LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4937-2015 proposto da:
SOCIETA’ VILLAGGIO DEI PESCATORI SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. DE SANCTIS 15, presso lo studio dell’avvocato BARBARA TRANI, rappresentata e difesa dall’avvocato LUIGI MARCHIGNOLI;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4311/2014 della COMM.TRIB.REG.LAZIO SEZ.DIST.
di LATINA, depositata il 26/06/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/06/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;
lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Dott. UMBERTO DE AUGUSTINIS che ha chiesto l’accoglimento del primo motivo.
FATTI DI CAUSA
La Villaggio dei Pescatori s.r.l. ha chiesto la cassazione della sentenza n. 4311/39/2014, depositata dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. staccata di Latina, il 26 giugno 2014, con la quale, confermando la pronuncia di primo grado, era stato rigettato il ricorso introduttivo della società avverso l’avviso di accertamento, con cui l’Agenzia aveva rideterminato per l’anno d’imposta 2006 il reddito ai fini Ires, nonché irrogato le sanzioni.
La ricorrente – per quanto comprensibile dal ricorso – ha riferito di essere proprietaria di strutture immobiliari anche a vocazione turistica sull’isola di Ponza, trovando ad essa applicazione la disciplina sulle società non operative (cd. di comodo), prevista dalla L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30. Ha riferito di aver prodotto interpello per la disapplicazione della suddetta normativa, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, comma 8. L’interpello era stato tuttavia rigettato dal Direttore Regionale dell’Agenzia delle entrate. Era seguito l’avviso di accertamento, con il quale l’ufficio aveva rideterminato presuntivamente il reddito della contribuente, ai sensi dell’art. 30 cit..
Contestando le ragioni dell’accertamento, la ricorrente aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Frosinone, che con sentenza n. 273/01/2010 aveva rigettato il ricorso. Nel successivo grado d’appello la Commissione tributaria regionale, con la decisione ora impugnata, ha confermato le statuizioni di primo grado. Il giudice regionale, dopo aver riassunto la vicenda, evidenziando che alla società era stata negata la disapplicazione della disciplina prevista dall’art. 30 cit. e che non aveva superato il test di operatività, ha illustrato la finalità delle regole sulle società di comodo, ha rilevato che la contribuente non aveva soddisfatto l’onere probatorio, su di lei pur incombente, per giustificare il mancato raggiungimento della soglia minima di reddito – accertabile in via presuntiva ai sensi dei criteri indicati nelle lett. a), b) e c) della suddetta norma -. A tal fine ha ritenuto regolare la procedura d’accertamento, utilizzata dall’Amministrazione finanziaria, ed ha di contro valutato l’inidoneità delle difese della contribuente a conforto delle proprie ragioni.
La società ha censurato la sentenza con due motivi, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Nella pubblica udienza del 9 giugno 2006, sulla base degli atti depositati e delle conclusioni formulate dalle parti e dal procuratore generale, la causa è stata decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato la “violazione e falsa applicazione di norme di diritto”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per l’erronea applicazione della disciplina prevista dalla L. n. 724 del 1994, art. 30;
con il secondo motivo si è doluta dell’insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver attentamente valutato le ragioni del mancato conseguimento dei ricavi minimi richiesti dalla disciplina.
Con il primo motivo la contribuente afferma che il giudice regionale ha erroneamente ritenuto applicabile la disciplina sulle società non operative. Nel caso di specie dovevano trovare invece applicazione gli studi di settore, che avrebbero consentito di imputare al 2006 il reddito corretto. A tal fine ha evidenziato che il cespite intestato alla società era stato gestito nell’anno 2006 da un soggetto terzo, che vi aveva svolto attività recettiva di ristorazione ed ospitalità alberghiera. Pertanto, non trovandosi il cespite nella disponibilità della contribuente, non poteva applicarsi l’art. 30 cit. Il motivo è infondato.
In materia di società di comodo questa Corte ha affermato che la L. n. 724 del 1994, art. 30, al comma 1, prevede una presunzione legale relativa, in base alla quale una società si considera “non operativa” se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari), imputati nel conto economico, è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli “asset” patrimoniali intestati alla società (cd. “test di operatività dei ricavi”), senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci. Il successivo comma 4-bis (inserito dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 15, convertito con modificazioni in L. 4 agosto 2006, n. 248, applicabile all’anno d’imposta 2006 in forza del comma 16 del medesimo articolo) ha consentito la presentazione dell’istanza di interpello, chiedendo la disapplicazione delle “disposizioni antielusive”, in presenza di situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore), che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al precedente comma 1, così rispondendo all’esigenza di dare piena attuazione al principio di capacità contributiva, di cui la disciplina antielusiva è espressione, lasciando nel contempo spazio al diritto di difesa del contribuente, sufficientemente garantito dagli strumenti del contraddittorio e dalla necessità di una motivazione puntuale della condotta elusiva nell’avviso di accertamento (Cass., 20/04/2018, n. 9852). Deve anche chiarirsi che al caso di specie trova applicazione dell’art. 30, il comma 4 bis nella formula originariamente introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, così che l’istanza di disapplicazione poteva essere proposta nelle ipotesi di “…oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi…nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo…”. Tale formula ha avuto vigenza per tutto l’anno d’imposta 2006, come espressamente previsto dal comma 16 del medesimo D.L., mentre la successiva soppressione delle parole “di carattere straordinario”, ad opera della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 109 lett. h), ha avuto effetto a partire dall’anno d’imposta 2007, non trovando applicazione del D.L. n. 296 cit., il comma 110 che non menziona affatto la lett. h).
Ebbene, denunciando la erronea applicazione della L. n. 724 del 1994, art. 30 la contribuente si è doluta della mancata considerazione che il reddito minimo presupposto per il superamento del test di operatività non era stato conseguito nel 2006 non per finalità elusive rispetto all’esercizio di una effettiva attività commerciale, ma per la presenza di situazioni peculiari e contingenti (la mancanza di disponibilità nella gestione dell’immobile, perché gestito da terzi). Insiste invece sulla operatività della società, perché, se applicati gli studi di settore, il reddito conseguito sarebbe risultato coerente.
A parte la gratuità, perché mera affermazione del tutto indimostrata, della compatibilità del reddito dichiarato con gli studi di settore, il giudice regionale ha ribadito l’insussistenza di situazioni oggettive straordinarie, non dipendenti dalla volontà della contribuente, che ne consentissero l’esclusione.
La commissione regionale ha infatti fondato la decisione sulla considerazione che, esclusa, perché rigettata, l’istanza di disapplicazione del regime delle società non operative, ed incombendo comunque sul contribuente l’onere di allegare le prove e le ragioni per esonerare dal test di operatività il cespite, tale onere probatorio non risultava assolto. D’altronde era del tutto irrilevante che l’immobile fosse gestito da terzi e che questo impedisse il raggiungimento della soglia minima di reddito, calcolata ai sensi della disciplina dettata dall’art. 30 cit., poiché tale forma di utilizzo del cespite non costituiva di certo una scelta ineluttabile, né la contribuente ha allegato prove da cui desumere il contrario.
Come questa Corte ha ripetutamente chiarito, la disapplicazione della normativa antielusiva, ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis impone all’impresa di dimostrare di essersi trovata nell’impossibilità oggettiva di esercitare l’attività produttiva e conseguentemente di ottenere proventi, così che non può riconoscersi nel caso in cui la loro mancata percezione dipenda da una scelta volontaria dell’imprenditore (da ultimo cfr. Cass., 7/12/2020, n. 27976). Il motivo deve dunque rigettarsi.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta un vizio di motivazione della pronuncia, perché il giudice d’appello ha erroneamente ritenuto che non fossero state addotte le adeguate ragioni che giustificavano il mancato raggiungimento della soglia minima di reddito.
Il motivo è innanzitutto inammissibile per essere stata depositata la sentenza il 26 giugno 2014. A seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure per contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità su di essa resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6. Con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Pertanto l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., ord. n. 27415/2018).
Peraltro la critica sarebbe stata inammissibile anche nel vigore della disciplina anteriore, perché il giudice regionale ha valutato le risultanze probatorie, ritenendole insufficienti. Si tratta di un accertamento in fatto, che in assenza di errori o salti logici, non può essere rivalutato dal giudice di legittimità.
Il ricorso va dunque rigettato. All’esito del giudizio la ricorrente va condannata alla rifusione delle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.
PQM
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese processuali, che si liquidano nella misura di Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, il 9 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021