LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9411-2018 proposto da:
D.S.C.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 2, presso lo studio dell’avvocato NICOLA GIANCASPRO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIAELENA BENASSI;
– ricorrente –
contro
R.S.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 81/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 11/09/2017 R.G.N. 439/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2021 dal Consigliere Dott. NEGRI DELLA TORRE PAOLO.
PREMESSO IN FATTO
che con sentenza n. 81/2017, pubblicata l’11 settembre 2017, la Corte di appello di Brescia, in riforma della sentenza del Tribunale di Mantova, ha respinto le domande proposte da D.S.C.F. per la condanna del marito, R.S., al versamento, ex art. 230-bis c.c., della quota di utili alla stessa spettanti in virtù della partecipazione all’impresa familiare (gestione di una trattoria), di cui il R. era titolare, dei compensi suppletivi al mantenimento e degli incrementi dell’azienda, oltre al risarcimento del danno derivatole dalla estromissione dall’impresa;
– che a sostegno della propria decisione la Corte di appello ha rilevato come, al momento della cessazione del rapporto di collaborazione, non fosse residuato alcun utile da suddividere fra i coniugi, essendo stato anzi accertato, nel giudizio di separazione personale avanti al Tribunale di Mantova, il forte indebitamento cui il R. si era esposto, per la conduzione dell’impresa, nei confronti di aziende di credito e società finanziarie; sicché, non avendo la D.S. dedotto, e dimostrato, che il marito fosse titolare di altri conti correnti, diversi da quelli presi in esame dal Tribunale (o di depositi bancari, o comunque di denaro e titoli custoditi altrove), doveva necessariamente concludersi nel senso che tutti gli utili prodotti dall’impresa familiare erano stati dal R. utilizzati per il mantenimento della famiglia o reinvestiti nell’impresa medesima;
– che la Corte ha inoltre ritenuto che non vi fosse, al momento della cessazione del rapporto, alcun incremento aziendale da valutare, neppure in termini di avviamento, avuto riguardo alle dichiarazioni rese dalla stessa D.S., la quale aveva riferito come l’attività dell’impresa fosse “sempre in rosso”;
– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la D.S. con unico motivo, assistito da memoria;
– che il R. è rimasto intimato;
rilevato:
che con il motivo proposto viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 230-bis c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5: in particolare, secondo la ricorrente, la Corte di merito aveva errato nella interpretazione della norma, poiché l’art. 230-bis c.c., diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata, non condiziona il credito del familiare alla reale capienza del patrimonio del debitore, bensì unicamente alla quantità e alla qualità del lavoro prestato dal partecipante, come sarebbe chiaramente desumibile dall’indicativo presente (“partecipa agli utili”) utilizzato dal legislatore; inoltre, la Corte di merito, pur muovendo dai medesimi presupposti di fatto accertati dal primo giudice, e cioè che la misura del lavoro prestato dalla ricorrente nell’impresa familiare era stata pari all’apporto del marito e che non vi era stata ripartizione di utili nel corso del rapporto, era nondimeno pervenuta a negarne contraddittoriamente la liquidazione, disattendendo le dichiarazioni confessorie della esistenza di proventi contenute nei modelli unici elaborati annualmente dall’imprenditore e trascurando di valutare il mancato assolvimento degli oneri probatori posti a carico del debitore, il quale avrebbe dovuto dimostrare la destinazione attribuita agli utili dichiarati ma non ripartiti con la moglie;
osservato:
in primo luogo che la sentenza impugnata si sottrae alla censura di erronea interpretazione dell’art. 230-bis c.c., avendo la Corte territoriale fatto applicazione del principio, secondo il quale “La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed e’, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che gli stessi utili – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. (Nella specie, la S.C., in applicazione di tale principio, ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso ogni diritto del familiare collaborante, attesa la mancata prova dell’esistenza, al momento della cessazione dell’impresa, di utili da distribuire ovvero di incrementi aziendali, restando inammissibile la richiesta di consulenza d’ufficio in quanto inidonea ad assolvere una funzione esplorativa)”: Cass. n. 5448/2011; conforme, fra altre, Cass. n. 5224/2016;
– che la censura ex art. 360 c.p.c., n. 5 è da ritenersi inammissibile;
– che, infatti, dolendosi la ricorrente di una motivazione carente, contraddittoria e ingiustificata in rapporto alle emergenze istruttorie, la censura in esame non risulta conforme allo schema del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134;
– che, al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 (e con le molte successive che ad esse si sono conformate), hanno precisato che l’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato a seguito degli anzidetti interventi normativi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369, comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”;
– che, in realtà, nella sostanza dei rilievi e delle considerazioni riferibili al denunciato vizio di motivazione, il ricorso si propone l’obiettivo di una rivisitazione del materiale probatorio e di un diverso apprezzamento di fatto, risolvendosi, pertanto, in un’inammissibile sollecitazione ad un ulteriore grado di giudizio di merito, del tutto incompatibile con le funzioni di questa Corte e con il ruolo che alla stessa è assegnato nell’ordinamento;
ritenuto:
conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;
– che non vi è luogo a pronuncia sulle spese, essendo il R. rimasto intimato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 28 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021