Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.32820 del 09/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13686/2015 proposto da:

M.S., rappresentato e difeso dall’avv. Arnaldo Giocondi, domiciliato in Roma Piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. UMBRIA, n. 710/04/14, depositata il 21/11/2014;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 ottobre 2021, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137 ex art. 23, comma 8-bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, dal Consigliere Guida Riccardo;

Dato atto che il Sostituto Procuratore Generale Mucci Roberto ha formulato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria regionale (“C.T.R.”) dell’Umbria, in accoglimento dell’appello dell’ufficio, ha riformato la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Terni che, in parziale accoglimento del(l’unico) ricorso di M.S., oltre a dichiarare inammissibile l’impugnazione di due atti di contestazione per la detenzione all’estero di capitali non dichiarati, annullò gli avvisi di accertamento che, in assenza di dichiarazione per ciascuna annualità, recuperavano a tassazione, ai fini Irpef, per gli anni 2006 e 2007, redditi di capitale, accertati sulla base dei prelevamenti compiuti dal contribuente da una serie di conti correnti, al medesimo intestati o intestati a società del c.d. “Gruppo M.” e a lui riferibili.

2. La C.T.R. ha ritenuto che l’accertamento d’ufficio occasionato dall’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi poggiasse su comprovati prelevamenti bancari, con trasferimento della valuta in Svizzera; ha invece escluso che il contribuente avesse fornito la prova contraria, ovverosia che quella cospicua disponibilità finanziaria non era di sua esclusiva pertinenza.

3. Il contribuente ricorre per cassazione con due motivi; l’Agenzia resiste con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso (“Violazione degli artt. 2727 – 2728 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 41 e 38, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.”), il ricorrente censura la sentenza impugnata che non ha fatto corretta applicazione delle norme sul ragionamento presuntivo ed ha condiviso la tesi degli accertatori – fondata su un’indagine penale, da cui risultava che i prelevamenti da conti intestati a società del “Gruppo M.” erano direttamente riconducibili al contribuente – trascurando l’altro elemento presuntivo desumibile dal PVC della Guardia di Finanza, vale a dire che il contribuente avrebbe poi rimesso le somme prelevate al soggetto (non individuato) generatore della stessa ricchezza. In subordine eccepisce l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, perché in contrasto con gli artt. 24 e 97 Cost., nella parte in cui consente all’erario di procedere all’accertamento d’ufficio senza acquisire tutti gli elementi di fatto e i documenti a sua disposizione dai quali trarre la totalità degli elementi utili ai fini della determinazione del reddito del contribuente in modo da consentire a quest’ultimo di difendersi.

2. Con il secondo motivo (“Violazione degli artt. 2727 – 2728 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 41 e 38, e del D.L. n. 78 del 2009, art. 12 (Convertito L. n. 102 del 2009), in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Irretroattività del D.L. n. 78 del 2009”), si censura la sentenza impugnata per avere ritenuto provata l’illegittima esportazione all’estero di capitali sottratti a tassazione, sulla scorta di elementi presuntivi deboli, senza confrontarli con quelli di segno opposto offerti dal contribuente a sostegno della propria linea difensiva. Da una diversa angolazione, il ricorrente deduce che in difetto di prova dell’esportazione di capitali non scattava la presunzione di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, quale norma irretroattiva.

3. Il primo motivo è infondato.

3.1. Innanzitutto, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41, sollevata (in via subordinata) dal contribuente, quale norma che, in mancanza di dichiarazione, consente l’accertamento d’ufficio fondato su presunzioni c.d. supersemplici (comma 2), oltre i limiti del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, con conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, al quale comunque è garantita la possibilità di provare, in fase precontenziosa e in sede contenziosa, l’inesistenza o l’irrilevanza fiscale dei redditi accertati. La Corte ha infatti ripetutamente affermato (cfr. ex multis Cass. 16/07/2020, n. 15167) che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nell’ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, l’Ufficio può fare ricorso a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, comportanti l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata induttivamente da ll’Amministrazione.”.

3.2. Nella specie, come ha bene rilevato il giudice d’appello, a sostegno della pretesa erariale l’ufficio ha offerto un profluvio di elementi indiziari, vale a dire: l’esistenza di quarantatre’ società create dall’interessato, amministrate da soggetti con precedenti penali e privi di capacità imprenditoriale; il comportamento non collaborativo del contribuente che, durante l’accertamento, ha perfino dato alle fiamme, gettandola nel caminetto, copiosa documentazione contabile; la circostanza che egli operasse direttamente o tramite soggetti delegati su conti correnti intestati alle dette società; gli ingenti prelevamenti, per alcuni milioni di Euro, dai menzionati conti bancari; la reiterata esportazione di capitali in Svizzera e il fatto che gli importi prelevati non venissero utilizzati per finalità imprenditoriali, in assenza, nella contabilità delle diverse imprese del “Gruppo M.”, di documenti comprovanti una simile destinazione. Viceversa, al fine di offuscare il vivido quadro indiziario a proprio carico, il contribuente non ha fornito alcuna prova contraria e (lo afferma la sentenza impugnata, nell’ultima pagina), in relazione al trasferimento di capitali all’estero, ha soltanto tratteggiato l’opaca figura del c.d. “spallone”, che è l’esportatore professionale di valuta illecita, senza tuttavia riuscire a dimostrare né di esserlo stato né che il denaro trafugato in Svizzera non gli appartenesse.

4. Il secondo motivo è inammissibile per due distinte ragioni.

4.1. In primis, le critiche alla sentenza di appello ivi esposte si sostanziano nella richiesta, inammissibilmente rivolta a questa Corte di legittimità, di rivalutare il materiale probatorio esaminato dai giudici di merito che, secondo la prospettiva del contribuente, non avrebbero rilevato che il ricorrente aveva fornito la prova contraria rispetto alla presunzione di trasferimento all’estero di capitali non dichiarati. Una simile valutazione è estranea al perimetro del giudizio di legittimità; è ius receptum (cfr. ex multis Cass. 12/07/2021, n. 19832) che con la proposizione del ricorso per cassazione il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento di fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che lo scrutinio dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’àmbito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione che ne ha fatto il giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 7/04/2017, n. 9097; 07/03/2018, n. 5355). Del resto, non è nemmeno dedotto quel travisamento delle informazioni probatorie che costituisce il limite estremo dell’errore sulla giustificazione della decisione di merito sul fatto denunciabile in Cassazione e, in ultima analisi, l’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito non è stato censurato sul piano del rispetto della logica formale (cfr. Cass. Sez. U. 13/11/1996, n. 9961).

4.2. Il secondo profilo di critica non coglie la ratio decidendi della sentenza che non ha fatto applicazione del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, sicché non è incorsa nemmeno nella violazione del divieto di irretroattività della norma, pacifico in giurisprudenza (ex multis da ultimo Cass. 22/04/2021, n. 10715).

5. Le spese del giudizio di legittimità sono regolate in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 11.000,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021

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