Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.31944 del 05/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino L – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Mar – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25858/2015R.G. proposto da:

Vetreria Labruna srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, N.R.A., L.A., L.V., rappresentati e difesi dall’avv. Renato Torrisi, con domicilio eletto in Catania, via XX settembre n. 43;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Caltanisetta, n. 1237/21/2015, depositata il 23 marzo 2015.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio dell’8 luglio 2021 dal Consigliere Enrico Manzon.

RILEVATO

che:

Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Caltanisetta, rigettava l’appello proposto da Vetreria Labruna srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, N.R.A., L.A., L.V., avverso la sentenza n. 612/1/14 della Commissione tributaria provinciale di Enna, che ne aveva respinto i ricorsi contro gli avvisi di accertamento per II.DD. ed IVA 2007.

La CTR osservava in particolare che, correttamente, la CTP aveva ritenuto la fondatezza delle pretese creditorie erariali fondate sulla natura giuridica dei costi oggetto delle riprese fiscali (erogazione di denaro alla ASD Basket Regalbuto), qualificandoli come oneri di sponsorizzazione e non pubblicitari; negava inoltre la sussistenza del vizio motivazionale della sentenza appellata.

Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione i contribuenti deducendo quattro motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – i ricorrenti lamentano la violazione/falsa applicazione dell’art. 42, commi 1-3, denunciando il vizio di sottoscrizione degli atti impositivi impugnati sulla base della sentenza della Corte Cost. n. 37/2015.

La censura è inammissibile.

Va ribadito che “In tema di contenzioso tributario, è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con cui si denunci un vizio dell’atto impugnato diverso da quelli originariamente allegati, censurando, altresì, l’omesso rilievo d’ufficio della nullità, atteso che nel giudizio tributario, in conseguenza della sua struttura impugnatoria, opera il principio generale di conversione dei motivi di nullità dell’atto tributario in motivi di gravame, sicché l’invalidità non può essere rilevata di ufficio, né può essere fatta valere per la prima volta in sede di legittimità. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso, con cui si è dedotta la nullità dei gradi di merito e delle relative pronunce per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 37 del 2015, non essendo stata rilevata d’ufficio la nullità degli atti impositivi per carenza di potere del sottoscrittore)” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 22810 del 09/11/2015, Rv. 637348 – 01).

Peraltro la censura sarebbe comunque infondata, in adesione e seguito al principio di diritto che “La delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento ad un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42, ha natura di delega di firma – e non dl funzioni – poiché realizza un mero decentramento burocratico senza rilevanza esterna, restando l’atto firmato dal delegato imputabile all’organo delegante, con la conseguenza che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione di detta delega di firma può avvenire anche mediante ordini di servizio, senza necessità di indicazione nominativa, essendo sufficiente l’individuazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale consente la successiva verifica della corrispondenza tra sottoscrittore e destinatario della delega stessa” (Cass., n. 11013 del 19/04/2019, Rv. 553414 – 01).

Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – i ricorrenti si dolgono della violazione/falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, poiché la CTR ha motivato in modo solo “apparente” ed apodittico, limitandosi a richiamare altre pronunce giurisprudenziali.

La censura è infondata.

Va ribadito che “La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526 – 01).

Sicuramente la sentenza impugnata non rientra nei paradigmi invalidanti indicati in tale arresto giurisprudenziale, intellegibilmente esponendo la ragione essenziale della propria decisione ossia la qualificazione, in adesione al rilievo agenziale, dei costi de quibus come riferibili ad una sponsorizzazione e quindi di rappresentanza, non di pubblicità, con le conseguenze tratte in sede accertativa in base al regime, molto diverso, di deducibilità della componente negativa e di detraibilità dell’IVA.

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – i ricorrenti denunciano la violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 108, comma 2, poiché la CTR ha affermato la natura di rappresentanza dei costi in esame (sponsorizzazione) e non di pubblicità.

La censura è inammissibile.

Bisogna infatti dare seguito ai consolidati principi di diritto che “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multis Cass., n. 26110 del 2015) e che “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. n. 9097 del 07/04/2017).

E’ del tutto evidente che la formulazione della censura de qua collide con i limiti del giudizio di legittimità tracciati dagli arresti giurisprudenziali citati, chiedendo a questa Corte -appunto inammissibilmente- una “revisione” del giudizio di merito sullo specifico punto della qualificazione delle componenti negative di reddito in questione.

Con il quarto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso, poiché la CTR non ha adeguatamente esaminato i suoi motivi di gravame della sentenza della CTP, richiamandosi apoditticamente alla medesima.

La censura è inammissibile.

Trattandosi evidentemente di “doppia conforme”, il mezzo de quo non è proponibile ex art. 348 ter c.p.c..

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.100 vive.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 8 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

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