Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.32171 del 05/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25129-2019 proposto da:

S.S., rappresentato e difeso dall’avvocato Daniela Gasparin, del foro di Milano ed elettivamente domiciliato agli indirizzi PEC dei difensori iscritti nel REGINDE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente -v avverso la sentenza n. 596/2019 della Corte di appello di Milano, depositata il 12/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/12/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:

– con provvedimento notificato il 16.12.2016 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;

– avverso tale provvedimento interponeva opposizione S.S., che veniva respinta dal Tribunale di Milano con ordinanza comunicata in data 12.12.2017, che veniva impugnata dinanzi alla Corte di appello di Milano che, con sentenza n. 596 del 12.12.2019, rigettava il gravame;

– la decisione evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, rilevando che le ragioni che avevano indotto il richiedente asilo, proveniente dal *****, a fuggire nel marzo 2015 dal Paese di origine – per presunta persecuzione politica che lo aveva visto coinvolto in vari processi penali;

– non erano attendibili, avendo già ottenuto una condanna all’ergastolo per omicidio, di cui il richiedente dichiarava di non sapere nulla, oltre ad essere poco plausibile che una persona giovane e gracile come il ricorrente potesse essere stata la guardia del corpo di alcuni esponenti politici del partito *****. Ne’ il ricorrente aveva compiuto un ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e fornire gli elementi pertinenti in suo possesso. Quanto alla protezione sussidiaria non ricorrevano elementi per consentire di ritenere sussistente nei suoi confronti una situazione persecutoria diretta e personale che lo ponesse in una situazione di effettivo o quanto meno verosimile rischio di un grave danno alla persona in quanto pur considerando che in ***** vi era una compromessa situazione relativa ai rapporti tra contrapposti partiti politici, confermata in particolare dalla Risoluzione del Parlamento Europeo sulle recenti elezioni (2014 – 2016 RSP), lo Stato stava compiendo ogni sforzo per combattere la corruzione, concussione, malaffare e gli atti di violenza delle forze di sicurezza e di polizia. Inoltre, dopo l’attacco terroristico a Dhaka del luglio 2016 una serie di operazioni antiterrorismo aveva portato allo smantellamento di covi e alla neutralizzazione di numerosi militanti. D’altro canto il richiedente si era limitato a porre a fondamento delle proprie pretese la situazione personale che lo vedeva imputato in vari processi penali sia per la morte di un uomo nel suo paese sia per altri reati.

Del pari veniva negata la ricorrenza dei presupposti per la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari in difetto di prova di una effettiva integrazione sociale, non potendo costituire ragione giustificatrice la situazione socio politica del ***** ed i lavori intrapresi seppure denotanti un tentativo di integrazione, non apparivano elementi sufficienti alla concessione del beneficio della protezione per motivi umanitari;

– propone ricorso per la cassazione di tale decisione – notificato in data 16.08.2019 – S.S., affidato nella sostanza a tre motivi, cui resiste con controricorso il Ministero dell’interno.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 3, 4,5,6 e 7 e del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, artt. 8 e 27, nonché degli artt. 2 e 3 CEDU, oltre ad omesso esame di fatti decisivi e assenza di motivazione. In particolare il ricorrente si duole che la Corte distrettuale abbia violato i parametri normativi relativi agli atti di persecuzione subiti in ragione dell’appartenenza politica del ricorrente al partito *****, opposto a quello al governo.

La censura è inammissibile, poiché deduce solo formalmente un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata da una norma di legge, nella sostanza allegando un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, ciò che inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità, se non sotto il profilo motivazionale (Cass. n. 24155/2017; Cass. n. 22707/2017; Cass. n. 6587/2017; Cass. n. 195/2016).

Ne’ sono ravvisabili lacune nel provvedimento per motivazione apparente, posto che la Corte di merito ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria. In particolare, la Corte distrettuale – dopo avere giudicato il racconto del ricorrente poco credibile sia per intrinseca contraddittorietà della narrazione, non conoscendo lo stesso l’esito ed il numero dei procedimenti penali a suo carico, e non essendo attendibile neanche la professione di guardia del corpo per la giovane età e per il fisico esile del richiedente – richiamando le fonti internazionali consultate, ha evidenziato che il richiedente proviene dal *****, attualmente non caratterizzata da episodi di violenza generalizzata.

Il giudice di merito ha, comunque, fatto specifico riferimento alla Risoluzione del Parlamento Europeo sulle recenti elezioni (2014 2016), da cui emergeva che lo Stato stava compiendo ogni sforzo per combattere la corruzione, concussione, malaffare e gli atti di violenza delle forze di sicurezza e di polizia; inoltre, dopo l’attacco terroristico a ***** del ***** una serie di operazioni antiterrorismo aveva portato allo smantellamento di covi e alla neutralizzazione di numerosi militanti. Sulla base di tutto ciò ha escluso che l’area di provenienza del richiedente fosse interessata da una situazione di violenza generalizzata di tale gravità e diffusione da mettere a repentaglio l’esistenza ed incolumità della persona.

A fronte di tale accertamento, il ricorrente neanche indica specifiche circostanze, limitandosi a riferire genericamente che la Corte di merito non avrebbe adeguatamente indagato sugli atti di persecuzione dallo stesso richiedente subiti in ragione della sua appartenenza politica al *****.

Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass., 2 ottobre 2019 n. 24647).

Ciò in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave, potendo l’esistenza di un conflitto armato interno portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c), della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia Europea (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakite’, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).

Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721).

I giudici di merito hanno, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in esito al quale hanno ritenuto non sussistente la violenza generalizzata nel paese di origine e tale statuizione è conforme a diritto, non dovendo essere prestata alcuna collaborazione istruttoria officiosa in ipotesi di non attendibilità del racconto, come correttamente argomentato nella specie anche con riguardo alla rilevanza dei fatti narrati in una situazione del tutto personale;

– con il secondo motivo (per mero errore materiale indicato come III nel ricorso), il ricorrente lamenta la violazione dei parametri normativi relativi all’accertamento della credibilità delle dichiarazioni del richiedente, fissati nel D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, lett. c), venendo meno agli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale. Inoltre la Corte di merito, ad avviso del ricorrente, avrebbe citato poche fonti per giungere a formulare il proprio giudizio. Viene, altresì, censurato l’omesso esame di fatti decisivi, nonché la violazione o la falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 3,14, al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 8 e 27, agli artt. 2 e 3 CEDU. Violazione, altresì, dei parametri normativi per la definizione di un danno grave. Infine è lamentata la violazione di legge in riferimento agli artt. 6 e 13 Convenzione EDU, all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e all’art. 46 della direttiva Europea 2013/32.

Anche la seconda censura è inammissibile.

La Corte distrettuale, per quanto esposto con riferimento al primo mezzo, ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento di ogni forma di protezione. In particolare, ha giudicato il racconto del ricorrente inattendibile, poco credibile, contraddittorio e privo di una logica unitaria, anche per la mancanza di attendibilità circa la non conoscenza dell’esito dei numerosi processi penali che lo vedrebbero imputato; ha, inoltre, rilevato che non appariva veritiera neanche la circostanza che egli fosse stato ingaggiato come guardia del corpo da rappresentanti del partito all’opposizione, sia per la giovane età sia per la sua gracilità. Per questo il giudice di merito ha escluso che le vicende narrate fossero idonee ad integrare una persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale e valutando nel merito la vicenda narrata ha in ogni caso ritenuto che la stessa esulasse dall’ambito di applicazione del riconoscimento della protezione internazionale in quanto il racconto del ricorrente aveva ad oggetto vicende che non integrano il c.d. timore persecutorio, in presenza di fatti penalmente rilevanti per sua stessa ammissione.

Tale statuizione è conforme a diritto.

Del resto in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona. Qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. n. 16925/2018).

Secondo l’indirizzo espresso da questa Corte, in tema di protezione internazionale, il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3 oltre a sancire un onere del richiedente consistente nell’allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, pone a carico dell’autorità decidente un più incisivo dovere di cooperazione istruttoria a carico dell’ufficio di informarsi in modo adeguato e pertinente alla richiesta, soprattutto con riferimento alle condizioni generali del Paese d’origine, allorquando le informazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti.

Ciò posto, l’attivazione del suddetto potere di cooperazione istruttoria, che in questa materia deroga al principio dispositivo del processo civile, postula che ricorrano i presupposti di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3 ed in particolare che il ricorrente abbia circostanziato la domanda, abbia fornito un’idonea motivazione della mancanza di altri elementi significativi, ed appaia attendibile dai riscontri effettuati.

Nel caso di specie il Tribunale ha escluso che siffatti presupposti sussistessero, ritenendo pertanto che non fosse necessaria l’attivazione del potere d’indagine suppletiva d’ufficio, non avendo il ricorrente giustificato in alcun modo la veridicità dei fatti narrati.

Il giudice di merito ha, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in esito al quale ha ritenuto inattendibile la narrazione del richiedente, elemento questo di fondamentale importanza, poiché secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione “In materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5” (Cass. 12 giugno 2019 n. 15794).

Con la conseguenza che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e con l’ulteriore corollario che il giudice deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate.

Ciò nel rispetto dei principi affermati da questa stessa Corte sull’onere della prova in materia di protezione internazionale, materia che non si sottrae al principio dispositivo, pur nei limiti esposti in relazione al principio della cooperazione istruttoria del giudice, principio quest’ultimo che concerne il versante dell’allegazione e non quello della prova (Cass. 29 ottobre 2018 n. 27336).

Non si può, quindi, dire omessa alcuna attività da parte del giudice di merito in quanto non è stato indicato il contenuto delle allegazioni da verificare, quand’anche in via ufficiosa. E quanto all’attuale situazione del *****, la Corte di merito ha svolto un accertamento di merito sulla base di COI di fonte istituzionale;

– con il terzo ed ultimo motivo (per mero errore materiale indicato come IV nel ricorso) il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, oltre a motivazione apparente per non avere il Tribunale riconosciuto la sussistenza dei motivi umanitari per la concessione della relativa tutela e alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità; violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3, 4, 7,14,16 e 17, D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, artt. 8,10 e 32 e dell’art. 10 Cost., oltre a nullità del provvedimento impugnato per violazione degli artt. 112,132 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, e dell’art. 111 Cost., comma 6, nonché omesso esame circa un fatto decisivo in relazione ai presupposti della protezione umanitaria. In particolare, ad avviso del ricorrente non sarebbero stati valutati tutti i profili di vulnerabilità, in primis nessuna comparazione tra la situazione attuale del ricorrente in Italia e quella che avrebbe nel suo paese per il caso di rientro in *****, la sua assenza dal paese di origine da molto tempo, nonché la sua buona integrazione in Italia per lingua e per lavoro.

E’ da ritenere inammissibile anche siffatta censura.

Questa Corte, infatti, ha già avuto occasione di chiarire, nella recente sentenza 23/02/2018, n. 4455, invocata dallo stesso ricorrente, (orientamento confermato da Cass., Sez. Un., n. 29459 del 2019) che, “se assunti isolatamente, né il livello di integrazione dello straniero in Italia né il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza integrano, di per sé soli e astrattamente considerati, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto” alla protezione umanitaria, in quanto “il diritto al rispetto della vita privata – tutelato dall’art. 8 CEDU (…) – può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero (…) non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale (Corte EDU, sent. 08.04.2008, ric. 21878/06 caso Nnyanzi c/ Regno Unito, par. 72 ss.)”.

La Corte territoriale ha motivatamente respinto l’istanza di protezione umanitaria (v. pagine 5 e 6 della sentenza impugnata) effettuando la valutazione comparativa richiesta dalla giurisprudenza, in quanto ha escluso la ricorrenza di una condizione di vulnerabilità specifica, sia per la carenza di attendibili informazioni circa la personale condizione di vita nel Paese di origine, stante la non credibilità del ricorrente, sia perché le condizioni personali dedotte, circostanze che non integravano i presupposti della protezione richiesta.

La decisione allora appare in linea con i principi enunciati da Cass. n. 4455 del 23/2/2018: a fronte di ciò, il ricorrente da un lato propone una pura e semplice critica di merito riguardante l’accertamento di fatto della insussistenza dei presupposti richiesti dalla normativa, e dall’altro non illustra se e quando la situazione del paese di origine sulla quale incentra la doglianza fosse stata dedotta, nel giudizio di merito, a fondamento della domanda di protezione umanitaria.

La generica doglianza proposta integra perciò una inammissibile richiesta di rivisitazione del merito (Cass. n. 16056/2016; Cass. n. 29404/2017; Cass. n. 9547/2017; Cass. n. 27072/2019; Cass. n. 6939/2020; Cass. n. 7192/2020).

Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali del giudizio di legittimità che vengono liquidate in complessivi Euro 2.100,00 oltre alle spese prenotate e prenotande a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 3 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

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