Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.32899 del 09/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17085-2015 proposto da:

F.L., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA G.

MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato MARIO VINCOLATO, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO BUDINI;

– ricorrente principale –

COMUNE DI CHIETI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANULELE II 209, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO SILVESTRI, rappresentato e difeso dagli avvocati PATRIZIA TRACANNA, MARCO MORGIONE;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

F.L.;

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1054/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 04/12/2014 R.G.N. 1574/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2021 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, visto il D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di L’Aquila, accogliendo parzialmente il gravame proposto da F.L., ha ritenuto fondata l’impugnazione intentata dal medesimo rispetto alla sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione irrogata nei suoi confronti dal Comune di Chieti, in ragione dell’avere il medesimo svolto attività lavorativa incompatibile con lo status di pubblico dipendente.

La Corte accoglieva altresì, ma solo parzialmente, la domanda proposta dal medesimo F., con cui egli aveva contestato la pretesa del Comune di ricevere da lui il pagamento delle somme percepite dal terzo che aveva conferito gli incarichi in contestazione.

La sanzione disciplinare è stata annullata per tardività della contestazione, mentre, rispetto alla pretesa dell’ente al pagamento dei compensi percepiti, la Corte di merito riteneva, per un verso, che fosse infondata l’eccezione di preventiva escussione del soggetto erogatore sollevata dal F., ma sosteneva che, per gli incarichi ricevuti tra il 2007 ed il 2010, sussisteva autorizzazione, sicché il debito veniva riconosciuto solo per il precedente periodo, a partire dal 2000.

F.L. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, resistiti da controricorso del Comune di Chieti, contenente anche un motivo di ricorso incidentale, cui a propria volta il F. ha replicato con proprio controricorso.

Il Pubblico Ministero ha depositato memoria ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, conv. con mod. in L. 176 del 2020, con la quale ha insistito per il rigetto del ricorso principale e la declaratoria di inammissibilità dell’incidentale.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso F.L. afferma la violazione (art. 360 c.p.c., n. 3) del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7 in quanto la norma, a suo dire, prevederebbe la previa escussione del soggetto che ha conferito gli incarichi esterni rispetto al versamento in favore dell’ente pubblico delle somme derivanti dai rapporti risultati incompatibili.

1.1 Il motivo è infondato.

1.2 il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, seconda parte, prevede che in caso di inosservanza del divieto di svolgimento incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza “salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.

L’interpretazione sviluppata dalla Corte territoriale è corretta.

La norma fa infatti riferimento al compenso “dovuto” per le prestazioni, tale non essendo più il compenso che il terzo cui risalgono gli incarichi esterni abbia già erogato al dipendente pubblico per le prestazioni svolte.

Pertanto, il fatto che al lavoratore ci si rivolga solo “in difetto” del pagamento del terzo non introduce una sorta di beneficio di escussione, ma significa, una volta coordinato con il fatto che si tratti di compenso (ancora) “dovuto”, che solo se il compenso sia già stato a lui pagato ci si può rivolgere al lavoratore.

D’altra parte, si deve considerare come chi si avvalga delle prestazioni non autorizzate di dipendenti pubblici soggiaccia, ai sensi del successivo comma 9 in combinazione con il D.Lgs. n. 79 del 1997, art. 6, comma 1, conv. con mod. in L. n. 140 del 1997 e successive modificazioni ed integrazioni, ad una sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma.

In tale contesto, l’imposizione di un ulteriore obbligo di pagamento dei compensi nonostante la loro già avvenuta corresponsione determinerebbe un bis in idem e quindi un’ulteriore sanzione, che non appare coerente con la autonoma previsione di un’apposita misura da parte del comma 9.

Non solo, dunque, non vi è alcun beneficio di escussione a favore del dipendente, ma, qualora il compenso sia già stato a lui pagato, egli, ferma la sanzione a carico di chi abbia conferito o fruito dell’incarico, è l’unico obbligato al versamento di esso alla P.A. di appartenenza.

Dinamica già evidente dalle disposizioni citate, che trova poi conferma nella successiva introduzione, ad opera della L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 42, lett. d) di un comma 7-bis all’art. 53, secondo cui “l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti” e ciò a conferma che quell’obbligazione grava, se già adempiuta dal terzo estraneo alla P.A., sul dipendente.

1.3 Non conferente è il richiamo del ricorrente principale a Cass. 26 marzo 2010, n. 7343, la quale ha deciso principalmente sulla natura non disciplinare, per il lavoratore, degli obblighi di versamento del corrispettivo alla P.A., mentre l’affermazione, in esso contenuta, per cui il pagamento debba essere chiesto in primis all’erogante, non esclude per nulla che, se quest’ultimo avesse però già pagato al dipendente, solo quest’ultimo sia tenuto a far confluire gli importi presso il proprio datore di lavoro pubblico, come da ragioni di diritto sopra espresse.

2. Il secondo motivo ed il terzo motivo sono destinati a sostenere che l’attività di consulenza, da riportare all’autorizzazione risalente all’anno 2000, non sarebbe diversa dagli incarichi di responsabilità perseguiti dal datore di lavoro come non autorizzati e che quindi, in sostanza, l’autorizzazione alle consulenze in ambito di L. n. 494 del 1996 ricomprendeva anche le attività di responsabile dei lavori e della sicurezza. Viene quindi denunciata con il secondo motivo la violazione del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 2 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 (art. 360 c.p.c., n. 3), nonché dell’art. 112 c.p.c. per non essersi affrontato tale decisivo profilo (art. 360 c.p.c., n. 4) e non essersi in particolare accertato se effettivamente, anche alla luce della normativa di riferimento di cui alla L. n. 494 del 1996, le attività svolte non rientrassero tra quelle autorizzate fin dal 2000; analogamente, con il terzo motivo, si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7 (art. 360 c.p.c., n. 3), ed ancora dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4) per non essersi svolta l’indagine di cui sopra sul piano documentale delle fatture prodotte agli atti.

Di converso il motivo di ricorso incidentale, da trattare in questo contesto per la contiguità con i motivi dispiegati dal ricorrente, sostiene che il “visto si autorizza” da cui la Corte territoriale ha desunto la sussistenza del consenso della P.A. per le attività a partire dal 2007 non costituisse autorizzazione, ma solo il parere favorevole del Dirigente preposto al F., mentre sarebbe spettato solo al Dirigente del settore personale la legittimazione e competenza a rilasciare quell’autorizzazione, come non era in realtà avvenuto.

2.1 La Corte d’Appello ha affermato con chiarezza che, essendo stata l’autorizzazione del 2000 rilasciata per attività di consulenza in ambito di L. n. 494 del 1996, non si potesse estendere la stessa alle attività di responsabile lavori e coordinatore per la sicurezza, da essa esplicitamente ritenute come concretamente svolte, ritenendo che la differenza tra i due incarichi non potesse essere ragionevolmente messa in discussione.

D’altra parte, l’affermazione per cui le attività realmente svolte sotto la veste della fatturazione come consulenze fossero altre, costituisce giudizio di fatto finalizzato a superare del tutto legittimamente il dato contabile, in sé certamente non preclusivo rispetto a conclusioni diverse; ciò senza contare che certamente non ne resta intercettata una violazione dell’art. 112 c.p.c. quale denunciata con il terzo motivo (in quanto la valutazione non è andata al di là dell’oggetto del contendere, che era appunto la sussistenza o meno dell’autorizzazione per le attività in concreto svolte) né sono ammissibili, data la conformità dell’accertamento svolto dal Tribunale e della Corte territoriale (v. sentenza impugnata pag. 8, righe 10-12) le questioni di fatto in ordine alla non riferibilità delle attività svolte all’autorizzazione dell’anno 2000 (art. 348-ter c.p.c., comma 4).

2.2 In ogni caso, l’assunto di diritto del ricorrente secondo cui, non prevedendo la L. n. 494 del 1996, art. 2 l’attività di consulenza, ad essa andrebbero riportate le attività, tipiche della predetta legge, in concreto svolte, oltre a celare, sotto l’apparente veste di una questione di diritto, ancora una questione di fatto (consistente nella deduzione per cui, non essendovi autonomia dell’attività di consulenza nell’ambito della L. n. 494, l’autorizzazione alla consulenza si dovrebbe intendere come riguardante gli incarichi di responsabilità in concreto svolti) non è comunque idoneo a scalfire il ragionamento della Corte territoriale. Infatti, la circostanza che la L. n. 494 non preveda tipicamente incarichi di consulenza non vale certamente ad escludere che una consulenza sia possibile, come lo è in qualsiasi ambito, al fine di avere migliore contezza rispetto ad attività caratterizzate da specialità e specificità tecniche.

Pertanto, l’avere la Corte territoriale ritenuto che l’autorizzazione alla consulenza non si estendesse agli incarichi di responsabilità propri della L. n. 494 non è né in sé errato ed è tutt’altro che implausibile, proprio per la diversità ontologica in realtà esistente tra il rendere una consulenza e svolgere un incarico di specifica responsabilità sui lavori.

2.2 Analogamente, la questione sulla competenza interna al Comune sollecitata dal motivo di ricorso incidentale, postulerebbe la conoscenza del regime che, nel 2007, regolava l’attribuzione nell’ente del potere di autorizzare gli incarichi esterni.

Rispetto a tale accertamento, misto di fatto e di diritto, non vale certamente quanto addotto dal Comune in ordine ad un verbale del 2011, fondato su Delib. Giunta del 2009, da cui si dovrebbe desumere la competenza del Dirigente del personale, in quanto evidentemente tali documenti non possono essere utili a ricostruire l’assetto esistente nel 2007, ovverosia quando è intervenuta quella che, con giudizio di fatto non implausibile e quindi insindacabile, era l’autorizzazione che aveva legittimato le attività svolte da quest’ultima annata in poi.

2.3 Apodittica e non meglio spiegata nei propri fondamenti è poi l’affermazione del ricorrente per cui l’autorizzazione del 2007 sarebbe stata data “con evidente efficacia retroattiva”, formulazione che non è idonea neppure ad intercettare una rituale censura impugnatoria di legittimità.

2.4 I motivi qui esaminati vanno dunque tutti disattesi.

3. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) per avere la Corte territoriale disposto la compensazione integrale delle spese per reciproca soccombenza, con ciò trascurando che si trattava di giudizi riuniti e che rispetto al primo di essi, riguardante la sanzione disciplinare, egli era integralmente vincitore. Poiché i giudizi riuniti mantengono pacificamente la loro autonomia, non era legittima la decisione unitaria della questione sulle spese di giudizio e dunque il rilievo in ordine alla reciproca soccombenza.

Il motivo è in sé fondato, proprio per l’autonomia che i singoli processi mantengono tra loro nonostante la riunione e la decisione attraverso un’unica sentenza.

E’ dunque certamente errata la compensazione per reciproca soccombenza che sia valutata rispetto a due cause diverse e ciò comporta la cassazione in parte qua della sentenza impugnata.

Se, peraltro, la decisione sulle spese deve essere propria di ciascun giudizio, non può dirsi che vi sia un’assoluta insensibilità dei due processi all’avvenuta loro riunione, la quale ha comunque l’effetto di consentire una valutazione più ampia delle circostanze che intercorrono tra vicende sostanziali tra loro strettamente connesse e ciò ha rilievo al fine di apprezzare le condizioni che eventualmente giustificano la compensazione delle spese di lite.

Il tutto in qualche misura specularmente rispetto a quanto si è affermato allorquando, pur essendo mancata la riunione delle cause, si è tuttavia ritenuto che essa non impedisse di valutare l’esistenza di altre controversie tra le parti, sub specie della loro serialità, per addivenire alla compensazione nel giudizio connesso ma condotto e definito autonomamente (v. Cass. 1 settembre 1995, n. 9243).

Ciò posto e procedendo alla definizione nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2, u.p. rispetto all’unico punto cassato della sentenza impugnata, non può sottacersi, quanto alla causa di impugnazione della sanzione disciplinare, che, all’annullamento per tardività disposto dalla Corte di merito, si associa, nella causa riunita riguardante il diritto alla P.A. all’incasso delle somme percepite, l’accertamento della sussistenza delle violazioni al divieto di svolgimento di attività esterna senza autorizzazione per un periodo significativo. Il che, accertando per effetto della riunione di cause l’assoluta serietà dell’azione disciplinare, permette di ravvisare, quale peculiare effetto del dispiegarsi unitario della cognizione, i presupposti, di gravità ed eccezionalità, idonei a giustificare la compensazione integrale delle spese del corrispondente processo.

Parallelamente, la causa di accertamento del diritto alla percezione da parte del Comune delle somme erogate al F. si accompagna al rigetto delle rivendicazioni comunali per diverse annualità, il che giustifica anche in questo caso, per quanto tale processo si chiuda con il riconoscimento di un credito dell’ente di misura indubbiamente cospicua, la compensazione delle spese, in ragione qui del solo parziale accoglimento della pretesa.

PQM

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta gli altri motivi di ricorso principale ed il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, compensa le spese degli interi giudizi riuniti e del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021

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