LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21774-2019 proposto da:
C.C., in qualità di titolare dell’omonima ditta individuale, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO FRIGGERI 106, presso lo studio dell’avvocato MICHELE TAMPONI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUIGI MARIA GARBAGNATI e CHIARA RONCAROLO;
– ricorrente –
contro
C.E.M., B.R., C.M.N., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TOMMASO GULLI 11, presso lo studio dell’avvocato SUSANNA MAZZA, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 924/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 10/05/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 18/05/2021 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso al Tribunale di Milano, Sezione specializzata agraria, C.C. convenne in giudizio la madre B.R. e le sorelle C.M.N. ed C.E.M., chiedendo che fosse dichiarata la nullità del contratto di affitto agrario, clausola n. 6), concluso con le parti convenute; la doglianza si appuntava sul profilo della durata, perché l’attore contestò che il contratto, stipulato in data *****, venisse a scadenza il *****, anziché avere la durata legale di quindici anni. La convenzione derogatoria, stipulata come patto in deroga ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 45, era a suo dire da considerare nulla perché conclusa senza l’assistenza delle associazioni di categoria; e tale nullità, nell’assunto dell’attore, avrebbe dovuto comportare la sostituzione automatica della clausola, ai sensi dell’art. 1339 c.c., con conseguente differimento della data di scadenza del contratto al 10 novembre 2029.
Si costituirono in giudizio le parti convenute, chiedendo il rigetto della domanda, sul rilievo che il contratto era stato stipulato con l’assistenza della rappresentante di categoria dei conduttori, benché ella non avesse materialmente sottoscritto il contratto; rilevarono, altresì, che, ove la suindicata clausola fosse stata dichiarata nulla, ciò si sarebbe dovuto tradurre nella nullità dell’intero contratto.
Il Tribunale, dichiarate inammissibili le richieste di prova formulate dalle parti, rigettò la domanda e dichiarò che il contratto era scaduto alla data del *****, condannando l’attore al pagamento delle spese di lite.
2. La pronuncia è stata impugnata dall’attore soccombente e la Corte d’appello di Milano, Sezione specializzata agraria, con sentenza del 10 maggio 2019, ha rigettato il gravame, condannando l’appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.
Ha osservato la Corte territoriale, tra l’altro, che la sottoscrizione da parte del rappresentante di categoria non è richiesta dal citato art. 45, ad substantian, e che comunque, nel caso di specie, la Dott.ssa Z., rappresentante di categoria degli affittuari, aveva partecipato alle trattative ed alla stipula del contratto, come dichiarato dalle stesse parti contraenti; per cui l’assenza della sottoscrizione era da considerare un particolare del tutto superfluo.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Milano propone ricorso C.C. con atto affidato ad un solo complesso motivo.
Resistono B.R., C.M.N. ed C.E.M. con un unico controricorso.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in Camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375,376 e 380-bis c.p.c., e il ricorrente ha depositato una memoria fuori termine.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione della L. n. 203 del 1982, art. 45, nonché dell’art. 1339 c.c., dell’art. 1419c.c., comma 2, e dell’art. 2722 c.c., per avere la Corte di merito rigettato la domanda di nullità parziale del contratto e di conseguente inserimento della clausola legale di durata del contratto per anni quindici.
La censura è divisa in tre parti: nella prima si contesta la nullità del patto in deroga e la necessità della sostituzione della clausola viziata con quella legale; nella seconda si contesta la mancata sottoscrizione del contratto da parte del rappresentante di categoria e con la terza si insiste per l’ammissione delle richieste istruttorie già presentate in sede di merito.
2. La censura è priva di fondamento.
2.1. Giova ricordare che questa Corte, con una giurisprudenza ormai consolidata, ha più volte affermato che la L. n. 203 del 1982, art. 45, comma 1, che ha sostituito la L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 23, u.c., stabilendo con disposizione innovativa che sono validi gli accordi in deroga alle norme vigenti in materia di contratti agrari, purché stipulati con la assistenza delle organizzazioni professionali agricole, postula che il rappresentante di categoria svolga un’attività effettiva di consulenza e di indirizzo e non una mera tacita presenza alla stipulazione del contratto (così, tra le altre, le sentenze 21 luglio 1993, n. 8123, 29 maggio 2002, n. 7830, 15 marzo 2007, n. 5983, 4 giugno 2008, n. 14759, 11 maggio 2012, n. 7277, e, da ultimo, l’ordinanza 27 luglio 2018, n. 19906).
Questa Corte ha anche riconosciuto che la violazione della suindicata disposizione determina una nullità c.d. di protezione che, in quanto tale, può essere fatta valere solo dalla parte interessata, la quale lamenti il difetto di assistenza, e non dalla controparte (sentenza 4 giugno 2013, n. 14046).
Muovendo dalla premessa secondo cui il testo normativo non prevede espressamente, come condizione di validità del patto in deroga, la firma da parte dei rappresentanti delle organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative, questa Corte ha anzi osservato, all’opposto, come non sia sufficiente, ai fini della validità, la pura e semplice presenza dei rappresentanti di siffatte organizzazioni, né tanto meno la sottoscrizione contestuale o successiva del contratto (sentenza n. 5983 del 2007 cit.). La sottoscrizione può essere probante (così la sentenza n. 14759 del 2008), ma non è richiesta obbligatoriamente dalla legge, né costituisce di per sé garanzia della validità dell’accordo.
La ratio legis, in altre parole, è nel senso che il patto in deroga, proprio per tale sua natura, esige che la parte che lo stipula sia congruamente informata di ciò che va a firmare, ed è per tale ragione che la legge richiede la presenza di soggetti che, per la loro qualificazione professionale, danno sufficienti garanzie al riguardo; tanto più tenendo presente che tali deroghe riguardano nella maggior parte dei casi, come nel ricorso odierno, la durata del contratto agrario, che la legge fissa di regola in quindici anni (L. n. 203 del 1982, art. 4).
2.2. Se questo è il quadro normativo e giurisprudenziale da tenere presente, è palese che la sentenza in esame non si pone affatto in contraddizione con esso, ma ne costituisce una puntuale applicazione. La Corte milanese, infatti, con un accertamento di merito non sindacabile in questa sede, ha affermato che nel caso in esame il contratto in deroga era da ritenere valido in quanto erano stati “gli stessi contraenti a dichiarare che detto rappresentante, nella persona della Dott.ssa Z.E., aveva partecipato alle trattative e alla stesura della convenzione”; per cui, a fronte di tale riconoscimento, la mancata sottoscrizione da parte di quel rappresentante era priva di valore. La sentenza, inoltre, si è premurata di evidenziare come un ulteriore elemento di prova in tal senso fosse costituito dalla circostanza per cui era stata proprio l’organizzazione di categoria a curare anche la fase di registrazione della convenzione.
Non ha alcuna importanza, perciò, valutare se possa trattarsi di una dichiarazione confessoria – cosa che la sentenza neppure afferma – o osservare che il dato della registrazione sarebbe irrilevante; la Corte di merito, infatti, ha utilizzato quest’ultimo elemento ad colorandum, ma non certo come argomentazione fondamentale.
Del tutto condivisibile, infine, la decisione della Corte d’appello in ordine alla mancata ammissione delle prove, posto che dal ricorso (v. p. 8) non risulta in alcun modo la decisività del capitolato dedotto. 3. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014. Non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, trattandosi di causa esente per legge.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 5.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile – 3, il 18 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021