LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25104-2019 proposto da:
A.F., rappresentato e difeso dagli avvocati Tiziana Aresi, e Massimo Carlo Seregni, del foro di Milano ed elettivamente domiciliato agli indirizzi PEC dei difensori iscritti nel REGINDE;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– intimato –
avverso il decreto n. /2019 del Tribunale di Milano, depositato l’11/03/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/12/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:
– con provvedimento notificato il 31.01.2018 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;
– avverso tale provvedimento interponeva opposizione A.F., che veniva respinta dal Tribunale di Milano con decreto n. dell’11.03.2019, comunicato il 28.07.2019;
– la decisione di evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, evidenziando preliminarmente una valutazione di non credibilità del richiedente asilo, proveniente da *****, regione posta nella zona sud della *****, per avere descritto in maniera molto vaga e generica le minacce ricevute anche da persone sconosciute e da lui ricondotte allo zio e per avere solo in un secondo momento dichiarato che lo zio apparteneva agli *****, appartenenza che peraltro egli aveva dedotto da alcune foto che lo zio aveva in sala e in cui appariva vestito in costume. Per il resto il ricorrente avrebbe deciso di partire dal suo Paese di origine esclusivamente a seguito di una situazione conflittuale con lo zio paterno a causa di questioni patrimoniali. Incongruo sarebbe poi la narrazione dell’incursione di alcune persone presso l’abitazione dell’amico che lo ospitava, di cui né lui né l’amico sono riusciti a vederle, ricavandone però la convinzione che fossero state “mandate dallo zio” con lo scopo di ucciderlo, che peraltro non aveva più rivendicato i terreni parteni o appartenuti al nonno. Concludeva che la vicenda narrata era riconducibile ad un conflitto endo-familiare per motivi economici. Del pari veniva negata la ricorrenza dei presupposti per la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari in difetto di specifica allegazione e dimostrazione di rientrare in categorie soggettive in relazione alle quali erano ravvisabili lesioni di diritti umani di particolare entità, né erano ravvisabili le condizioni di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, non essendo all’uopo sufficiente la sola prova di un rapporto di lavoro, anche piuttosto stabile;
– propone ricorso per la cassazione di tale decisione – notificato in data 27.06.2019 – l’ A. affidato a due motivi;
– il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.
Atteso che:
– con il primo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 per non avere il provvedimento impugnato assolutamente valutato il periodo di permanenza dell’ A. nei paesi di transito e le ragioni della sua fuga dalla Libia.
La censura è inammissibile sotto molteplici profili.
Premesso che il motivo contiene una serie di considerazioni teoriche sul quadro normativo di riferimento, il ricorrente deduce un excursus sulle fonti attestanti la situazione di diffusa violenza e violazione dei diritti umani esistente in Libia, Paese in cui il ricorrente è transitato, nonché in altri Paesi di transito per giungere in Italia (che però neanche indica nominativamente), senza tuttavia tener conto che in casi siffatti, ove si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, occorre comunque evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituendo altrimenti circostanza irrilevante ai fini della decisione, perché l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il Paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale Paese (Cass. n. 31676 del 2018).
Ora, appunto il ricorso non chiarisce quale sia appunto la connessione esistente tra il transito con permanenza e il contenuto della domanda e perciò ne va confermata la non accoglibilità;
– con il secondo motivo viene dedotta – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3, 5 e art. 14, lett. c) per non essere stata correttamente ponderata dal giudice del merito la concessione di un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria o per motivi umanitari. Assume il ricorrente che il giudice non avrebbe proceduto, in concreto, all’acquisizione delle informazioni necessarie sulla situazione generale del Paese di origine ovvero, per quanto occorra, dei Paesi in cui è transitato. Nel caso di specie – ad avviso del ricorrente – sarebbe palesemente presente il requisito del grave danno ex art. 14, lett. c) dell’invocato D.Lgs. non ponderato dai giudici del merito ai fini della concessione della protezione sussidiaria.
La censura, che aggredisce il giudizio d’inattendibilità della narrazione del richiedente, è manifestamente infondato.
Detto giudizio non è idoneo a violare le prescrizioni di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, che regolano i c.d. indicatori di genuinità, in quanto la violazione o la falsa applicazione di legge non possono mai essere secondarie ad un erroneo apprezzamento dei fatti. Invero, quando nel ricorso per cassazione è denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni, intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbono ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (indirizzo costante di questa Corte Suprema: v. per tutte, Cass. n. 635 del 2015).
Nello specifico, parte ricorrente si è limitata a sostenere che il racconto del richiedente sarebbe plausibile, perché “in *****, come in molti altri paesi, la difesa dei diritti civili quali quelli ereditaria è lasciata letteralmente in balia del più forte, senza che la polizia intervenga in questioni ritenute meramente familiari” e ciò anche se vi sarebbero stati omicidi o aggressioni ingiustificati proprio per tali ragioni (v. pag. 6 del ricorso).
E’ evidente che tutto questo è solo un diverso apprezzamento dei fatti, il quale è notoriamente insindacabile innanzi a questa Corte di legittimità, anche sotto la lente dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la cui riformulazione, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., Sez. Un., n. 8053 del 2014).
E nel caso in esame è tutt’altro che apparente la motivazione del provvedimento impugnato, lì dove il Tribunale ha osservato, nel ribadire la non credibilità del racconto, che comunque stante il numero di anni ormai decorso dall’allontanamento del richiedente dal suo Paese di origine lo zio aveva verosimilmente consolidato il possesso e acquisito la piena proprietà dei terreni caduti in successione, sicché non si potevano inquadrare logici e fondati motivi di ulteriori vessazioni ovvero pericoli per l’incolumità del richiedente in caso di rientro.
Non senza rimarcare che parte ricorrente non ha citato una sola fonte qualificata che accrediterebbe la dedotta circostanza, secondo cui in ***** lo Stato non garantirebbe i diritti nascenti dalla successione ereditaria.
Ancora, in tema di riconoscimento della protezione internazionale, l’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, attiene al giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità, ed osta al compimento di approfondimenti istruttori officiosi, cui il giudice di merito sarebbe tenuto in forza del dovere di cooperazione istruttoria, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori; ne consegue che, in caso di racconto inattendibile e contraddittorio e per di più variato nel tempo, non è nulla la sentenza di merito che – come del resto affermato da Corte di Giustizia U.E., 26 luglio 2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko, e da Corte EDU, 12 novembre 2002, Dory c. Svezia – rigetti la domanda senza che il giudice abbia proceduto a nuova audizione del richiedente per colmare le lacune della narrazione e chiarire la sua posizione (v. n. 33858/19 e 16925/18).
Ed infine, avendo il Tribunale escluso in radice la credibilità dell’esposta vicenda personale del richiedente, resta assorbita ogni questione sia sull’astratta configurabilità o meno di atti persecutori provenienti non da gruppi più o meno organizzati, ma da singoli soggetti privati.
Peraltro una volta esclusa l’attendibilità della narrazione del richiedente, è di evidenza solare che l’una motivazione di diniego regga anche la protezione sussidiaria (soltanto per le ipotesi di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a e b), proprio per la succedaneità di siffatte forme di protezione.
Inoltre, quanto alla asserita violazione dello stesso D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c) questa Corte ha più volte affermato che, quando non sia in questione la “personalizzazione del rischio” – come (in varia misura) per il rifugio politico e la protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. a) e b) D.Lgs. cit.- l’acquisizione di informazioni sulla effettiva situazione, concreta e attuale, del Paese di provenienza è stata in concreto effettuata dal Tribunale, facendo richiamo all’EASO nel rapporto del 2017 (v. pag. 8 del decreto impugnato), per cui nessuna critica può essere mossa all’accertamento del giudice di merito, anche per quanto sopra esposto.
Pure apodittica è la critica in ordine alla mancata concessione della protezione umanitaria laddove il ricorrente neanche deduce che si sarebbe integrato nella società italiana.
Infine intatta, per le ragioni di cui sopra, la ritenuta non credibilità del trasferimento, va osservato, limitatamente alla ulteriore dedotta esperienza libica, che in tanto la vulnerabilità del richiedente va considerata in rapporto alle violenze subite nel Paese di transito, in quanto queste siano potenzialmente idonee a ingenerare un forte grado di traumaticità (cfr. Cass. n. 13096 del 2019), come illustrato con riferimento al primo mezzo, mentre nel caso di specie il ricorrente non ha neanche specificato qual tipo di violenze avrebbe subito, né ha dimostrato la relativa specifica allegazione nel giudizio di merito.
Per il resto, il mezzo consta di considerazioni generali sulla natura della protezione umanitaria e della mera ripetizione, nei punti salienti, della vicenda narrata dal richiedente.
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile e considerato che il Ministero non ha svolto attività difensiva non deve provvedersi sulle spese del giudizio.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 3 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021