LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LEONE Margherita Maria – Presidente –
Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –
Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26005-2019 proposto da:
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA BENEDETTO CAIROLI 2, presso lo studio dell’avvocato ANGELO ABIGNENTE, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. MANGILI 29, presso lo studio dell’avvocato FERRUCCIO MARIA DE LORENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato PATRIZIA KIVEL MAZUY;
– controricorrente –
contro
AZIENDA UNIVERSITARIA POLICLINICO;
– intimata –
contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso lo studio dell’avvocato LELIO MARITATO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati EMANUELE DE ROSE, ANTONINO SGROI, ANTONIETTA CORETTI, CARLA D’ALOISIO;
– resistente –
avverso la sentenza n. 16994/2019 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 25/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/05/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELLA MARCHESE.
RILEVATO
che:
l’Università degli Studi di Napoli (di seguito, per brevità, Università) ha proposto ricorso, ai sensi dell’art. 391bis c.p.c., avverso la sentenza n. 16994 del 2019, con la quale la Corte di cassazione ha respinto il ricorso ordinario proposto dalla medesima Università nei confronti di L.G. e dell’INPS;
dinanzi alla Corte di legittimità, era stata impugnata la sentenza della Corte di appello di Napoli che, in riforma della decisione di primo grado, aveva dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda di regolarizzazione contributiva – e/o comunque di risarcimento dei danni derivanti dall’omissione contributiva in relazione agli anni dal 1981 al 1997 – proposta da un lavoratore, medico cd. gettonato, il cui rapporto di lavoro era “proseguito” senza soluzione di continuità e con le stesse caratteristiche a partire dal 2 gennaio 1998, prima a tempo determinato, poi a tempo indeterminato;
la Corte di cassazione ha confermato la giurisdizione del giudice ordinario, osservando, tra l’altro, come il medico ricorrente avesse richiesto “la regolarizzazione della propria posizione previdenziale per il periodo 1981-1997, sul presupposto di aver ottenuto il riconoscimento giudiziale del carattere subordinato del rapporto”;
al giudizio di revocazione, ha resistito, con controricorso, L.G.; è rimasta intimata l’azienda universitaria in epigrafe; l’INPS ha depositato procura speciale;
la proposta del relatore è stata ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio;
l’Università e L.G. hanno depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
a sostegno della revocazione, parte ricorrente deduce l’errore di percezione in cui sarebbe incorso il giudice di legittimità nella parte in cui ha presupposto che “l’omissione contributiva (…) si sarebbe protratt(a) oltre il giugno 1998”; per l’Università, la Corte sarebbe incorsa in un errore di fatto “per aver ritenuto, contrariamente a quanto emergeva dagli atti di causa ed era incontroverso, che la condotta presuntivamente illecita attribuita all’Università, cessata nel 1997, integrasse un illecito permanente oltre il giugno 1998, essendo peraltro pacifico che dal momento dell’assunzione del L. alle dipendenze dell’Università, a far data dal 2.1.1998, i contributi previdenziali erano stati sempre versati dall’Ateneo”;
il ricorso è inammissibile;
va osservato che l’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, idoneo a determinare la revocazione delle sentenze, comprese quelle della Corte di cassazione, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte deve: 1) consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente ed immediatamente rilevabile, tale da avere indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile; 2) essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa; 3) non cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata; 4) presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche; 5) non consistere in un vizio di sussunzione del fatto, né in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo;
la giurisprudenza di legittimità ha, dunque, perimetrato l’errore di fatto revocatorio, limitandolo all’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di fatti considerati nella loro dimensione storica di spazio e di tempo;
l’errore, inoltre, deve apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità ma non può tradursi in un preteso, inesatto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di norme giuridiche e principi giurisprudenziali, vertendosi, in tal caso, nella ipotesi dell’errore di giudizio, inidoneo a determinare la revocabilità delle sentenze della Cassazione (fra le tante, Cass., sez. un., n. 8984 del 2018; in motivazione, Cass., sez. un., n. 30994, punti 3.1. e ss.; Cass., sez. un., n. 18899 del 2017);
in modo evidente, questi presupposti non ricorrono nella fattispecie in esame, in cui il ricorrente denuncia non un errore di percezione su di un fatto, ben chiaro alla Corte nella sua dimensione storica e temporale, ma l’apprezzamento dello stesso. Il Giudice di legittimità ha valutato la fattispecie concreta e, con chiara consapevolezza, ha ritenuto, ai fini del riparto di giurisdizione, che la condotta, benché radicata in fatti antecedenti al 1998, travalicasse, tuttavia, la barriera posta dal legislatore nel 2001;
la Corte ha avuto ben presente la questione temporale dell’omissione contributiva (riferita ad un periodo precedente al 1998), segno che la stessa ha costituito oggetto di un punto controverso e ciò rappresenta ulteriore ragione di inammissibilità della revocazione (Cass. n. 3200 del 2017);
le spese seguono la soccombenza e si liquidano, in favore della parte controricorrente, come da dispositivo;
nulla deve provvedersi in relazione all’azienda universitaria, rimasta intimata, e nei confronti dell’INPS, in difetto di sostanziale attività difensiva;
sussistono, altresì, i presupposti processuali per il pagamento, da parte della ricorrente, del doppio contributo, ove dovuto.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore della parte controricorrente, in Euro 4.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 20 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021