiva al D.L. 83/2012, che si applica per le sentenze depositate a decorrere dall’11 settembre 2012.

Pertanto, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass., sez. 3, 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass., sez. 6-3, 25 settembre 2018, n. 22598).

8.1.Per questa Corte, a sezioni unite, si è in presenza di una motivazione meramente “apparente” allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e quindi materialmente esistente), come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento (Cass., Sez.Un., 9279/2019; Cass., sez.un., 3 novembre 2016, n. 22232; Cass., sez.un., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., sez. un., 5 agosto 2016, n. 16599).

Inoltre, per questa Corte, in tema di contenuto della sentenza, la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto della decisione, richiesta dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, – nella versione anteriore alla modifica da parte della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 17, non rappresenta un elemento meramente formale, ma un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione della intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui mancanza costituisce motivo di nullità della sentenza solo quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, stante il principio della strumentalità della forma, per il quale la nullità non può essere mai dichiarata se l’atto ha raggiunto il suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 3), e considerato che lo stesso legislatore, nel modificare l’art. 132 cit., ha espressamente stabilito un collegamento di tipo logico e funzionale tra l’indicazione in sentenza dei fatti di causa e le ragioni poste dal giudice a fondamento della decisione (Cass., sez. -5, 10 novembre 2010, n. 22845; Cass., sez. 6-5, 20 gennaio 2015, n. 920; Cass., sez. 3, 15 novembre 2019, n. 29271).

8.2.Invero, in tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., sez. L., 14 febbraio 2020, n. 3819). Il vizio di motivazione, infatti, sussiste quando il giudice non indichi affatto le ragioni del proprio convincimento rinviando, genericamente e “per relationem”, al quadro probatorio acquisito, senza alcuna esplicitazione al riguardo, – né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., sez.5, 25 maggio 2011, n. 11473).

Si tratta, insomma di una motivazione di mero stile, del tutto scevra di specifici richiami ai documenti di causa ed ai criteri di individuazione del valore della controversia, soprattutto in relazione alla somma di Euro 1000,00, liquidata in primo grado dalla Commissione provinciale ed alla sussistenza dei presupposti per la condanna della appellante alle spese per lite temeraria, oltre che alla quantificazione di Euro 5.000,00.

9.Gli altri motivi restano assorbiti, stante l’accoglimento del primo motivo, pregiudiziale a tutti gli altri.

10. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472