LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –
Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8100/2017 R.G. proposto da:
PIEMME AUTO SNC di P. G., D.P. G. e M. C., in persona dei soci M.C. e P.G., nonché per P.G.
e M.C., entrambi in proprio, rappresentati e difesi dall’avv. Vincenzo Operamolla ed elettivamente domiciliati presso la casella di posta certificata del medesimo;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale per la Puglia n. 2191/2016, depositata il 22/9/2016 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/06/2021 dalla Dott.ssa Valeria Pirari.
RILEVATO
che:
1. In seguito ad attività di controllo e verifica della posizione fiscale relativa agli anni di imposta 2006, 2007 e 2008, della Piemme Auto s.n.c. di P. G., D.P. G. e M. C., esercente l’attività di rivendita di auto usate, nonché all’invio di questionari e all’invito ad esibire le scritture contabili relative ai predetti anni, seguiti dalla risposta in data 4/10/2011, l’Agenzia delle Entrate notificò alla società e ai soci P. e M. tre distinti avvisi di accertamento, con i quali rideterminò induttivamente “a tavolino” i redditi di impresa, anche ai fini Irap e Iva, facendo riferimento alla produzione parziale della documentazione richiesta e alla antieconomicità della gestione. Impugnati i predetti atti dai contribuenti, la C.T.P. di Bari respinse i ricorsi con sentenza n. 746/22/2015 depositata il 12/3/2015, che fu confermata dalla C.T.R. per la Puglia, adita dai medesimi contribuenti, con la sentenza n. 2191/2016, depositata il 22/9/2016, che rigettò l’appello.
2. Contro la predetta sentenza, i contribuenti propongono ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati anche con memoria. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo, si lamenta la nullità della sentenza per omessa o apparente motivazione, in violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 36 e 62 e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R. respinto l’appello sulla scorta di argomenti inconcludenti, in quanto, a fronte di specifiche doglianze, vertenti sulla omessa pronuncia sulla violazione del principio del contraddittorio e sull’inesistenza dei presupposti legittimanti il ricorso al metodo induttivo, si era limitata ad affermazioni apodittiche e prive di giustificazioni.
2. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, circa la violazione del principio del contraddittorio, per avere la C.T.R. confermato la decisione di primo grado senza prendere posizione sulla doglianza afferente alla violazione del principio del contraddittorio.
3. Col terzo motivo, si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in merito alla illegittimità e infondatezza del recupero dell’Iva per presunto irregolare utilizzo del regime del margine, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R. accolto l’appello dell’Ufficio senza esaminare affatto la questione riguardante il fatto che il margine negativo (costi lordi superiori ai ricavi lordi) fosse stato riportato correttamente nella successiva liquidazione e che soltanto per mero errore materiale fosse stata indicata separatamente, rispetto al resto della liquidazione del regime del margine, una parte dei costi per spese di riparazione ed accessorie (in ogni caso inerenti, deducibili e detraibili ai fini delle imposte dirette e dell’Iva), errore che comunque non avrebbe potuto comportare l’indetraibilità dell’Iva che avrebbe potuto essere esercitata nelle successive liquidazioni.
4.1 Il primo motivo e il secondo motivo, da trattare congiuntamente in ragione della stretta connessione, sono parte inammissibili e parte infondati.
Va innanzitutto preliminarmente osservato come, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, gli estremi della dedotta doglianza di nullità processuale della sentenza (per motivazione totalmente mancante o motivazione apparente) siano integrati nell’ipotesi di “assenza” della motivazione, quando cioè “non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione”, non configurabile nel caso di “una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata” (ad es., da ultimo, Cass. Sez. 3, 15/11/2019, n. 29721) ovvero nel caso di “motivazione solo apparente, che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado” (cfr. ad es. Cass. Sez. L, 25/10/2018, n. 27112) ovvero qualora la motivazione “risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione” (ad es. Cass. Sez. 6 – 3, 25/09/2018, n. 22598; ipotesi ravvisata anche in caso di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, che rendono incomprensibili le ragioni poste a base della decisione”, Cass. Sez. 6 – L, 25/06/2018, n. 16611). In particolare, “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, stante l’impossibilità di all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (Cass., Sez. U, 03/11/2016, n. 22232), dovendo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, essere interpretata alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, anomalia questa che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. 5, 6/5/2020, n. 8487).
4.2 Orbene, i ricorrenti, con specifico riguardo alla omessa presa di posizione sulla lamentata inesistenza dei presupposti legittimanti il ricorso al metodo induttivo, non si confrontano affatto con la sentenza impugnata, nella quale i giudici di merito non soltanto hanno dato conto dell’errore in cui erano incorsi i giudici di primo grado, allorché avevano fondato il proprio convincimento su date ed elementi afferenti al 2006 e non al 2007, oggetto invece del giudizio, ma hanno anche evidenziato, nel confermare comunque la sentenza, gli elementi sulla base dei quali l’Ufficio aveva proceduto ad accertamento induttivo, richiamando, sul punto, sia l’antieconomicità dell’attività esercitata, stante l’esiguità degli utili conseguiti dai soci della società e non, come segnalato dai ricorrenti, sulla base degli utili realizzati dalla società, calcolati in ragione dei costi e dei ricavi, sia l’illegittimità della detrazione dell’Iva in quanto effettuata in violazione dei limiti imposti dalla normativa al regime del margine (peraltro spiegato ulteriormente nello svolgimento delle argomentazioni decisorie), sia l’incongruenza dei dati esposti nella dichiarazione dei redditi e in sede di compilazione del questionario, e argomentando sul riparto dell’onere probatorio. Pertanto, non può dirsi che sul punto vi sia stato l’assoluto silenzio da parte dei giudici, avendo questi preso esplicita posizione su tale motivo di doglianza.
Pertanto, deve ritenersi che i ricorrenti abbiano inteso ottenere in realtà la revisione del ragionamento decisorio, la quale è inibita al giudice di legittimità. Il vizio non può infatti consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, controllare attendibilità e concludenza delle prove e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova, sicché mai può essere censurata in sé la valutazione degli elementi probatori secondo il prudente apprezzamento del giudice (Cass., Sez. 5, 11/6/2020, n. 11227).
Ne consegue, in relazione a questo argomento, l’inammissibilità del motivo. 4.3 Quanto alla doglianza afferente alla mancata integrazione del contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio per gli accertamenti c.d. “a tavolino” e all’omessa presa di posizione, da parte dei giudici di merito, sulla questione, ancorché fondata, stante l’assenza di riferimenti, nella parte motiva, sul punto, deve escludersene la concludenza con riguardo ai tributi soggetti alla normativa nazionale e l’ammissibilità quanto a quelli “armonizzati”.
Nel primo caso, infatti, non sussiste per l’amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, come per gli accertamenti ai fini Irpeg e Irap, anche quando si verta in ambito di indagini c.d. “a tavolino” (vedi Cass., Sez. U, 9/12/2015, n. 24823; Cass., Sez. 6 – 5, 14/03/2018, n. 6219), mentre nel secondo caso la sussistenza dell’obbligo in esame impone al contribuente di enunciare, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto far valere senza proporre un’opposizione meramente pretestuosa (Cass., Sez. U, 9/12/2015, n. 24823) e di dimostrare il risultato diverso che, dal suo assolvimento, si sarebbe potuto ottenere e, quindi, il pregiudizio arrecato in concreto al proprio diritto di difesa (Cass., Sez. 6 – 5, 23/05/2018, n. 12832). Perciò, l’assenza in ricorso di delucidazioni sul punto comporta l’inammissibilità della censura.
5. Il terzo motivo, infine, è parimenti inammissibile.
Nell’ipotesi di c.d. “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, (applicabile, ai sensi del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (per tutte, Cass., sez. 1, 22/12/2016, n. 26774; Cass., sez. L., 06/08/2019, n. 20994).
Non avendo il ricorrente adempiuto nella specie a tale incombente, ne deriva, sotto questo profilo, l’inammissibilità della censura.
6. In conclusione, dichiarata la parziale inammissibilità e infondatezza del primo e secondo motivo e l’inammissibilità del terzo, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico dei ricorrenti.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 22 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021