LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18396/2017 proposto da:
ISTITUTO *****, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FILIPPO NICOLAI 70, presso lo studio dell’avvocato LUCA GABRIELLI, rappresentato e difeso dagli avvocati MARCO BARILATI, PIER GIORGIO COPPA;
– ricorrente –
contro
N.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CARSO 23, presso lo studio degli avvocati MARIA ROSARIA DAMIZIA, e ARTURO SALERNI, che lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
e contro
D.F., TEMPORARY S.P.A.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 166/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 27/03/2017 R.G.N. 602/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 08/07/2021 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA.
RILEVATO
Che:
1. la Corte di Appello di Genova, con sentenza pubblicata il 27 marzo 2017, per quanto qui interessa, ha confermato la pronuncia del Tribunale nella parte in cui l’Istituto ***** era stato condannato al pagamento in favore di N.L. della somma di Euro 5.586,62, oltre accessori, a titolo di straordinario, in quanto questi, per la sua prestazione di infermiere, era tenuto “a indossare divisa e cartellino di riconoscimento, forniti dall’ospedale, con divieto di lasciare il luogo di lavoro a fine turno con indosso la predetta divisa e quindi con la necessità di cambiarsi anche al termine della giornata lavorativa”; in riforma poi della decisione di primo grado, la Corte ha altresì condannato al pagamento in solido di detta somma anche la Temporary Spa, in quanto nel periodo in controversia il N. aveva lavorato presso il ***** anche in forza di un contratto di somministrazione;
2. la Corte, dopo aver considerato che il tempo di vestizione e di svestizione dell’infermiere fosse da considerare orario di lavoro nella misura non contestata pari a 40 minuti giornalieri, ha condiviso l’assunto del primo giudice circa l’esistenza di “una autorizzazione implicita e costante all’utilizzo di tale tempo ulteriore per gli evidenziati scopi essenziali del servizio”; in merito, poi, al requisito dell’eccezionalità del lavoro straordinario di cui all’art. 34 del CCNL del comparto Sanità, la Corte ha ritenuto che lo stesso operasse “sul diverso piano dell’organizzazione del lavoro rispetto al quale il singolo lavoratore non ha voce in capitolo”;
3. per quanto riguarda, invece, l’eccezione – sollevata dall’Istituto in sede di operazioni peritali – circa l’esistenza di un Regolamento interno per il quale “si considerano, ai fini dello straordinario, le ore di lavoro effettivamente svolte dopo una franchigia di 15 minuti”, la Corte ha ritenuto fosse “onere del convenuto, ex art. 416 c.p.c., comma 3, sollevare, nel costituirsi, tutte le proprie difese ed eccezioni anche quelle volte a limitare nel cd. quantum, la sua eventuale condanna e non solo quelle dirette a contestare, in radice, la domanda avversaria”;
4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso l’Istituto ***** con 3 motivi; ha resistito con controricorso N.L., mentre non ha svolto attività difensiva la Temporary Spa.
CONSIDERATO
Che:
1. con il primo motivo di ricorso si denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione o falsa applicazione di plurime norme di legge e di contratto collettivo, oltre che della Costituzione, nonché “Difetto dei presupposti giuridici sostanziali. Illogicità manifesta. Vizio di motivazione. Violazione dell’art. 112 c.p.c.”, perché la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare “che il lavoro straordinario non può prescindere né dall’eccezionalità della situazione né dall’espressa autorizzazione dirigenziale”;
con il secondo motivo, sempre a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, si denuncia violazione o falsa applicazione di plurime norme di legge e di contratto collettivo, oltre che della Costituzione, nonché “Difetto dei presupposti giuridici sostanziali. Illogicità manifesta. Vizio di motivazione. Violazione dell’art. 112 c.p.c.”, perché la Corte territoriale avrebbe trascurato di considerare che “il D.Lgs. n. 165 del 2001, vieta il riconoscimento di trattamenti retributivi che non siano definiti dal CCNL e prevede l’onnicomprensività del trattamento economico dei dipendenti”, mentre “il tempo di vestizione non può essere considerato come rientrante nell’orario di lavoro”;
2. i motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, risultano infondati sulla base di una costante giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non si ravvisa ragione per discostarsi (v. Cass. n. 8627 del 2020; n. 17635 del 2019; n. 18559 del 2019; n. 3901 del 2019; n. 12935 del 2018; n. 27799 del 2017; alle quali tutte si rinvia, per ogni ulteriore aspetto, ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.);
secondo tali precedenti l’attività di vestizione attiene a comportamenti integrativi dell’obbligazione principale ed è funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria e costituisce, altresì, attività svolta non (o non soltanto) nell’interesse della struttura sanitaria, ma dell’igiene pubblica, imposta dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene e, pertanto, dà diritto alla retribuzione anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, in quanto, proprio per le peculiarità che connotano detta attività, deve ritenersi implicitamente autorizzata da parte dell’azienda sanitaria; tali affermazioni non si pongono in contrasto con quanto affermato da questa Suprema Corte con la sentenza n. 9215 del 2012, secondo cui, “nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio (cd. tempo tuta) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo”, e ciò in quanto gli arresti più recenti rappresentano uno sviluppo di quello precedente, or ora citato, ponendo l’accento sulla “funzione assegnata all’abbigliamento, nel senso che la eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina di impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento, o dalla specifica funzione che devono assolvere”, per obbligo imposto, lo si ripete, dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene attinenti alla gestione del servizio sanitario pubblico ed alla stessa incolumità del personale addetto; va poi sottolineato che l’orientamento giurisprudenziale di legittimità “e’ saldamente ancorato al riconoscimento dell’attività di vestizione/svestizione degli infermieri come rientrante nell’orario di lavoro e da retribuire autonomamente, qualora sia stata effettuata prima dell’inizio e dopo la fine del turno. Tale soluzione, del resto, è stata ritenuta in linea con la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14; v. Cass. n. 1352/2016…)” (così, in particolare, Cass. n. 17635/2019 cit.);
3. in via subordinata, con il terzo motivo, si invoca il vizio di cui ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c., “in relazione alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9, punto 4, del Regolamento dell’orario di lavoro approvato con deliberazione n. 106 del 1 luglio 2008, al difetto dei presupposti giuridici sostanziali, all’illogicità manifesta, nonché alla violazione e/o falsa applicazione della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36 e della L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6”; si sostiene che “si doveva tenere conto della quantificazione operata dal CTU nella parte in cui prevedeva la franchigia di 15 minuti” prevista dal richiamato regolamento interno, e che non poteva essere riconosciuto il cumulo di rivalutazione monetaria e interessi legali;
le censure, per come formulate, sono inammissibili;
innanzitutto l’omesso esame di fatto decisivo, di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., novellato, non viene fatto valere nel rispetto degli enunciati posti da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 di cui parte ricorrente non tiene alcun conto;
la prima doglianza, poi, è inammissibile in quanto non può denunciarsi come violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, a mente dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione di una disposizione contenuta in un regolamento interno dell’Istituto *****, trattandosi di normativa che non ha valore regolamentare in senso proprio (cioè ex art. 1 preleggi, n. 2);
la seconda perché si rivolge ad una statuizione contenuta nella sentenza di primo grado che avrebbe dovuto essere impugnata in appello, mentre parte ricorrente non illustra come la questione sia stata devoluta al giudice del gravame;
4. conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese liquidate secondo soccombenza come da dispositivo; occorre altresì dare atto poi della sussistenza, per la ricorrente, dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 3.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 8 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2021