LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9667-2020 proposto da:
S.A., domiciliato presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentato e difeso dall’avvocato SCORDAMAGLIA GIOVANBATTISTA;
– ricorrente-
contro
MINISTERO DELL’INTERNO *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legii;
– resistente –
avverso la sentenza n. 1741/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 12/09/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 23/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. FALABELLA MASSIMO.
FATTI DI CAUSA
1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Catanzaro, pubblicata il 12 settembre 2019, con cui è stato respinto il gravame proposto da S.A. nei confronti dell’ordinanza ex art. 702-ter c.p.c., comma 5, del Tribunale del capoluogo calabro. La nominata Corte ha negato che al ricorrente potesse essere riconosciuto lo status di rifugiato ed ha altresì escluso che lo stesso potesse essere ammesso alla protezione sussidiaria e a quella umanitaria.
2. – Il ricorso per cassazione si fonda su tre motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha notificato controricorso, ma ha depositato un “atto di costituzione” in cui non è svolta alcuna difesa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo oppone la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 con riferimento ai profili di credibilità, nonché la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10 e 27 per inottemperanza all’obbligo di cooperazione istruttoria. Sostiene il ricorrente di aver chiarito espressamente che, in caso di rimpatrio, verrebbe certamente ucciso e che, infatti, la sorella lo aveva informato che la polizia lo stava cercando. La Corte di appello avrebbe espresso un giudizio generico e sommario sulla rilevanza penale della vicenda del richiedente, senza adempiere al proprio dovere di accertamento ufficioso e di cooperazione istruttoria, onde verificare la sussistenza dei fatti narrati dal richiedente e, in particolare, degli eventi che avevano costretto a fuggire.
Il motivo è inammissibile.
La Corte di appello ha rievocato la vicenda narrata dal richiedente, il quale aveva riferito di aver lasciato il paese a seguito di una protesta, da lui capeggiata, presso un politecnico: poiché il nuovo rettore aveva deciso di far pagare nuove tasse ad ogni studente che avesse dovuto sostenere un esame, il ricorrente “aveva distrutto tutti i fogli per l’esame”, mentre altri allievi avevano danneggiato la scuola. In seguito lo stesso S. aveva deciso di fuggire poiché sapeva che la polizia lo stava cercando.
La Corte di merito ha osservato che il fatto narrato assumeva un rilievo meramente penalistico: l’istante non aveva allegato di essere stato perseguitato per motivi di razza, nazionalità, gruppo sociale, opinioni politiche e religiose, legittimanti il riconoscimento dello status di rifugiato, né dedotto la sussistenza di un danno grave; lo stesso ricorrente – ha aggiunto la Corte – non aveva neppure individuato le conseguenze che avrebbe subito, sotto il profilo giudiziario, qualora fosse rimasto nel proprio paese.
Il ricorrente mostra di non cogliere tale ratio decidendi, la quale si fonda sul principio per cui solo quando il richiedente abbia adempiuto all’onere di allegazione sorge il potere-dovere del giudice di cooperazione istruttoria (Cass. 14 agosto 2020, n. 17185; in senso analogo, Cass. 3 febbraio 2020, n. 2355, la quale afferma non possa addebitarsi al giudice la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte).
2. – Col secondo motivo viene denunciata la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, e art. 14, lett. b) e lett. c).
Sostiene l’istante: che le accuse per omicidio di cui egli era destinatario avrebbero condotto a definitiva condanna dello stesso e, conseguentemente, a trattamenti inumani; che gli autori delle persecuzioni e dei suddetti trattamenti sarebbero le autorità di polizia; che sì delineava un grado di violenza indiscriminata ex art. 14, lett. c), cit., tale da far ragionevolmente ritenere che, in caso di rimpatrio, la vita del ricorrente sarebbe stata in pericolo.
Il motivo è inammissibile.
Per le prime due deduzioni vale quanto osservato trattando del primo motivo: S. riferisce, qui, di accuse di omicidio, ma la deduzione non è affatto circostanziata, al punto che non si riesce a comprendere per quale ragione egli sarebbe stato ritenuto responsabile del menzionato delitto. Con riferimento alla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), occorre invece osservare che la situazione di violenza indiscriminata in presenza di conflitto armato interno o internazionale è stata positivamente esclusa dal giudice di appello: questi ha rilevato come il ricorrente provenga dal sud della Nigeria, area in cui non risulta essere operante l’organizzazione terroristica Boko Haram e in cui le aggressioni di matrice etnica e religiosa sono, nella sostanza episodiche, tali da non determinare una situazione di pericolo o di minaccia; ha aggiunto la Corte che le tensioni tra le comunità locali del delta del Niger, sebbene foriere di atti di violenza, non interesserebbero il ricorrente e rappresenterebbero, in generale, un rischio di limitata rilevanza per gli individui residenti nella regione.
Ciò detto, la violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale costituisce oggetto di un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32064), suscettibile di essere censurato in sede di legittimità a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 21 novembre 2018, n. 30105), oltre che per assenza di motivazione (nel senso precisato da Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054). Doglianze in tal senso non sono state, peraltro, sollevate.
3. – Con il terzo mezzo è lamentata la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32. L’istante deduce di essere espatriato dalla Nigeria con l’accusa, da parte delle autorità nigeriane, di un omicidio che non aveva commesso: evenienza, questa dell’allontanamento dal paese di origine, che aveva determinato l’interruzione dei rapporti, peraltro sporadici, con la sorella e con la madre; assume inoltre che egli, in Nigeria, non aveva un lavoro e non era riuscito a superare gli esami di ammissione alla scuola secondaria, onde, una volta fatto ritorno in patria, risulterebbe privo di alcuna fonte di sostentamento; deduce infine che, considerato il lasso di tempo intercorso dalla sua partenza e le condizioni della fuga, si sarebbe determinato un importante sradicamento della sua persona dal paese di origine: sradicamento al quale era seguito un percorso di integrazione sociale in Italia.
Il motivo è inammissibile.
La Corte di appello ha negato essere stata allegata la sussistenza di un’emergenza sanitaria e alimentare nel paese di provenienza; ha inoltre evidenziato come non emergessero, anche in ragione del giudizio di non credibilità espresso con riguardo alla vicenda narrata, concreti ed oggettivi elementi che facessero ragionevolmente ritenere la riferibilità, allo stesso richiedente, di una condizione di vulnerabilità, avendo riguardo alla compromissione dei diritti fondamentali e all’oggettivo impedimento di soddisfare bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli connessi al sostentamento e al raggiungimento di livelli minimi per un’esistenza dignitosa.
Ora, in disparte il giudizio di non credibilità – che può essere censurato (e non lo è stato) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, o per mancanza assoluta della motivazione, per motivazione apparente e per motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340; cfr. pure Cass. 2 luglio 2020, n. 13578) – è evidente che la Corte di appello abbia proceduto a un accertamento di fatto, quanto alla vulnerabilità del richiedente, che non può essere confutato nel suo nucleo fattuale nella presente sede. Si osserva, per completezza, che il deficit di allegazione rilevato dalla Corte di merito quanto alle conseguenze derivanti dall’atto di ribellione posto in essere dal richiedente all’interno della scuola (cfr. quanto osservato con riguardo al primo motivo), rileva oltre che ai fini dell’esame delle domande relative allo status di rifugiato e di protezione sussidiaria, anche ai fini dello scrutinio della domanda di protezione umanitaria: la quale, quindi, si dimostra, su tale versante, inammissibile al pari delle altre due. Quanto, poi, al percorso di integrazione nel paese di accoglienza, il ricorrente assume che esso vi sia stato, ma non ne chiarisce affatto i termini: sicché, sul punto, il motivo sconta un chiaro difetto di autosufficienza.
4. – Il ricorso è dunque da dichiarare inammissibile.
5. – Non vi sono spese processuali su cui statuire.
P.Q.M.
La Corte:
dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6a Sezione Civile, il 23 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021