Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza Interlocutoria n.32113 del 05/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso iscritto al n. 8755/2017 R.G. proposto da FALLIMENTO DELLA ***** S.R.L., in persona del curatore p.t. Dott. B.G.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Massimo Calia Di Pinto, con domicilio eletto in Roma, via Ombrone, n. 12, presso lo studio dell’Avv. Francesco Longo Bifano;

– ricorrente e controricorrente –

contro

L.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Giancarlo Ruccia, con domicilio eletto in Roma, via Stimigliano, n. 5, presso lo studio dell’Avv. Fabio Codognotto;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e ***** 00D, in persona della procuratrice Bo.Di.Ko., rappresentata e difesa dall’Avv. Giuseppe Ciccopiedi, con domicilio eletto in Roma, via della Balduina, n. 289, presso lo studio dell’Avv. Salvatore Ciccopiedi;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e FIDA S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t.

C.R., rappresentata e difesa dagli Avv. Pasquale La Pesa, e Henrich Stove, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via E. Gianturco, n. 1;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e HOMAG HOLZBEARBEITUNGSSYSTEME GMBH, I.C.O. S.R.L., A.S.

S.P.A., ELICA S.P.A., DEUTSCHE BANK S.P.A. e DITTA GRAFICHE RICCIARELLI DI RICCIARELLI BERNARDINO;

– intimate –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari n. 154/17, depositata il 27 febbraio 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 febbraio 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorsi depositati dal 19 novembre 2012, La FIDA S.r.l., la Homag Holzbearbeitungssysteme Gmbh, la I.C.O. S.r.l., la A.S. S.p.a., la Elica S.p.a., la Deutsche Bank S.p.a, e la Ditta Grafiche Ricciarelli di Ricciarelli Bernardino proposero istanze di fallimento nei confronti della ***** S.r.l.

Si costituì la società debitrice, ed eccepì il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, sostenendo che in data 18 luglio 2012 l’assemblea aveva deliberato il trasferimento della sede sociale in *****, ed in data 18 settembre 2012 erano state disposte la cancellazione della società dal registro delle imprese italiano e l’iscrizione in quello *****.

Nel corso del procedimento, la ***** propose ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione.

1.1. Il Tribunale di Bari, rigettata l’istanza di sospensione del procedimento, con sentenza del 17 giugno 2013 dichiarò il fallimento della società debitrice.

2. I reclami proposti dalla società fallita e da L.G., già amministratore unico della stessa, furono riuniti dalla Corte d’appello di Bari, che con ordinanza dell’11 febbraio 2014 dispose la sospensione del procedimento, in attesa della decisione del regolamento preventivo di giurisdizione.

2.1. Con ordinanza del 16 maggio 2014, n. 10823, questa Corte, a Sezioni Unite, escluse che la pronuncia della sentenza di merito comportasse l’inammissibilità dell’istanza, osservando che, in quanto condizionata al riconoscimento della giurisdizione del Giudice adito, essa non escludeva l’interesse al regolamento. Dichiarò inoltre la giurisdizione del Giudice italiano, ritenendo superata la presunzione di corrispondenza tra la sede statutaria della impresa e l’ubicazione del centro degli interessi principali della società debitrice, in virtù del carattere fittizio del trasferimento: osservò infatti che il centro degli interessi non si era mai effettivamente radicato in *****, dal momento che dopo il trasferimento della sede a ***** la società aveva rilasciato una procura generale che attribuiva ampi poteri ad una cittadina italiana da sempre residente in Italia, consentendole quindi di comportarsi come il vero e proprio gestore dell’impresa; aggiunse che la debitrice aveva venduto i propri immobili ad un’altra società amministrata dall’ex rappresentante legale di una propria socia; rilevò infine che non era stato provato il trasferimento allo estero degl’impianti e dei macchinari utilizzati per lo svolgimento in ambito nazionale dell’attività della società, mentre in ***** era stato documentato lo svolgimento soltanto di attività prodromiche all’eventuale esercizio dell’impresa.

3. Il procedimento fu quindi riassunto dinanzi alla Corte d’appello, che con ordinanza del 24 giugno 2015 ne dispose nuovamente la sospensione, rimettendo alla Corte di Giustizia UE la risoluzione di una questione pregiudiziale d’interpretazione riguardante l’art. 3 del regolamento CE n. 1346/2000.

3.1. Con ordinanza del 24 maggio 2016, in causa C-353/15, la Corte di Giustizia risolse la questione mediante l’enunciazione del seguente principio:

“L’art. 3, par. 1, del regolamento CE n. 1346/2000 del Consiglio, del 29 maggio 2000, relativo alle procedure di insolvenza, dev’essere interpretato nel senso che, qualora la sede statutaria di una società sia stata trasferita da uno Stato membro a un altro Stato membro, il giudice investito, successivamente a detto trasferimento, di una domanda di apertura di una procedura di insolvenza nello Stato membro di origine può escludere la presunzione secondo la quale il centro degli interessi principali di tale società è situato nel luogo della nuova sede statutaria e ritenere che il centro di tali interessi rimanga, alla data in cui esso è stato adito, in tale Stato membro di origine, benché tale società non abbia più in quest’ultimo Stato alcuna dipendenza, solo se da altri elementi obiettivi e riconoscibili dai terzi si evince che, tuttavia, il centro effettivo di direzione e di controllo di detta società, nonché la gestione dei suoi interessi, continua a trovarsi in tale Stato a tale data”.

4. La causa è stata quindi nuovamente riassunta dinanzi alla Corte d’appello, che con sentenza del 27 febbraio 2017 ha accolto i reclami, dichiarando il difetto di giurisdizione del Giudice italiano e revocando la dichiarazione di fallimento.

Premesso che la decisione adottata da questa Corte in sede di regolamento di giurisdizione non precludeva il riesame della questione alla luce del principio enunciato dalla Corte di Giustizia, la Corte territoriale ha escluso l’applicabilità del par. 2 e confermato l’applicabilità del par. 1 dell’art. 3 cit., ribadendo che la presunzione di coincidenza del centro degli interessi principali con il luogo dell’amministrazione principale della società può essere superata in virtù di elementi obiettivi e verificabili che consentano di determinare una situazione reale diversa da quella corrispondente alla collocazione nella sede statutaria.

La Corte ha ritenuto che nella specie tutti i dati acquisiti inducessero a ritenere che, al momento della proposizione dell’istanza di fallimento dinanzi al Giudice italiano, il centro effettivo di direzione e controllo della ***** si trovasse in *****, in quanto a) la società vi aveva trasferito la sua sede legale, b) aveva ottenuto la cancellazione dal registro delle imprese italiano e l’iscrizione in quello *****, c) a ***** era stato deliberato il mutamento di sede e di amministratore, d) era stato concluso un contratto di locazione di un immobile con relativi macchinari ed attrezzature, e) era stato acceso un conto corrente presso un istituto di credito ***** ed attivata un’utenza telefonica in *****, f) la ***** non aveva dipendenze in Italia, avendo chiuso il suo opificio e venduto gl’immobili e le attrezzature. Ha ritenuto scarsamente rilevante la procura rilasciata alla cittadina italiana, sia perché il rilascio della stessa poteva essere giustificato anche dalle pendenze esistenti in Italia, sia perché essa non comportava l’attribuzione dei poteri propri dello amministratore.

La Corte ha precisato inoltre che l’applicabilità del principio enunciato dalla Corte di Giustizia non era esclusa dalla sopravvenienza dell’art. 30 del regolamento CE n. 848/2015, il quale, oltre a non essere entrato ancora in vigore, non aveva introdotto alcuna novità. Ha reputato infine non decisivo il trentunesimo considerando del regolamento, che esclude l’applicabilità della presunzione nel caso in cui il debitore sia una società che abbia spostato la sua sede legale in un altro Stato membro nei tre mesi precedenti la proposizione dell’istanza di fallimento, osservando che la decisione non aveva avuto luogo in base alla presunzione, ma in virtù di un accertamento effettivo del luogo in cui si trovava il centro di direzione e controllo della società debitrice.

5. Avverso la predetta sentenza il curatore del fallimento ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. Hanno resistito con controricorsi la FIDA S.r.l., il L. e la ***** 00D, i quali hanno proposto ricorsi incidentali, la prima per dieci motivi, il secondo per due motivi, condizionati all’accoglimento del ricorso principale, e la terza per un motivo, anch’esso condizionato, ai quali il curatore e la FIDA hanno resistito a loro volta con controricorsi. Il curatore, la FIDA e la ***** ODD hanno depositato memorie. Le altre intimate non hanno svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 o 4, la nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevando che la Corte territoriale si è pronunciata in ordine ad una questione diversa da quella proposta da esso ricorrente, la quale non aveva ad oggetto la possibilità di disattendere la decisione del regolamento di giurisdizione, sulla base del principio enunciato dalla Corte di Giustizia, ma la necessità di mantenersi, a tal fine, all’interno del perimetro interpretativo delineato dalle questioni sottoposte al Giudice comunitario.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 o 4, la nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 267 TFUE, dell’art. 382 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., osservando che il principio dell’intangibilità del giudicato, pur non escludendo la possibilità di sottoporre alla Corte di Giustizia la questione d’interpretazione di una norma dell’UE, ove nell’ambito del procedimento perduri un potere di decisione del giudice nazionale non di ultima istanza, consente a quest’ultimo di discostarsi dalle valutazioni del giudice superiore soltanto nell’ambito dell’interpretazione richiesta e fornita dal Giudice comunitario. Premesso che nel presente giudizio la Corte d’appello non aveva sollevato alcuna questione in ordine all’interpretazione della nozione di centro degli interessi principali o alla sufficienza degli elementi posti a fondamento della decisione delle Sezioni Unite, ma si era limitata a chiedere se l’art. 3, par. 1, del regolamento n. 1346/2000 dovesse essere interpretato nel senso che solo la presenza di una dipendenza nel territorio di un altro Stato membro giustifica la giurisdizione di quest’ultimo, rileva che la Corte di Giustizia ha dichiarato irrilevante la questione riguardante l’interpretazione del par. 2 della predetta disposizione, richiamando i principi da essa enunciati in riferimento al par. 1: afferma pertanto che la Corte d’appello non era autorizzata a riesaminare gli elementi sulla base dei quali il Giudice di legittimità aveva escluso, in sede di regolamento di giurisdizione, l’operatività della presunzione prevista da quest’ultima disposizione, ostandovi il giudicato interno formatosi al riguardo.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 o 4, la violazione o la falsa applicazione dell’art. 3, par. 1 del regolamento CE n. 1346/2000, degli artt. 5 e 122 c.p.c., dell’art. 2719 c.c. e della L.Fall., art. 9, comma 5, nonché l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, sostenendo che, nel dichiarare il difetto di giurisdizione del Giudice italiano, la sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi che regolano il riparto di competenza tra gli Stati membri in tema di apertura delle procedure d’insolvenza. Premesso che tali principi sottraggono la determinazione della competenza internazionale alla volontà del debitore, prevedendo l’irrilevanza del trasferimento del centro dei suoi interessi principali intervenuto dopo la proposizione della domanda, e prescrivendo, ai fini dell’individuazione dello stesso, i requisiti dell’effettività, dell’abitualità e della riconoscibilità da parte dei terzi, afferma che tali requisiti, oltre a dover ricorrere congiuntamente, devono essere valutati in riferimento al complessivo patrimonio del debitore, comprensivo sia delle attività e delle passività che dei rapporti giudiziari pendenti.

Aggiunge il ricorrente che, nell’escludere il carattere fittizio del trasferimento della sede sociale in *****, la sentenza impugnata ha omesso di valutare una serie di elementi comprovanti che lo stesso era preordinato ad evitare la dichiarazione di fallimento in Italia o comunque non aveva comportato un effettivo spostamento del centro degli interessi principali della società debitrice, e segnatamente a) la circostanza che la deliberazione del trasferimento e la cancellazione dal registro delle imprese avevano avuto luogo in epoca successiva alla manifestazione dello stato d’insolvenza, b) alla presentazione di un’istanza di fallimento poi rinunciata, c) alla richiesta di dilazioni ai creditori, d) alla cessazione dell’attività produttiva, alla cessazione dei rapporti di lavoro ed alla riduzione del capitale per perdite, e) alla realizzazione di una minusvalenza che aveva azzerato il capitale sociale, f) la contrarietà della deliberazione a quanto precedentemente dichiarato nelle relazioni dell’amministratore e del collegio sindacale, g) la locazione a terzi dell’opificio industriale posseduto in leasing dalla società, h) il perdurante esercizio di fatto dell’amministrazione da parte della famiglia L., i) l’intervenuto mutamento dell’oggetto sociale, j) la cittadinanza italiana dei socie e dell’organo amministrativo effettivo, k) la cessione di beni immobili ad un soggetto legato alla società debitrice, per un prezzo notevolmente inferire al loro valore, I) la titolarità di beni immobili in Italia da parte della società, m) le difficoltà incontrate nella notifica del ricorso presso la sede sociale in *****, n) un verbale di assemblea che menzionava la ***** OOD come società distinta da quella italiana, o) la presenza in Italia di prevalenti interessi della società, p) l’indicazione della ragione sociale, del codice fiscale e della sede di quest’ultima in un contratto stipulato in data successiva al trasferimento della sede all’estero.

Ad avviso del ricorrente, infine, la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che la società avesse venduto tutte le proprie attrezzature, e, nel conferire rilievo all’apertura di un conto corrente ed all’attivazione di un’utenza telefonica in *****, ha attribuito rilevanza a documenti prodotti tardivamente, redatti in lingua straniera, recanti segni incomprensibili o disconosciuti o a fatti accaduti in data successiva a quella di proposizione della prima istanza di fallimento, mentre non ha tenuto conto dell’evidente discontinuità dell’attività d’impresa svolta in ***** rispetto a quella svolta in Italia.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 o 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevando che la sentenza impugnata ha omesso di esaminare la questione riguardante l’applicabilità del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 10 invocato da esso ricorrente per l’ipotesi in cui il trasferimento della sede all’estero fosse stato effettivamente realizzato. Premesso infatti che il trasferimento della sede legale all’estero, accompagnato dalla volontà di perdere la nazionalità italiana ed acquistare quella dello Stato di destinazione equivale ad un’estinzione della società in Italia con la costituzione ex novo della stessa in un altro Stato, sostiene che tale fattispecie non si differenzia significativamente da quella in esame, in cui i soci, deliberando il trasferimento, hanno rinunciato volontariamente alla nazionalità italiana.

5. Con il primo motivo del suo ricorso incidentale, il L. deduce, subordinatamente all’accoglimento del ricorso principale, la violazione della L.Fall., art. 9, comma 5, anche in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sostenendo che, indipendentemente dall’interpretazione dell’art. 3, par. 1, del regolamento CE n. 1346/2000, il difetto di giurisdizione del Giudice italiano avrebbe dovuto essere dichiarato ai sensi della predetta disposizione, non contrastante con la normativa comunitaria, in quanto le istanze di fallimento risultavano presentate i data successiva al trasferimento della sede le gale della società all’estero.

6. Con il secondo motivo, il controricorrente lamenta, sempre in via subordinata, la violazione dell’art. 115 c.p.c., nonché l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver omesso di esaminare la questione, da lui sollevata con il reclamo, relativa all’illegittimità della sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto recante l’indicazione del suo nominativo come legale rappresentante della società fallita.

7. Con l’unico motivo del suo ricorso incidentale, anch’esso proposto condizionatamente all’accoglimento del ricorso principale, la ***** OOD censura la sentenza impugnata per aver omesso di esaminare la questione, da essa sollevata con il reclamo, relativa all’illegittimità della sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto recante l’indicazione di una persona giuridica completamente diversa dalla società debitrice, avente una sede ed un codice fiscale differenti da quelli che quest’ultima aveva prima del trasferimento della sede all’estero, e l’indicazione di L.G. come rappresentante legale.

8. Con il primo motivo del suo ricorso incidentale, la FIDA deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 o 4, la nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 324 e 382 c.p.c., dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 267TFUE, rilevando che la Corte territoriale si è pronunciata in ordine ad una questione diversa da quella proposta da essa controricorrente, la quale non aveva ad oggetto la possibilità di disattendere la decisione del regolamento di giurisdizione, sulla base del principio enunciato dalla Corte di Giustizia, ma la necessità di mantenersi, a tal fine, all’interno del perimetro interpretativo delineato dalle questioni sottoposte al Giudice comunitario. Osserva al riguardo che il principio dell’intangibilità del giudicato, pur non escludendo la possibilità di sottoporre alla Corte di Giustizia la questione d’interpretazione di una norma dell’UE, ove nell’ambito del procedimento perduri un potere di decisione del giudice nazionale non di ultima istanza, consente a quest’ultimo di discostarsi dalle valutazioni del giudice superiore soltanto nell’ambito dell’interpretazione richiesta e fornita dal Giudice comunitario. Premesso che nel presente giudizio la Corte d’appello non aveva sollevato alcuna questione in ordine all’interpretazione della nozione di centro degli interessi principali o alla sufficienza degli elementi posti a fondamento della decisione delle Sezioni Unite, ma si era limitata a chiedere se l’art. 3, par. 1, del regolamento n. 1346/2000 dovesse essere interpretato nel senso che solo la presenza di una dipendenza nel territorio di un altro Stato membro giustifica la giurisdizione di quest’ultimo, rileva che la Corte di Giustizia ha dichiarato irrilevante la questione riguardante l’interpretazione del par. 2 della predetta disposizione, richiamando i principi da essa enunciati in riferimento al par. 1: afferma pertanto che la Corte d’appello non era autorizzata a riesaminare gli elementi sulla base dei quali il Giudice di legittimità aveva escluso, in sede di regolamento di giurisdizione, l’operatività della presunzione prevista da quest’ultima disposizione, ostandovi il giudicato interno formatosi al riguardo.

9. Con il secondo, il terzo ed il quarto motivo, la controricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 5, la violazione o la falsa applicazione dell’art. 3, par. 1 del regolamento CE n. 1346/2000, degli artt. 5 e 122 c.p.c., sostenendo che, nel dichiarare il difetto di giurisdizione del Giudice italiano, la sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi che regolano il riparto di competenza tra gli Stati membri in tema di apertura delle procedure d’insolvenza. Premesso che tali principi sottraggono la determinazione della competenza internazionale alla volontà del debitore, prevedendo l’irrilevanza del trasferimento del centro dei suoi interessi principali intervenuto dopo la proposizione della domanda, e prescrivendo, ai fini dell’individuazione dello stesso, i requisiti dell’effettività, dell’abitualità e della riconoscibilità da parte dei terzi, afferma che tali requisiti, oltre a dover ricorrere congiuntamente, devono essere valutati in riferimento al complessivo patrimonio del debitore, comprensivo sia delle attività e delle passività che dei rapporti giudiziari pendenti.

Aggiunge il ricorrente che, nell’escludere il carattere fittizio del trasferimento della sede sociale in *****, la sentenza impugnata ha omesso di valutare una serie di elementi comprovanti che lo stesso era preordinato ad evitare la dichiarazione di fallimento in Italia o comunque non aveva comportato un effettivo spostamento del centro degli interessi principali della società debitrice, e segnatamente a) la circostanza che la deliberazione del trasferimento e la cancellazione dal registro delle imprese avevano avuto luogo in epoca successiva alla manifestazione dello stato d’insolvenza, b) alla presentazione di un’istanza di fallimento poi rinunciata, c) alla richiesta di dilazioni ai creditori, d) alla cessazione dell’attività produttiva, alla cessazione dei rapporti di lavoro ed alla riduzione del capitale per perdite, e) alla realizzazione di una minusvalenza che aveva azzerato il capitale sociale, f) la contrarietà della deliberazione a quanto precedentemente dichiarato nelle relazioni dell’amministratore e del collegio sindacale, g) la locazione a terzi dell’opificio industriale posseduto in leasing dalla società, h) il perdurante esercizio di fatto dell’amministrazione da parte della famiglia L., i) l’intervenuto mutamento dell’oggetto sociale, j) la cittadinanza italiana dei soci e dell’organo amministrativo effettivo, k) la cessione di beni immobili ad un soggetto legato alla società debitrice, per un prezzo notevolmente inferire al loro valore, I) la titolarità di beni immobili in Italia da parte della società, m) le difficoltà incontrate nella notifica del ricorso presso la sede sociale in *****, n) un verbale di assemblea che menzionava la ***** OOD come società distinta da quella italiana, o) la presenza in Italia di prevalenti interessi della società, p) l’indicazione della ragione sociale, del codice fiscale e della sede di quest’ultima in un contratto stipulato in data successiva al trasferimento della sede all’estero.

10. Con il quinto motivo, la controricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 5, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 3, par. 1, del regolamento CE n. 1346/2000, nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto, in contrasto con la documentazione prodotta, che la società avesse venduto tutte le proprie attrezzature.

11. Con il sesto motivo, la controricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 3, par. 1, del regolamento CE n. 1346/2000, osservando che, nel conferire rilievo alla deliberazione del trasferimento della sede ed alla cancellazione dal registro delle imprese italiano, quali indici dello spostamento del centro degli interessi principali della società in *****, la sentenza impugnata non ha considerato che la delibera costituiva l’oggetto stesso dell’indagine, mentre la cancellazione poteva costituire elemento sufficiente a dimostrare l’effettività del trasferimento soltanto se accompagnata dall’esercizio di una reale attività economica.

12. Con il settimo e l’ottavo motivo, la controricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, la violazione o la falsa applicazione dell’art. 13, par. 1, del regolamento CE n. 1346/2000 e dell’art. 5 c.p.c., affermando che, nel conferire rilievo alla delibera di mutamento della sede e nomina di un amministratore *****, ad un contratto di locazione di un’immobile e di macchinari ed attrezzature, all’apertura di un conto corrente ed all’attivazione di un’utenza telefonica in *****, la sentenza impugnata ha richiamato documenti prodotti tardivamente, redatti in lingua straniera, recanti segni incomprensibili o disconosciuti o fatti accaduti in prossimità della data di proposizione dell’istanza di fallimento, e quindi inidonei a dimostrare l’abitualità della gestione nel nuovo centro degl’interessi della società.

13. Con il nono motivo, la controricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 3 e 4, la violazione o la falsa applicazione dell’art. 3, par. 1, del regolamento CE n. 1346/2000 e dell’art. 2719 c.c., affermando che, nel conferire rilievo ad un contratto di locazione di un’immobile e di macchinari ed attrezzature, all’apertura di un conto corrente ed all’attivazione di un’utenza telefonica in *****, la sentenza impugnata ha richiamato copie di documenti la cui conformità agli originali era stata disconosciuta.

14. Con il decimo motivo, la controricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, la violazione o la falsa applicazione dell’art. 3, par. 1, del regolamento CE n. 1346/2000, rilevando che la sentenza impugnata ha omesso di esaminare la questione riguardante l’applicabilità del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 10 invocato da essa controricorrente per l’ipotesi in cui il trasferimento della sede all’estero fosse stato effettivamente realizzato. Premesso infatti che il trasferimento della sede legale all’estero, accompagnato dalla volontà di perdere la nazionalità italiana ed acquistare quella dello Stato di destinazione equivale ad un’estinzione della società in Italia con la costituzione ex novo della stessa in un altro Stato, sostiene che tale fattispecie non si differenzia significativamente da quella in esame, in cui i soci, deliberando il trasferimento, hanno rinunciato volontariamente alla nazionalità italiana.

15. Così riassunte le censure proposte dalle parti, non meritano accoglimento né l’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla difesa della ***** nei confronti del ricorso principale per avvenuto superamento dei limiti dimensionali previsti dal protocollo d’intesa stipulato dal Primo Presidente della Corte di cassazione con il Presidente del Consiglio Nazionale Forense il 17 dicembre 2015 e per difetto di autosufficienza dei motivi d’impugnazione, né l’eccezione d’inammissibilità per difetto di autosufficienza sollevata dalla difesa del curatore del fallimento e della FIDA nei confronti dei ricorsi incidentali proposti dal L. e dalla *****.

Indubbiamente, a fronte dell’esemplare concisione della sentenza impugnata, capace di affrontare con chiarezza e senza inutili appesantimenti una questione giuridicamente complessa, sia il ricorso principale che i controricorsi si caratterizzano per la prolissità dell’esposizione, sovrabbondante e spesso ripetitiva nell’illustrazione dei motivi e delle difese, corredata da citazioni degli atti processuali in misura certamente superiore a quella strettamente necessaria per il rispetto del principio di autosufficienza, ed infarcita di richiami testuali a precedenti giurisprudenziali (ben noti a questa Corte, in quanto desunti dalla giurisprudenza di legittimità) che ne rendono piuttosto disagevole la lettura, facendo apparire quasi canzonatorio il richiamo al predetto protocollo, riportato in premessa agli stessi atti. Pur tenendo conto della complessità delle questioni trattate, dell’articolato svolgimento del processo e della mole dei documenti prodotti, tale tecnica redazionale non può ritenersi conforme al dovere di chiarezza e sinteticità degli atti processuali previsto dal D.Lgs. n. 2 luglio 2010, n. 104, art. 3, comma 2, riguardante il processo amministrativo ma riflettente un principio di carattere processuale destinato ad operare anche in materia civile; l’inosservanza di tale principio non risulta tuttavia normativamente sanzionata, e non comporta quindi di per sé l’inammissibilità dell’impugnazione, che può essere dichiarata soltanto quando l’irragionevole estensione del ricorso si traduca nella violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza impugnata, sì da impedire di cogliere con chiarezza le questioni proposte (cfr. Cass., Sez. V, 21/03/2019, n. 8009; Cass., Sez. II, 20/10/2016, n. 21297; Cass., Sez. lav., 6/08/2014, n. 17698). Tale violazione non è riscontrabile né nel ricorso né nei controricorsi, la cui lettura, al di là dello sforzo richiesto dalla ridondanza dell’esposizione, consente d’individuare con sufficiente sicurezza le affermazioni della sentenza impugnata delle quali le parti intendono sollecitare il riesame e le ragioni delle rispettive impugnative, riassunte nei termini dianzi indicati, con la conseguenza che devono ritenersi prive di fondamento le eccezioni d’inammissibilità reciprocamente sollevate.

16. Parimenti infondata è l’eccezione sollevata dalla difesa del L., secondo cui il curatore sarebbe privo di legittimazione a proporre ricorso per cassazione, sia in via autonoma che in via surrogatoria, avverso la sentenza impugnata, da un lato perché la stessa, a seguito della dichiarazione del difetto di giurisdizione della Autorità giudiziaria italiana, ha revocato la dichiarazione di fallimento, dall’altro perché l’autorizzazione rilasciata dal Giudice delegato non è stata preceduta dall’interpello del comitato dei creditori, necessario ai sensi della L.Fall., art. 35, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione.

Questa Corte ha infatti affermato ripetutamente che gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento (la cui esecutività provvisoria, prevista dalla L.Fall., art. 16, comma 2, non è suscettibile di sospensione, in considerazione della finalità della procedura concorsuale, volta a privilegiare gl’interessi generali dei creditori rispetto a quello del debitore) possono essere rimossi, sia per quanto riguarda la determinazione dello status di fallito che per quanto riguarda gli aspetti conservativi che allo stesso si ricollegano, soltanto con il passaggio in giudicato della successiva sentenza di revoca, mentre anteriormente a tale momento può provvedersi, in via discrezionale, soltanto alla sospensione dell’attività liquidatoria (cfr. Cass., Sez. I, 27/05/2013, n. 13100; 4/11/2003, n. 16505; 18/04/1991, n. 4187). In virtù di tale principio, ribadito anche in epoca successiva alle riforme introdotte dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, è stato ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione proposto, come nella specie, dal curatore avverso la sentenza di revoca della dichiarazione di fallimento, escludendosi la configurabilità di un difetto di legittimazione, nonostante la chiusura del fallimento e la cessazione del ricorrente dalla carica, dal momento che il fallimento viene meno, con decadenza dei suoi organi, soltanto a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di revoca (cfr. Cass., Sez. I, 25/02/ 2011, n. 4707; 26/02/2009, n. 4632).

Quanto poi all’autorizzazione del comitato dei creditori, la stessa è richiesta dalla L.Fall., art. 35 soltanto per il compimento degli atti ivi indicati, tra i quali non è compresa l’impugnazione della sentenza di revoca del fallimento, riconducibile alla previsione dell’art. 31, comma 2, che richiede l’integrazione della capacità processuale del curatore mediante l’autorizzazione del giudice delegato.

17. Passando all’esame delle questioni sollevate con il ricorso principale, si osserva innanzitutto che l’omesso esame della questione concernente l’avvenuta formazione del giudicato in ordine alla giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana non è deducibile ai sensi dell’art. 112 c.p.c., riferendosi tale disposizione all’omessa pronuncia in ordine ad una domanda di merito, e non anche in ordine ad eccezioni pregiudiziali di rito, come quella in esame, che dev’essere invece proposta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 (cfr. Cass., Sez. III, 11/10/2018, n. 25154; Cass., Sez. II, 25/01/2018, n. 1876; Cass., Sez. I, 26/09/2013, n. 22083). Nella specie, d’altronde, la sentenza impugnata non ha affatto omesso di valutare la portata vincolante del giudicato interno formatosi per effetto della decisione adottata da questa Corte in ordine al regolamento di giurisdizione promosso dalla società debitrice, avendone espressamente escluso l’idoneità a precludere il riesame della questione di giurisdizione sulla base dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia UE a seguito del rinvio pregiudiziale disposto dalla medesima Corte territoriale, senza nulla precisare in ordine alla necessità di verificare, a tal fine, la conformità dei predetti principi rispetto a quelli applicati dal Giudice di legittimità, e quindi implicitamente disattendendo la tesi sostenuta dalla difesa del fallimento.

18. Tanto premesso, si osserva che, nell’esaminare la questione pregiudiziale ad essa sottoposta ai sensi dell’art. 267 del TFUE, la Corte di Giustizia UE ha innanzitutto disatteso l’eccezione di irricevibilità sollevata dalla difesa del fallimento e dal Governo italiano in relazione al giudicato formatosi in ordine alla spettanza della giurisdizione all’Autorità giudiziaria italiana, rilevando da un lato che la questione era stata sollevata nell’ambito di una controversia pendente e risultava determinante ai fini della decisione, dal momento che la Corte d’appello era investita di un’impugnazione proposta avverso una sentenza che aveva respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla *****, e dall’altro che, nonostante l’accertamento compiuto da questa Corte in ordine alla collocazione in Italia del centro degl’interessi principali della ***** e la conseguente affermazione della competenza del Giudice italiano a conoscere dell’istanza di fallimento, il Giudice del rinvio aveva sollevato dubbi in ordine alla conformità della predetta valutazione all’art. 3 del regolamento CE n. 1346/2000, prospettando la possibilità che la stessa conducesse ad una decisione contraria al diritto dell’UE.

In proposito, la Corte di Giustizia ha richiamato il proprio consolidato orientamento, secondo cui una norma di diritto nazionale, ai sensi della quale gli organi giurisdizionali non di ultima istanza siano vincolati da valutazioni formulate dall’organo giurisdizionale superiore, non può privare detti organi giurisdizionali della facoltà di investirla di questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione rilevante nel contesto di dette valutazioni in diritto (cfr. sent. 5/10/2010, in causa C-173/09, Elchinov): premesso che l’art. 267 del TFUE conferisce ai giudici nazionali la più ampia facoltà di adire la Corte qualora ritengano che, nell’ambito di una controversia dinanzi ad essi pendente, siano sorte questioni che implichino un’interpretazione o un accertamento della validità delle disposizioni del diritto dell’Unione che siano essenziali ai fini della pronuncia nel merito della causa di cui sono investiti, e precisato che tale facoltà può essere esercitata in qualsiasi momento del procedimento, ha ribadito che il giudice che non decide in ultima istanza dev’essere libero, se ritiene che la valutazione in diritto formulata dall’istanza superiore possa condurlo ad emettere un giudizio contrario al diritto dell’Unione, di sottoporre al Giudice comunitario le questioni con cui deve confrontarsi (cfr. sent. 24/05/ 2016, in causa C-353/15, *****).

Tale orientamento, com’e’ noto, è stato fatto proprio anche da questa Corte, la quale, chiamata a pronunciarsi su un ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza che aveva dichiarato il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana in ordine ad un’istanza di fallimento, emessa da un giudice di merito a seguito di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, dopo che in sede di regolamento preventivo questa Corte aveva affermato la spettanza della giurisdizione al Giudice italiano, ha affermato che la decisione del Giudice comunitario non può essere disattesa dal Giudice nazionale, ivi compreso quello di legittimità, in ragione del carattere vincolante delle pronunce emesse dalla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 del TFUE, ed ha quindi concluso per l’infondatezza del ricorso, in virtù della considerazione che, essendo stata investita la Corte di Giustizia della questione pregiudiziale ed avendo la stessa ritenuto di pronunciarsi su di essa, il giudice di merito non poteva non attenersi ai principi stabiliti da quella Corte (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2015, n. 12317).

In quel caso, peraltro, si era manifestato un contrasto di opinioni tra questa Corte ed il Giudice comunitario in riferimento all’interpretazione dell’art. 3 del regolamento CE n. 1346/2000: in sede di regolamento di giurisdizione, era stato infatti affermato che a) poiché il regolamento non contiene una definizione di “centro degli interessi principali”, spetta al giudice nazionale stabilire, tenendo conto delle indicazioni contenute nel dodicesimo considerando (secondo cui esso dovrebbe essere inteso come il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale e pertanto riconoscibile dai terzi la gestione dei suoi interessi), quale sia in concreto, alla stregua del proprio ordinamento (ma salvaguardando l’esigenza di un’applicazione uniforme, in linea con il carattere sopranazionale del regolamento), la sede effettiva della società, e se il centro dei suoi interessi principali coincida effettivamente con la sede statutaria, b) in mancanza di una disciplina comunitaria sul trasferimento della sede sociale in altro Stato membro della CE, spetta ugualmente al giudice nazionale accertare, secondo la legge del luogo di costituzione della società (ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 25), gli effetti del trasferimento all’estero della sede statutaria (cfr. Cass., Sez. Un., 20/05/2005, n. 10606). La Corte di Giustizia, investita dal giudice di merito della questione pregiudiziale d’interpretazione dell’art. 3, par. 1, del regolamento, aveva invece ritenuto che la nozione di “centro degli interessi principali” dovesse essere interpretata con riferimento al diritto dell’unione, affermando conseguentemente che a) tale centro deve essere individuato privilegiando il luogo dell’amministrazione principale della società, come determinabile sulla base di elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi, b) qualora gli organi direttivi e di controllo si trovino presso la sede statutaria e qualora le decisioni di gestione siano assunte in tale luogo, in maniera riconoscibile da i terzi, la presunzione introdotta da tale disposizione non è superabile, c) qualora invece il luogo dell’amministrazione principale non si trovi presso la sede statutaria, la presenza di attivi sociali nonché l’esistenza di contratti relativi alla loro gestione finanziaria in uno Stato membro diverso da quello della sede statutaria possono essere considerati elementi sufficienti a superare la predetta presunzione, a condizione che una valutazione globale di tutti gli elementi rilevanti consenta di stabilire che, in maniera riconoscibile dai terzi, il centro effettivo di direzione e di controllo della società stessa, nonché della gestione dei suoi interessi, è situato in tale altro Stato membro, d) nel caso di trasferimento della sede statutaria della società debitrice prima della proposizione della domanda di apertura di una procedura d’insolvenza, si presume che il centro degli interessi principali di tale società si trovi presso la nuova sede statutaria della medesima. In quanto imperniata principalmente sull’individuazione del luogo in cui vengono assunte le decisioni di gestione della società, ed in via subordinata sulla presenza di attivi sociali e sull’esistenza di contratti relativi alla loro gestione finanziaria in uno Stato membro diverso, la predetta nozione di centro degl’interessi principali minava alle radici l’accertamento compiuto da questa Corte, la quale, ai fini del riconoscimento della giurisdizione italiana, aveva conferito rilievo al mancato svolgimento di un’effettiva attività imprenditoriale nello Stato membro in cui era stata trasferita la sede legale, desumendolo dal perdurante possesso d’immobili di rilevante valore in Italia, dall’assunzione di obbligazioni nei confronti del dante causa della società istante, dalla concessione a terzi dell’affitto di due complessi alberghieri, dallo esito negativo della notificazione di un’istanza, effettuata all’estero, e dalla mancata comunicazione del trasferimento della sede al registro delle imprese italiano. Sicché questa Corte, pur ritenendo opinabile il decisum della Corte di Giustizia, in quanto contraddetto da altri precedenti, non pote’ far altro che prendere atto del carattere vincolante dello stesso e della necessità per il giudice di merito di conformarvisi nell’individuazione del giudice dotato di giurisdizione in ordine all’istanza di fallimento, rilevando che il relativo accertamento era rimasto incensurato, e rigettando pertanto il ricorso per cassazione.

Nel caso in esame, invece, l’ordinanza con cui è stato deciso il regolamento di giurisdizione ha espressamente richiamato i principi enunciati dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 20 ottobre 2011, in causa C-396/09, ed in particolare quello secondo cui la presunzione relativa di corrispondenza tra sede statutaria e centro degli interessi principali della società non cessa in via di principio di operare neppure nel caso in cui il trasferimento di sede sia intervenuto nello anno anteriore alla presentazione dell’istanza di fallimento, escludendone il contrasto con la L.Fall., art. 9, comma 2, riguardante unicamente il regime della competenza interna, ma precisando che la circostanza che il trasferimento della sede abbia preceduto di meno d’un anno la presentazione dell’istanza di fallimento, se di per sé sola non è idonea a disattivare la predetta presunzione, può però eventualmente giocare un ruolo nella misura in cui, valutata insieme ad altre significative risultanze istruttorie idonee a persuadere del carattere strumentale del trasferimento della sede della società debitrice all’estero, essa possa ragionevolmente fornire una conferma della valenza meramente fittizia di detto trasferimento, onde trarne la prova che il centro effettivo degli interessi principali della società debitrice non si è mai in realtà radicato all’estero nel luogo formalmente indicato come sede statutaria della società. Sulla base di tali principi, le Sezioni Unite hanno affermato che nella specie la presunzione di corrispondenza tra la sede statutaria e l’ubicazione del centro degli interessi principali della società debitrice poteva ritenersi superata in virtù di una serie di circostanze esteriori, agevolmente percepibili da qualsiasi terzo, e perciò anche dai creditori, dalle quali poteva desumersi che, se per un verso l’incombente stato di crisi poteva avere indotto la ***** a cessare la sua attività imprenditoriale (o eventualmente a far sì che essa fosse proseguita da soggetti societari diversi), ponendo in essere operazioni sostanzialmente liquidatorie della propria azienda in Italia, nessun reale spostamento dell’attività aziendale in ***** era avvenuto, onde il formale trasferimento in quello Stato della sede sociale presentava carattere meramente fittizio (presumibilmente strumentale ad evitare o ritardare la dichiarazione di fallimento in Italia), non corrispondendovi l’effettivo radicamento in ***** del centro principale degli interessi della società.

La questione pregiudiziale sollevata dalla Corte d’appello di Bari a seguito della predetta ordinanza riguardava invece la possibilità di ritenere superata la presunzione di corrispondenza tra la sede statutaria ed il centro degl’interessi principali anche nel caso in cui, come nella specie, a seguito del trasferimento della prima in un altro Stato membro, la società non abbia più alcuna dipendenza nello Stato di origine. Nell’esaminare la questione, la Corte di Giustizia ha ribadito il proprio orientamento, secondo cui la nozione di “centro degli interessi principali” introdotta dall’art. 3 del regolamento CE n. 1346/ 2000, da interpretarsi in maniera uniforme ed indipendente dalle legislazioni nazionali, va intesa, conformemente al tredicesimo considerando, come “il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale., e pertanto riconoscibile dai terzi, la gestione dei suoi interessi”; ha confermato inoltre che a) tale centro “deve essere individuato privilegiando il luogo dell’amministrazione principale di tale società, come determinabile sulla base di elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi e, pertanto, qualora gli organi direttivi e di controllo di una società si trovino presso la sua sede statutaria e qualora le decisioni di gestione di tale società siano assunte, in maniera riconoscibile dai terzi, in tale luogo, la presunzione introdotta dall’art. 3, par. 1, del regolamento n. 1346/ 2000 non è superabile”, b) la predetta presunzione può essere superata se elementi obiettivi e verificabili da parte di terzi consentono di determinare l’esistenza di una situazione reale diversa da quella che si ritiene corrispondere alla collocazione nella detta sede statutaria, c) tra gli elementi da prendersi in considerazione vi sono, segnatamente, tutti i luoghi in cui la società debitrice esercita un’attività economica e quelli in cui detiene beni, d) la presenza di beni patrimoniali della società nonché l’esistenza di contratti relativi alla loro gestione finanziaria in uno Stato membro diverso da quello della sede statutaria della società in questione possono essere considerate elementi sufficienti a superare la presunzione introdotta dal legislatore dell’Unione solo a condizione che una valutazione globale di tutti gli elementi rilevanti consenta di concludere che, in maniera riconoscibile dai terzi, il centro effettivo di direzione e di controllo della società stessa, nonché della gestione dei suoi interessi, è situato in tale altro Stato membro (cfr. al riguardo anche sent. 2/05/2006, in causa C-341/04, Eurofood IFSC; 20/10/2011, in causa C396/09, Interedil; 15/12/2011, in causa C-191/10, Rastelli). La Corte di Giustizia ha poi precisato che “la presenza di una dipendenza in uno Stato membro diverso da quello della sede statutaria della società di cui trattasi, che costituisce un elemento obiettivo e riconoscibile dai terzi, dev’essere presa in considerazione per valutare se occorra escludere la presunzione”, ma “non è sufficiente a dimostrare che il centro effettivo di direzione e di controllo di detta società, nonché della gestione dei suoi interessi, è situato in quest’altro Stato membro, potendo tale conclusione risultare unicamente da una valutazione globale di tutti gli elementi inerenti alla situazione esaminata”, concludendo che “eventualmente, l’assenza di dipendenze nello Stato membro diverso da quello della sede statutaria della società di cui trattasi dev’essere altresì presa in considerazione nell’ambito di una siffatta valutazione globale, atteso che tale elemento depone invece a sfavore della collocazione del centro degli interessi principali in tale Stato membro”.

Il confronto tra la pronuncia interpretativa del Giudice comunitario e la decisione adottata in sede di regolamento di giurisdizione rende evidente che la prima si è limitata in gran parte a ribadire i principi già affermati dalla sentenza del 20 ottobre 2011 (a loro volta ripresi da precedenti pronunce) e richiamati da questa Corte a sostegno della ritenuta spettanza all’Autorità giudiziaria italiana della giurisdizione in ordine all’istanza di fallimento proposta nei confronti della *****, aggiungendovi le considerazioni riguardanti l’oggetto specifico della questione sollevata dalla Corte d’appello di Bari, vale a dire la possibilità di escludere l’operatività della presunzione di corrispondenza tra la sede statutaria ed il centro degl’interessi principali della società anche nel caso in cui quest’ultima non abbia mantenuto alcuna dipendenza nello Stato di origine. Tali considerazioni non sono state tuttavia neppure richiamate dalla sentenza impugnata, la quale si è a sua volta limitata a riportare l’interpretazione dell’art. 3, par. 1, del regolamento CE fornita dalla Corte di Giustizia e le argomentazioni dalla stessa svolte in ordine alla ricevibilità della questione, desumendo dall’avvenuta proposizione della stessa l’insussistenza di qualsiasi preclusione al riesame della questione di giurisdizione, senza ulteriori precisazioni; ai fini di detto riesame, ha poi preso in considerazione i medesimi elementi già valutati in sede di regolamento, pervenendo, attraverso un rinnovato apprezzamento degli stessi, a conclusioni esattamente opposte a quelle raggiunte da questa Corte, in particolare attraverso l’osservazione che la società debitrice non ha dipendenze in Italia e l’esclusione della valenza indiziaria della procura rilasciata dall’amministratore ad una cittadina italiana.

In tale contesto, occorre innanzitutto ricordare che, secondo il già citato orientamento della giurisprudenza comunitaria, l’obbligo del giudice nazionale di conformarsi alle pronunce interpretative emesse dalla Corte di Giustizia UE in sede di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, discostandosi dalle valutazioni eventualmente compiute dal giudice di grado superiore, presuppone che la pronuncia di quest’ultimo sia ritenuta non conforme ai diritto dell’UE, come interpretato dal Giudice comunitario (cfr. sent. 15/01/2013, in causa C-416/10, Krizan; 20/10/2011, in causa C-396/09, Interedil; 5/10/ 2010, in causa C-173/09, Elchinov): tale obbligo trova infatti giustificazione nella facoltà, riconosciuta anche agli organi giurisdizionali non di ultima istanza e ritenuta non suscettibile di limitazione da parte di una norma di diritto nazionale, di adire la Corte di Giustizia qualora ritengano che, nell’ambito di una controversia dinanzi ad essi pendente, siano sorte questioni che implichino un’interpretazione o un accertamento della validità delle disposizioni del diritto dell’Unione che siano essenziali ai fini della pronuncia nel merito della causa di cui sono investiti (cfr. sent. 22/06/2010, in cause C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli; 16/12/2008, in causa C-210/06, Cartesio). Potrebbe quindi ritenersi che, ove in sede di rinvio pregiudiziale la Corte di Giustizia fornisca un’interpretazione della norma comunitaria coincidente con quella fatta propria dal giudice nazionale di grado superiore, non residui spazio alcuno per un riesame della questione da parte del giudice non di ultima istanza, risultando la stessa coperta dal giudicato formatosi al riguardo. Una applicazione estensiva del principio enunciato dalla giurisprudenza comunitaria, volta ad affermarne l’operatività in ogni caso in cui, a fronte di una decisione adottata dal giudice superiore, il giudice non di ultima istanza ritenga di dover sollevare una questione pregiudiziale d’interpretazione delle norme comunitarie, anche non strettamente collegata a quella già decisa in via definitiva, potrebbe d’altronde destare perplessità, in quanto idonea a legittimare incondizionatamente il riesame di quest’ultima, in pregiudizio dell’autorità del giudicato, la cui importanza, sia nell’ordinamento dell’Unione che in quelli degli Stati membri, è stata ripetutamente sottolineata dalla stessa giurisprudenza comunitaria, al fine di garantire la stabilità del diritto e la certezza dei rapporti giuridici, nonché una buona amministrazione della giustizia (cfr. Corte di Giustizia UE, 10/07/2014, in causa C-213/13, Impresa Pizzarotti). A tal punto, infatti, le predette esigenze sono state ritenute meritevoli di considerazione, da essere stato affermato espressamente che il diritto dell’Unione non esige che, per tener conto dell’interpretazione di una sua disposizione offerta dalla Corte di Giustizia posteriormente alla decisione di un organo giurisdizionale avente autorità di cosa giudicata, quest’ultimo ritorni necessariamente su tale decisione (cfr. ex plurimis, Corte di Giustizia UE, 16/03/2006, in causa C-234/04, Kapferer; 3/09/2009, in causa C-2/08, Fallimento Olimpiclub; 6/10/2009, in causa C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones). Ed anche laddove, come nel settore degli aiuti di Stato, è stato affermato che il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una disposizione nazionale come l’art. 2909 c.c. italiano, che mira a consacrare il principio dell’intangibilità del giudicato, nei limiti in cui la sua applicazione impedirebbe il recupero dell’aiuto concesso in violazione del diritto dell’Unione e dichiarato incompatibile con il mercato comune (cfr. Corte di Giustizia UE, 18/07/2007, in causa C-119/05, Lucchini), si è tenuto a precisare che tale principio si riferiva ad una situazione tutta particolare, in cui era in questione il riparto di competenze tra gli Stati membri e l’UE, e comunque il giudicato era stato emesso senza tener conto di una precedente decisione della Commissione che aveva dichiarato la predetta incompatibilità (cfr. Corte di Giustizia UE, 10/07/2014, in causa C-213/13, Impresa Pizzarotti; 3/09/2009, in causa C2/08, Fallimento Olimpiclub). In dottrina, è stato d’altronde segnalato il rischio che, attraverso un’applicazione eccessivamente ampia del principio enunciato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 20 ottobre 2011, in causa C396/09, si pervenga alla svalutazione dell’efficacia del giudicato non solo, come nella specie, nell’ambito del giudizio in cui si è formato, ma anche in riferimento ad eventuali ulteriori giudizi nell’ambito dei quali la sua autorità possa venire in considerazione, e ciò in contrasto con le esigenze di certezza e stabilità ritenute prevalenti dalla giurisprudenza comunitaria.

Alla luce di tali considerazioni, la questione sollevata con i primi due motivi del ricorso principale appare meritevole di approfondimento da parte delle Sezioni Unite di questa Corte, non solo per la novità che la contraddistingue rispetto a quella già esaminata in sede di regolamento di giurisdizione, ma anche per i profili di massima di particolare importanza che riveste, in ragione della sua attinenza ai rapporti tra il Giudice di legittimità e quello comunitario e a una tematica come quella dell’autorità del giudicato, suscettibile di riproporsi in un numero indefinito di casi. Va pertanto disposta la rimessione degli atti al Primo Presidente, affinché valuti l’opportunità dell’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, per l’esame della questione concernente la possibilità. per il giudice di merito di riesaminare una questione di giurisdizione già definita dalla Corte di cassazione in sede di regolamento preventivo, a seguito di una pronuncia della Corte di Giustizia UE, adottata in sede di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del TFUE, che, nel fornire l’interpretazione della norma comunitaria che disciplina il riparto di giurisdizione tra i giudici degli Stati membri, abbia ribadito i principi precedentemente enunciati, e già applicati dal Giudice di legittimità.

P.Q.M.

rimette gli atti al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite civili.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

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