LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29747-2020 proposto da:
N.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUTEZIA 8, presso il proprio studio, rappresentata e difesa da se stessa;
– ricorrente –
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, *****;
– intimato –
avverso il decreto n. cronol. 530/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato l’08/05/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 24/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE GRASSO.
RITENUTO
che:
N.I. propose domanda d’equa riparazione per la non ragionevole durata di un processo penale, nel quale aveva rivestito il ruolo d’imputata, definito con sentenza di assoluzione;
che la Corte d’appello di Roma, in composizione collegiale, rigettò l’opposizione avanzata dalla richiedente avverso il decreto monocratico che aveva dichiarato inammissibile la domanda per tardività;
che avverso quest’ultimo decreto la N. propone ricorso sulla base di cinque motivi, ulteriormente illustrati da memoria, e che il Ministero della Giustizia è rimasto intimato.
CONSIDERATO
che:
il primo motivo, con il quale la ricorrente denunzia nullità del decreto impugnato in relazione all’art. 161 c.p.c., n. 1, assumendo che il decreto collegiale avrebbe dovuto essere sottoscritto, oltre che dal Presidente, anche dal Relatore, stante la natura decisoria della pronunzia, è manifestamente destituito di giuridico fondamento, dovendosi osservare quanto segue:
– l’art. 132 c.p.c., comma 3, dispone che la sentenza emessa da un giudice collegiale deve essere sottoscritta dal relatore e dal presidente, per contro il medesimo codice, artt. 134 e 135, dispongono che l’ordinanza e il decreto debbono essere firmati solo dal presidente del collegio; né può assumere rilievo di sorta la circostanza che il provvedimento diverso dalla sentenza abbia carattere decisorio (come sovente accade) e debba essere sorretto da motivazione (come, peraltro, tutti i provvedimenti del giudice, salvo quelli meramente ordinatori, o la cui motivazione risulti prefigurata dalla legge);
considerato che il secondo, terzo e quarto motivo con i quali la ricorrente lamenta apparenza a motivazionale, violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione alla L. n. 89 del 2001, art. 2, e all’art. 360 c.p.c., n. 4; nonché violazione e errata applicazione del regolamento d’attuazione del c.p.p., art. 27, e dell’art. 655 c.p.p., in relazione alla L. n. 89 del 2001, art. 4, e all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; nonché della L. n. 89 del 2001, artt. 2-2-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, assumendo, in sintesi che, la sentenza penale, sulla base delle disposizioni richiamate, avrebbe dovuto intendersi divenuta definitiva non già allo scadere del termine utile per ciascuna delle parti per proporre impugnazione, che nella specie era stato individuato nel 24 marzo 2018, bensì alla data del 31 gennaio 2019 in cui il funzionario addetto aveva proceduto all’annotazione della irrevocabilità, è manifestamente privo di giuridico pregio, valendo quanto segue:
– la Corte d’appello con ben ampia motivazione, lungi dall’apparenza, ha puntualmente ripercorso la vicenda penale (la ricorrente in data 28 gennaio 2005 era venuta a conoscenza di essere sottoposta a indagini; dopo declaratoria d’incompetenza del GIP presso il Tribunale di Avellino, il giudizio era proseguito davanti al Tribunale di Roma, che con sentenza del 14 giugno 2011, aveva assolto l’imputata; la Corte d’appello aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione della parte civile e la Cassazione, con sentenza del 6 maggio 2013, accolto il ricorso della parte civile, aveva annullato con rinvio la sentenza d’appello; la Corte d’appello, giudicando in sede di rinvio, aveva con sentenza del 6 novembre 2017, depositata il 5 febbraio 2018, definito il giudizio, rigettando l’impugnazione della parte civile); precisato che la sentenza del 6/11/2017 era divenuta irrevocabile, per assenza d’impugnazioni, il 24 marzo 2018, siccome annotato dal funzionario di cancelleria il 31 gennaio 2019; chiarito che il termine finale, dal quale inizia a decorrere il termine decadenziale di sei mesi per la proposizione della domanda di equa riparazione si identifica con quello in cui la sentenza penale diviene irrevocabile, perché non più soggetta a impugnazione, spirato il termine di cui all’art. 585 c.p.; che, pertanto, la irrevocabilità non dipende affatto dall’annotazione di cancelleria prevista dal regolamento d’esecuzione del c.p.p.; conferma la tardività della domanda, proposta solo in data 9 aprile 2019;
– la tesi sulla quale la ricorrente insiste è radicalmente priva di apprezzabile fondamento, essendo evidente che la irrevocabilità della sentenza penale discende esclusivamente dal consumarsi del termine per impugnare (art. 585 c.p.c.) di ciascuna delle parti legittimata all’impugnazione e l’annotazione di cancelleria, avente mera natura ricognitiva (né altrimenti potrebbe essere, non essendo devoluto al funzionario il potere di stabilire il momento dell’intervenuta irrevocabilità), fotografa l’intervenuta irrevocabilità in relazione a ciascuna delle parti (ogni singolo imputato, ciascuna delle parti civili, il pubblico ministero), essendo, peraltro, evidente che la data dell’annotazione in parola non è quella, ovviamente anteriore, dell’irrevocabilità;
considerato che il quinto motivo, con il quale la ricorrente deduce violazione ed errata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 5-ter, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, assumendo che la “pronuncia è illegittima poiché la L. n. 89 del 2001, art. 5-quater, non prevede il pagamento di una parcella professionale, ma statuisce che “il giudice, quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma di denaro non inferiore ad Euro 1.000 e non superiore ad Euro 10.000"”, non è meno infondato degli altri, avendo la N. confuso la speciale ipotesi di condanna per responsabilità aggravata prevista dalla L. n. 89 del 2001, con la condanna al rimborso delle spese processuali della parte soccombente, non potendo il costo del processo gravare sulla parte vincitrice (art. 91 c.p.c.);
considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c., e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;
considerato che essendo la controparte rimasta intimata non vi è luogo a regolamento delle spese;
che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
PQM
dichiara il ricorso inammissibile;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2021
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