LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22046-2016 proposto da:
A.N., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. NICOTERA 29, presso lo studio dell’avvocato GASPARE SALERNO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
ASSOCIAZIONE A.G.I.T. ALLENATORI GUIDATORI ITALIANI DI TROTTO, (già
U.N. A.G.T.);
– intimata –
avverso la sentenza n. 1245/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 23/02/2016 R.G.N. 1456/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/10/2020 dal Consigliere Dott. LEO GIUSEPPINA.
RILEVATO IN FATTO
che la Corte di Appello di Milano, con sentenza pubblicata il 23.2.2016, ha respinto il gravame interposto da A.N., nei confronti dell’Associazione AGIT Allenatori Guidatori Italiani Trotto, avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede n. 154/2013, con la quale era stata rigettata la domanda della lavoratrice diretta ad ottenere il riconoscimento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato dall’1.10.2004 al 23.1.2010, “con la qualifica della dipendente di impiegata amministrativa di quarto livello del CCNL Artieri Trotto”, nonché la declaratoria di inefficacia del licenziamento alla stessa intimato oralmente il 21.1.2013, con la condanna della parte datoriale alla reintegrazione nel posto di lavoro, al risarcimento del danno ed al pagamento delle differenze retributive maturate nel corso del rapporto;
che per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso A.N. articolando due motivi;
che l’Associazione AGIT Allenatori Guidatori Italiani Trotto non ha svolto attività difensiva;
che il P.G. non ha formulato richieste.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che, con il ricorso, si denunzia testualmente: “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro errori in procedendo (art. 360 c.p.c. n. 3)”, perché “il giudice, soprattutto di primo grado è caduto in un omesso esame della domanda, non pronunciandosi sulla stessa, rifugiandosi nella totale denegazione con una affermazione apodittica e con accusa di avere omesso di precisare le modalità di svolgimento delle prestazioni sì da rendere impossibile una istruttoria testimoniale sul punto del rapporto di lavoro. Le prove testimoniali erano state richieste già in primo grado e reiterate in sede di appello, ma rimaste del tutto inascoltate. L’omesso esame e la conseguente omessa pronuncia sulla conseguente domanda, eccezione o istanza (prove testimoniali, si risolve, nella sostanza in una violazione di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ed integra un difetto di attività del giudice di secondo grado ed anche di primo grado e questo ex art. 360 c.p.c., n. 3). Si tratta di un error in procedendo. Si tiene ad evidenziare anche che nello specifico neppure risulta motivato se l’aver escluso le prove testimoniali, prima ampiamente formulate, appaia legittimo comunque in virtù di specifiche preclusioni in punto di modalità di esecuzione della resa prestazione lavorativa”; 2) “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 4)”, perché “La sentenza impugnata fa dipendere la decisione sull’inidoneità dichiarata delle prove testimoniali, per corrispondenti inidoneità delle deduzioni di fatto e carenze descrittive delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. Sul punto difetta la motivazione, e comunque ex art. 421 c.p.c., ben poteva sopperire il giudice ed ordinare la comparizione di quei testi ritenuti importanti per interrogarli liberamente anche al di fuori degli schemi fissi dei capitoli di prova”;
che il primo motivo è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili: innanzitutto perché solleva un coacervo di censure peraltro in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, che, all’evidenza, attiene ad errores in iudicando, sostenendosi invece, più volte, che le doglianze attengono ad “errori in procedendo” – senza il rispetto del canone della specificità del mezzo di impugnazione, che determina, nella parte argomentativa dello stesso, la difficoltà di scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio e, dunque, di effettuare puntualmente l’operazione di interpretazione e di sussunzione delle censure (al riguardo, tra le molte, Cass. nn. 21239/2015, 7394/2010, 20355/2008, 9470/2008); inoltre, in quanto la parte ricorrente non ha indicato quali norme e sotto quale profilo sarebbero state incise, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);
che, peraltro, nel corso dello stesso motivo, si deduce che le violazioni lamentate attengono altresì all’esegesi “dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro”, non specificati, né prodotti (e neppure indicati nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso per cassazione); e ciò, in violazione del principio (arg. ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (v., ex plurimis, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità delle doglianze, al riguardo svolte dalla ricorrente;
che “e’ inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (Cass., SS.UU., n. 34476/2019); e, nella fattispecie, le doglianze mosse alla sentenza oggetto del presente giudizio sono dirette, all’evidenza, nella sostanza, a sollecitare una rivalutazione del merito, non consentita in questa sede, attraverso la censura – sollevata, in realtà, soprattutto nei confronti della sentenza del primo giudice, che non è oggetto del giudizio di legittimità – che investe la mancata ammissione di alcuni mezzi di prova (non specificati e dei quali non si esplicita la rilevanza); al riguardo, va sottolineato che, in ordine alla valutazione degli elementi probatori, posto che la stessa è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (nella fattispecie, congrua, condivisibile e scevra da vizi logici), alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Corte, qualora il ricorrente denunzi, in sede di legittimità, l’omessa o errata valutazione di prove testimoniali, ha l’onere non solo di trascriverne il testo integrale nel ricorso per cassazione, ma anche di specificare i punti ritenuti fondamentali al fine di consentire il vaglio di decisività che avrebbe eventualmente dovuto condurre il giudice ad una diversa pronunzia, con l’attribuzione di una valutazione differente alle dichiarazioni testimoniali relativamente alle quali si denunzia il vizio (cfr., ex multis, Cass. nn. 17611/2018; 13054/2014; 6023/2009);
che, infine, perché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di “omessa pronunzia” sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, deve prospettarsi, in concreto, l’omesso esame di una domanda (cfr., tra le molte, Cass. nn. 13482/2014; 9108/2012; 7932/2012; 20373/2008); ipotesi, questa, che la ricorrente non ha provato, in quanto non ha prodotto (né trascritto, né indicato tra i documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso di legittimità), in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il ricorso introduttivo del giudizio contenente le richieste istruttorie, né l’atto di gravame in cui si assume che le stesse siano state reiterate; pertanto, questa Corte non ha potuto apprezzare la veridicità delle doglianze mosse, al proposito, dalla ricorrente alla sentenza oggetto del presente giudizio;
che il secondo motivo – in ordine al quale valgono altresì le considerazioni svolte relativamente al primo mezzo di impugnazione – è inammissibile; con lo stesso, infatti, si sollecita un nuovo esame del merito e si denunzia, nella sostanza, un vizio di motivazione sempre con riferimento alla valutazione o alla mancata ammissione dei mezzi istruttori, assumendosi, testualmente, che “difetta la motivazione della mancata ammissione, e comunque ex art. 421 c.p.c., ben poteva sopperire il giudice ed ordinare la comparizione di quei testi ritenuti importanti per interrogarli liberamente anche al di fuori degli schemi fissi dei capitoli di prova”;
che, a prescindere dall’invocato ed irrituale “interrogatorio libero di testimoni anche al di fuori degli schemi fissi dei capitoli di prova”, alla luce dei consolidati arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità (v., ex plurimis, Cass., SS.UU. n. 11353/2004; Cass. nn. 13694/2014; 6205/2010; 17102/2009), l’attivazione dei poteri istruttori d’ufficio del giudice del lavoro, non può mai essere volta ad attribuire al giudice una funzione sostitutiva degli oneri di parte, in quanto con la norma di cui all’art. 421 del codice di rito si è inteso affermare che costituisce caratteristica precipua di tale rito speciale il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità materiale, cosicché, allorquando le risultanze di causa offrano già significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite (v., ancora, Cass. SS.UU. n. 11353/2004), ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti di istruzione la cui esigenza nasca da quanto già ritualmente acquisito; con la conseguenza che, laddove i giudici di merito non ravvisino, come nella fattispecie (v. in particolare, pag. 3 della sentenza impugnata), significativi dati di indagine scaturenti dalle risultanze di causa, tale potere-dovere non deve essere attivato; che per tutto quanto in precedenza osservato, il ricorso va dichiarato inammissibile;
che nulla va disposto in ordine alle spese del giudizio di legittimità, poiché l’Associazione AGIT Allenatori Guidatori Italiani Trotto è rimasta intimata;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 22 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021