Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.32007 del 05/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5796-2020 proposto da:

S.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POMA 7, presso lo studio dell’avvocato FABIO ORLANDO MASSIMO, e rappresentata e difesa unitamente dall’avvocato PAOLA DAFNE MARIA CIPOLLA giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente incidentale –

avverso il decreto n. 2982 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositato l’11/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/10/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie della ricorrente.

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE S.L. proponeva ricorso dinanzi alla Corte d’Appello di Milano per chiedere il ristoro del pregiudizio da durata irragionevole ex L. n. 89 del 2001, in relazione all’eccesiva durata della procedura fallimentare della ***** S.r.l. della quale era stata socia ed amministratrice.

Il Presidente della Corte con Decreto 9 maggio 2019, dichiarava il ricorso inammissibile per difetto di legittimazione attiva della ricorrente, la quale proponeva opposizione avverso tale provvedimento.

La Corte d’Appello di Milano, in composizione collegiale, con Decreto 11 luglio 2019, n. 2982, ha rigettato l’opposizione condannando l’opponente al rimborso delle spese.

Ad avviso del giudice dell’opposizione, nel caso in cui sia stata parte del giudizio presupposto una società, il singolo socio non è legittimato a pretendere il ristoro del pregiudizio da durata irragionevole del processo, attesa l’individuazione in capo alla società di un autonomo centro di imputazione.

Poiché il fallimento aveva riguardato una società di capitali, la S. non era quindi legittimata a pretendere il ristoro per la durata eccessiva della procedura.

Ne’ rilevava il fatto che la stessa opponente rivestisse la qualità di debitrice della procedura, trattandosi di condanna emessa a seguito della sua condanna in sede penale al risarcimento dei danni per il reato di bancarotta fraudolenta.

Per la cassazione di questo decreto S.L. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi illustrati da memorie.

Il Ministero della Giustizia resiste con controricorso e propone a sua volta ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo.

La ricorrente ha resistito con controricorso al ricorso incidentale.

Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, in combinato disposto con l’art. 2495 c.c., gli artt. 100 e 110 c.p.c., degli artt. 2056, 2057, 2058 e 2059 c.c., per avere la Corte d’Appello disatteso i principi della CEDU in tema di ristoro del danno non patrimoniale da durata eccessiva delle procedure giudiziarie.

Si deduce che il credito maturato dalla società fallita per effetto dell’eccessiva durata della procedura fallimentare, attesa l’intervenuta estinzione della società, per effetto della sua cancellazione dal registro delle imprese, può essere fatto valere dai soci, sostanzialmente assimilabili agli eredi del soggetto estinto, competendo quindi alla ricorrente il diritto al ristoro del danno de quo.

Il motivo è inammissibile.

La S., come chiaramente si ricava dalla lettura sia del ricorso originario che dall’atto di reclamo aveva individuato la propria legittimazione a pretendere il ristoro del danno correlato all’eccessiva durata della procedura fallimentare, deducendo un pregiudizio subito in proprio, avendo ribadito anche in sede di reclamo che la giustificazione della domanda indennitaria risiedeva non già nella semplice qualità di socia, ma in quella di amministratrice della società poi fallita.

Peraltro, il Presidente della Corte d’Appello, nel decreto opposto alla pag. 4, si era puntualmente posto il problema in merito alla possibilità per il socio di poter pretendere, a seguito dell’estinzione della società, il ristoro del danno non patrimoniale correlato alla durata eccessiva dei provvedimento ai quali abbia preso parte la società rilevando come, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ciò sia negato, implicando la cancellazione una rinuncia al credito in esame.

Tale specifica argomentazione non è stata oggetto di confutazione con l’atto di opposizione, nel quale la S. alla pag. 7 ribadiva che la propria legittimazione si ricollegava al suo essere amministratrice societaria e non già alla semplice qualità di socia.

La mancata contestazione dell’argomento speso dal primo giudice in merito all’intrasmissibilità ai soci del diritto all’indennizzo ex L. n. 89 del 2001, unitamente alla specificazione che l’azione era determinata dal suo essere amministratrice della società, inducono quindi a ritenere che la stessa ricorrente non avesse inteso ab initio agire nella qualità di socia, che invece è posta a sostegno del motivo in esame, e che, anche laddove si voglia ritenere che il ricorso originario si fondasse sia sulla qualità di socia che di amministratrice, per effetto della limitazione delle doglianze, quali contenute nell’atto di opposizione, la S. avesse inteso abbandonare la causa petendi correlata alla qualità di socia.

Ne deriva che la critica mossa con il motivo de quo, oltre che infondata, atteso il principio reiteratamente affermato da questa Corte, e ribadito a partire da Cass. S.U. n. 6072/2013, in una controversia che verteva proprio in tema di diritto all’equo indennizzo ex L. n. 89 del 2001, secondo cui in caso di estinzione della società dal registro delle società, senza aver agito per l’accertamento e la liquidazione del diritto all’equo indennizzo, tacitamente rinuncia al diritto medesimo, sicché i soci non succedono alla società estinta nella titolarità del credito indennitario, è altresì inammissibile in quanto correlata ad una causa petendi (la qualità di successore della società estinta) non posta a fondamento del ricorso ovvero abbandonata nel corso del giudizio di merito.

Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, in relazione agli artt. 31,35,43,49,146 e 147 L. Fall., nonché agli artt. 2475,2475 bis e 2727 c.c..

Si deduce che il curatore fallimentare assume la gestione del patrimonio sociale e la legale rappresentanza della società fallita solo nell’ambito strettamente necessario al compimento delle attività funzionali alla procedura concorsuale.

La S., che rivestiva la qualità di amministratore unico della società fallita, non ha quindi perso tale qualità per i compiti che esulavano dalle finalità legate alla procedura concorsuale, dovendo quindi ritenersi che abbia conservato tale qualità per tutta la durata della procedura stessa.

Il motivo è infondato.

La decisione gravata ha deciso la controversia conformemente alla giurisprudenza di questa Corte che ha ripetutamente affermato che (Cass. n. 15250 del 2011) il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, art. 6, paragrafo 1, specificamente richiamato dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, solo con riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente in favore delle “parti” della causa, nel cui ambito si assume avvenuta la violazione, e non anche di soggetti che siano ad essa rimasti estranei, essendo irrilevante, ai fini della legittimazione, che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo. Pertanto, difetta di legittimazione attiva l’amministratore di una società di capitali, in relazione alla dedotta irragionevole durata del procedimento fallimentare aperto nei confronti della società medesima, già da lui amministrata pur se, come nella specie, cancellata dal registro delle imprese (in termini Cass. n. 14751 del 2015; Cass. n. 17111 del 2005, quanto alla posizione del socio; Cass. n. 11761 del 2010; Cass. n. 23789 del 2004).

Ne’ risulta idonea ad inficiare tale conclusione l’affermazione, pur contenuta in alcune massime (cfr. Cass. n. 7024 del 2020), secondo cui le persone giuridiche possono pretendere il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, quale conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 6, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri, posto che tale affermazione, lungi dal permettere di attribuire agli amministratori della società un’autonoma legittimazione a richiedere il ristoro del danno correlato alla durata eccessiva delle procedure di cui sia stata parte l’ente o il soggetto giuridico, costituisce un’estensione dei principi della rappresentanza organica, consentendo di inferire il danno non patrimoniale del soggetto rappresentato dal disagio e dal turbamento psicologico subito dai suoi organi, ribadendosi però sempre la differente autonomia soggettiva.

Il terzo motivo denuncia la “violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., nn. 3) e 5), in riguardo all’omesso esame del documento n. 20) di parte ricorrente in relazione alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 comma 2 “.

Si deduce che anche il debitore esecutato che abbia esperito le opposizioni esecutive possa chiedere l’indennizzo per l’eccesiva durata del processo e che, come si ricava dal citato documento, la ricorrente nella procedura esecutiva immobiliare n. ***** aveva proposto opposizione ex art. 617 c.p.c., Il motivo è destituito di fondamento.

Il decreto impugnato ha correttamente evidenziato che non rilevava ai fini della domanda la circostanza che la S., a seguito della condanna al risarcimento dei danni, quale conseguenza della sua accertata responsabilità perale per il reato di bancarotta fraudolenta, avesse assunto la qualità di debitrice, non potendosi trarre da tale qualità anche il suo diretto coinvolgimento nella procedura concorsuale per la quale era richiesto il ristoro del pregiudizio ex L. n. 89 del 2001.

Il documento di cui sarebbe stata omessa la disamina, come si ricava dal suo esame, avendo la parte provveduto ad inserirlo tra gli atti del fascicolo per il ricorso secondo le indicazioni del Protocollo tra la Corte di Cassazione ed il CNF, attiene ad una diversa ed autonoma procedura esecutiva intentata dalla curatela per il recupero del credito riconosciutole a seguito delle vicende penali che hanno visto coinvolta la S., sicché anche il pregiudizio derivante dalla definizione delle opposizioni in quella sede promosse dalla ricorrente scaturisce dall’eccessiva durata di un procedimento autonomo e distinto da quello per il quale ha invece agito in questa sede, difettando quindi il carattere della decisività del fatto di cui sarebbe stata omessa la disamina.

Il ricorso principale deve pertanto essere disatteso.

Il rigetto del ricorso principale determina poi l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato, con il quale il Ministero della Giustizia denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 26 e 119 L. Fall., nonché della L. n. 89 del 2001, art. 4, quanto al rispetto del termine decadenziale di sei mesi per la proposizione della domanda di equo indennizzo.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Non sussistono i presupposti di legge sul raddoppio del contributo unificato (Cass. n. 2273 del 2019) come si desume dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10 (conf. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale.

Condanna la ricorrente principale al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 2.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

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