LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7692-2015 proposto da:
D.R., HEIDENHAIN ITALIANA S.R.L., nella sua qualità di incorporante la società SELCA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELL’AMBA ARADAM 24, presso lo studio dell’avvocato CRISTIANO COLONNELLI, rappresentati e difesi dagli avvocati ENRICO MAGGIORA, MARCO NOVARA, VALERIANO FERRARI;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12;
– controricorrente –
e contro
EQUITALIA NOMOS S.P.A.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1582/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 13/08/2014 R.G.N. 2069/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2021 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE.
PREMESSO che con sent. n. 1582/2014, depositata il 13 agosto 2014, la Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della stessa sede aveva respinto l’opposizione alla cartella esattoriale emessa da Equitalia Nomos nei confronti di D.R. e Selca S.p.A., sul rilievo che le parti ricorrenti non avevano impugnato il silenzio-rifiuto formatosi ai sensi del D.Lgs. n. 124 del 2004, art. 16, comma 2, e che, pertanto, esse erano decadute, stante la perentorietà del termine di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 22 dalla possibilità di contestare l’ordinanza-ingiunzione, in data 20/2/2007, della Direzione Prov.le del Lavoro recante la sanzione amministrativa di Euro 45.669,87 per omessa presentazione, L. 12 marzo 1999, n. 68, ex art. 9 nel termine previsto, della richiesta di assunzione di lavoratori disabili;
– che avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il D. e la società Heidenhain Italiana S.r.l., quale incorporante di Selca S.p.A., con tre motivi, assistiti da memoria, cui ha resistito con controricorso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, mentre Equitalia Nomos S.p.A. è rimasta intimata.
RILEVATO
che i ricorrenti denunciano: 1) con il primo motivo, insufficiente e illogica motivazione con riferimento alla omessa disapplicazione dell’ordinanza-ingiunzione; 2) con il secondo e con il terzo, rispettivamente, malgoverno della legge processuale e sostanziale e contraddittorietà della motivazione, là dove la Corte aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 124 del 2004, art. 16 e L. n. 689 del 1981, art. 22 in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., trascurando in particolare di vagliare secondo il canone di ragionevolezza l’impossibilità di rimediare all’errore di fatto in cui era incorsa la Pubblica Amministrazione.
Osservato che il primo motivo è inammissibile e comunque infondato;
– che esso, infatti, non si attiene al modello legale del nuovo vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, quale risulta dalle modifiche introdotte con il decreto L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, e dalle precisazioni fornite da questa Corte a Sezioni Unite, quanto a perimetro applicativo e oneri di deduzione, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 e con le numerose successive che ad esse si sono conformate;
– che il motivo in esame è comunque infondato, posto che la Corte, escludendo – come già il Tribunale di Torino – la facoltà del giudice di disapplicare l’ordinanza-ingiunzione, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto, per il quale “In tema di opposizione a sanzione amministrativa, il potere del giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi riguarda solo quegli atti imperativi che costituiscono il presupposto della sanzione, fondando la soggezione del privato ad obblighi, positivi o negativi, per la cui inosservanza è comminata la sanzione, e non può, invece, trovare applicazione con riferimento agli atti amministrativi direttamente irrogativi della sanzione, quale un’ordinanza-ingiunzione emessa ex L. n. 689 del 1981, nei cui confronti è ammessa, invece, l’opposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 22 unico mezzo attraverso il quale gli interessati possono ottenere l’accertamento negativo della pretesa sanzionatoria. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della Corte di Appello che aveva respinto la richiesta di ripetizione di una somma di denaro versata a titolo di sanzione amministrativa, richiesta avanzata sul presupposto che un’ordinanza-ingiunzione, non autonomamente impugnata e quindi definitiva, potesse essere disapplicata in quanto contenente statuizioni illegittime)”: Cass. n. 12679/2009;
– che inoltre è del tutto condivisibile la sentenza impugnata, là dove la Corte ha escluso l’applicabilità nella specie dell’istituto della revocazione ex art. 395 c.p.c., la quale è un rimedio straordinario, previsto unicamente per le sentenze, contro l’ingiustizia che derivi da fatti esterni al processo o al procedimento logico-giuridico di formazione della decisione; né l’errore di fatto, che consente l’esperimento del rimedio, può essere qualsivoglia errore di fatto ma solo quello precisamente definito dalla norma (art. 395, n. 4);
– che il secondo e il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, entrambi concernendo il ragionamento seguito dal giudice di merito nel disattendere l’eccezione di incostituzionalità;
– che al riguardo si deve anzitutto rilevare che “La questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l’applicazione della norma medesima, non può costituire oggetto di un’autonoma istanza rispetto alla quale, in difetto di esame, sia configurabile un vizio di omessa pronuncia, ovvero (nel caso di censure concernenti le argomentazioni svolte dal giudice di merito) un vizio di motivazione, denunciabile con il ricorso per cassazione, giacché la relativa questione è deducibile e rilevabile nei successivi stati e gradi del giudizio, ove rilevante ai fini della decisione” (Cass. n. 8777/2018);
– che peraltro, ove i motivi in esame valgano (non come critiche alle osservazioni svolte nella sentenza di appello ma) come sollecitazione a nuovamente esaminare la questione di costituzionalità, la conclusione, e cioè la manifesta infondatezza della questione, non può che essere la medesima cui è pervenuta la Corte di merito;
– che il D.Lgs. n. 124 del 2004 art. 16 stabilisce che nei confronti dell’ordinanza-ingiunzione possa essere proposto ricorso amministrativo alla competente direzione del lavoro, in alternativa al ricorso in opposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 22; che decorso inutilmente il termine previsto per la decisione (sessanta giorni dal ricevimento) il ricorso si intende respinto; che il termine di cui all’art. 22 decorre dalla notifica del provvedimento che conferma o ridetermina l’importo dell’ordinanza-ingiunzione impugnata ovvero dalla scadenza del termine fissato per la decisione;
– che, pertanto, è assicurato il diritto di difesa, potendo sempre l’interessato depositare ricorso in opposizione al giudice competente, senza riduzione del termine, e avendo certa cognizione della sua decorrenza, in quanto, se non vi è notifica di un provvedimento che conferma o modifica quello precedentemente assunto, il termine per impugnare decorre dalla scadenza dei sessanta giorni;
– che, d’altra parte, l’imposizione di termini perentori, al fine di accelerare il corso del processo e quindi la risposta alla domanda di giustizia, non si pone in contrasto con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, essendo i termini processuali per loro natura improrogabili per motivi di certezza ed uniformità, della cui ragionevolezza non si può dubitare (cfr. in tal senso già Corte Cost. n. 270 del 1991);
ritenuto conclusivamente che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;
– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 28 gennaio 2001.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021