LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso DALL’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;
– ricorrente –
contro
S.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIUSEPPE MAZZINI N. 88, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE SPERATI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO MANZI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 436/2014 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 17/11/2014 R.G.N. 435/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2021 dal Consigliere Dott. MAROTTA CATERINA;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’
STEFANO;
visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Genova, con sentenza n. 436 del 17/11/2014, confermava la pronuncia del Tribunale di La Spezia che aveva accolto la domanda proposta da S.G. nei confronti del Ministero della Difesa e riconosciuto il diritto del ricorrente alle differenze retributive per il periodo di sospensione dal servizio dal 10 dicembre 2003 al 10 dicembre 2008 ed alla relativa ricostruzione di carriera ai fini assistenziali e previdenziali, al netto del periodo di sospensione obbligatoria per custodia cautelare (5 giorni) e di quello per l’applicata sanzione disciplinare di sospensione (15 giorni).
S.G., dipendente del Ministero della Difesa con la qualifica di collaboratore tecnico (poi Area 3 fascia 2), collocato in quiescenza in data 1/9/2012, era stato sospeso dal servizio a seguito di condanna penale in primo grado per i reati di peculato ed altro; tale condanna era stata riformata dalla Corte d’appello penale che aveva mandato assolto lo S. dal reato di associazione per delinquere per insussistenza del fatto e, riqualificato il reato di peculato in truffa aggravata, ne aveva dichiarato l’estinzione per intervenuta prescrizione.
A conclusione del processo penale il Ministero della Difesa aveva applicato al dipendente la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per 15 giorni.
La richiesta dello S. di restitutio in integrum in relazione al periodo di sospensione cautelare dal servizio (detratte le somme relative al periodo di custodia cautelare in carcere e quelle afferenti all’applicata sanzione disciplinare) e di ricostruzione della carriera per il corrispondente periodo era stata respinta dal Ministero, che aveva replicato di aver dovuto obbligatoriamente sospendere il dipendente ai sensi della L. n. 97 del 2001, art. 4, comma 1.
2. Il Tribunale di La Spezia aveva accolto il ricorso dello S. evidenziando che, per il reato definitivamente attribuito al predetto, il Ministero della Difesa non poteva applicare una sospensione dal servizio ex lege e che a seguito di procedimento disciplinare attivato dal Ministero della Difesa lo S. non era stato licenziato, ma solamente sospeso, avendo l’Amministrazione applicato l’art. 15, comma 9, del c.c.n.l. Comparto Ministeri del 2003, nel quale si prevedeva, per un’ipotesi del tutto analoga di conclusione del procedimento disciplinare con sanzione conservativa, il diritto (del dipendente precedentemente sospeso) alle retribuzioni che avrebbe ricevuto se fosse stato in servizio, escluse le indennità e i compensi per servizi e funzioni speciali o per prestazioni di carattere straordinario ed esclusi, altresì, i periodi di sospensione del comma 1 e quelli eventualmente inflitti a seguito del giudizio disciplinare riattivato.
3. La Corte d’appello di Genova confermava, sempre sul rilievo del citato art. 15 del c.c.n.l., la pronuncia di prime cure e rigettava anche la domanda subordinata con cui il Ministero aveva chiesto computarsi le differenze retributive solo a decorrere dalla riqualificazione del reato di peculato in truffa aggravata.
4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Ministero della Difesa, affidato ad un unico motivo.
5. S.G. ha resistito con regolare controricorso.
6. Il Collegio ha proceduto in camera di consiglio secondo la disciplina dettata dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di Conversione 18 dicembre 2020, n. 176.
7. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso.
8. Il controricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo il ricorso lamenta l’errata interpretazione e applicazione della L. n. 97 del 2001, art. 4, per l’espressa previsione della sospensione obbligatoria per il reato di peculato, e del C.C.N.L. 2003, art. 15, comma 9.
Assume che la ratio della norma pattizia è chiara ed è quella di impedire che l’Amministrazione debba versare la retribuzione al dipendente nonostante che questi, a causa di una ragione indipendente dalla volontà delle parti, non abbia prestato attività lavorativa.
Rileva che la sospensione obbligatoria per legge non è in nulla diversa dall’impossibilità della prestazione per “forza maggiore” o per misura restrittiva personale.
Il Ministero ritiene, quindi, di non dover integrare alcuna differenza retributiva allo S.; in subordine chiede che la restitutio sia limitata solo a partire dal momento in cui il reato di peculato è stato derubricato in quello di truffa aggravata.
2. Il motivo è infondato alla luce dell’orientamento già espresso da questa Corte nella recente sentenza n. 4411 del 18 febbraio 2021, alla cui ampia motivazione si rinvia ex art. 118 disp. att. c.p.c..
Detto precedente afferma che la sospensione obbligatoria dal servizio del dipendente pubblico, disposta ai sensi della L. n. 97 del 2001, art. 4, costituisce misura cautelare di carattere interinale rispetto all’esito del procedimento disciplinare che l’amministrazione ha l’onere di avviare anche in caso di cessazione medio tempore del rapporto di lavoro.
In particolare, la suddetta misura risulta giustificata solo ove la sanzione inflitta sia di gravità pari o maggiore della sospensione interinale; se invece il procedimento disciplinare non viene attivato o (come nel caso in esame) viene inflitta una sanzione di minore gravità, al dipendente è dovuta la restitutio in integrum in relazione al periodo di sospensione cautelare non legittimato dalla sanzione successivamente irrogata.
In sostanza, la natura cautelare della misura della sospensione (pur nella sua obbligatorietà) ne comporta la provvisorietà e rivedibilità, nel senso che solo al termine e secondo l’esito del procedimento disciplinare si potrà stabilire se la sospensione preventiva applicata resti giustificata ovvero debba essere caducata a tutti gli effetti (si veda anche Cass. 19 marzo 2019, n. 7675, punto 3 e giurisprudenza ivi citata).
I suddetti principi non sono in contraddizione con le conclusioni raggiunte da questa Corte in tema di sospensione obbligatoria conseguente all’applicazione della custodia cautelare; in tale ipotesi è l’impossibilità della prestazione di lavoro a determinare la sospensione dell’obbligo retributivo del datore di lavoro, ex artt. 1256 e 1463 c.c.; l’esclusione della restitutio in integrum discende, dunque, dal rapporto di corrispettività tra le prestazioni, a prescindere dagli esiti della vicenda disciplinare.
In sostanza, il discrimen non è segnato dal carattere obbligatorio ovvero facoltativo della sospensione, bensì dall’impossibilità o meno della prestazione lavorativa.
E’ stato, altresì, precisato che, a voler ammettere che gli effetti della sospensione, in particolare quanto alla perdita della retribuzione, possano divenire definitivi in mancanza del procedimento disciplinare – o a prescindere dall’esito di tale procedimento – si attribuirebbe a tale istituto natura di sanzione automatica, svincolata dall’accertamento di responsabilità per il fatto di reato e, comunque, anche nell’ipotesi di condanna penale, dalla verifica delle ricadute del reato commesso sull’assetto degli interessi regolati dal contratto di lavoro.
3. La Corte territoriale si è attenuta agli indicati principi.
4. Da tanto consegue che il ricorso deve essere respinto.
5. Non può trovare applicazione nei confronti dell’Amministrazione dello Stato D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, atteso che la stessa, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, è esentata dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778).
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna il Ministero ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 6.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021