Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.33119 del 10/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4458/2020 proposto da:

E.P., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO MARIA DE GIORGI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Lecce, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– resistente con mandato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di LECCE, depositato il 16/12/2019 R.G.N. 7247/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 14/07/2021 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO.

RILEVATO

che:

1. Il Tribunale di Lecce ha respinto il ricorso proposto da E.P., cittadino della Nigeria, avverso il provvedimento della Commissione Territoriale che aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale e di quella complementare (umanitaria).

2. Il richiedente aveva allegato di essere originario della città di Uromi, di appartenere al gruppo etnico Esan e di essere di fede cristiana; che aveva lasciato il proprio Paese perché aveva avuto una relazione con una ragazza di religione musulmana; che questa era rimasta incinta ed insieme avevano deciso di fuggire ma durante il viaggio in Libia, probabilmente per l’eccessivo caldo nel deserto, la ragazza era morta ed egli temeva di essere ucciso dal padre e dai parenti della predetta; che a suo carico pendeva una denuncia per rapimento.

3. Il Tribunale ha giudicato non credibile il racconto del richiedente per “aspetti di implausibilità o vaghezza riguardo a circostanze importanti” ed ha negato lo status di rifugiato, sebbene i fatti narrati fossero astrattamente riferibili a persecuzioni per motivi di razza, nazionalità, religione, opinioni politiche o appartenenza ad un gruppo sociale, ed anche la protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b).

4. Ai fini dell’art. 14 cit., lett. c), i giudici di primo grado hanno escluso l’esistenza nel Paese di provenienza del richiedente di una condizione di violenza generalizzata o di un conflitto interno o internazionale, richiamando fonti aggiornate e affidabili.

5. Hanno negato la ricorrenza di seri motivi di carattere umanitario in quanto il richiedente, in Italia dal 2016, non aveva dimostrato l’esistenza di qualche concreta forma di integrazione sociale e lavorativa nel territorio nazionale.

6. Avverso tale decreto il richiedente la protezione ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.

7. Il Ministero dell’Interno si è costituito al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

CONSIDERATO

che:

8. Con il primo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, per avere il Tribunale valutato come inattendibile il racconto del richiedente, invece preciso e dettagliato, e benché lo stesso avesse compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, producendo tutti gli elementi in suo possesso e fornendo adeguata motivazione dell’eventuale mancanza di elementi significativi.

9. Col secondo motivo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. c) e art. 4, per avere il Tribunale giudicato non credibile il racconto del ricorrente senza valutare adeguatamente il rischio di persecuzione o di danno grave legati alla sua situazione individuale e, specificamente, al suo orientamento religioso.

10. Col terzo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, lett. a), per non avere il Tribunale riconosciuto l’esistenza di atti di violenza fisica e psichica nella vicenda narrata dal ricorrente, che è stato più volte minacciato e discriminato, e per aver negato lo status di rifugiato nonostante la fondatezza del timore del predetto di essere perseguitato, in caso di rimpatrio, per essere cattolico.

11. Col quarto motivo è denunciata la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19, sul rilievo che la decisione adottata avesse carattere apodittico e non avesse valutato la situazione del richiedente che aveva subito forme di violenza psicologica e fisica tali da metterne a repentaglio la vita.

12. Col quinto motivo è ancora denunciata la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g) e h), per non avere i giudici di primo grado tenuto conto della esistenza di “scontri tra gruppi armati nel contesto di faide locali (che) possono sfociare in atti di violenza indiscriminata contro civili” e del fatto che “gruppi terroristici tra i quali in particolare ***** pongano in essere azioni contro la minoranza cristiana”. Si sottolinea come il rimpatrio del ricorrente, dato il suo orientamento religioso, creerebbe un serio pericolo di vita, integrando i presupposti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g) ed h).

13. Deve premettersi che, in base ad un principio generale, la delibazione della sentenza civile, ancorché risultante dal dispositivo compilato inerente la medesima – salvo il caso eccezionale che del dispositivo stesso il legislatore preveda una immediata rilevanza, esterna, con conseguente sua idoneità a determinare la cristallizzazione della decisione adottata – non esclude il potere-dovere del giudice di tenere conto di rilevanti sopravvenienze intervenute nel periodo successivo ad essa ed anteriore alla pubblicazione, e di provvedere, ove occorra, coerentemente con esse (per tutte v. Cass. n. 4466 del 1992).

14. In relazione al caso di specie, si rileva preliminarmente che la procura rilasciata dal richiedente al difensore, apposta su foglio separato e materialmente congiunto all’atto, è priva della certificazione della data di rilascio, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, così da non consentire la verifica del suo conferimento in epoca successiva alla comunicazione del decreto impugnato.

15. Le Sezioni unite di questa Corte hanno recentemente affermato che l’art. 35 bis, comma 13 citato, nella parte in cui prevede che “la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato” e che “a tal fine il difensore certifica la data del rilascio in suo favore della procura medesima”, richiede, quale elemento di specialità rispetto alle ordinarie ipotesi di rilascio della procura speciale, regolate dagli artt. 83 e 365 c.p.c., il requisito della posteriorità della data rispetto alla comunicazione del provvedimento impugnato: appunto prevedendo una speciale ipotesi di inammissibilità del ricorso nel caso di mancata certificazione della data di rilascio della procura in suo favore da parte del difensore, integrante ipotesi di nullità per il suo invalido conferimento (Cass. SU 1 giugno 2021, n. 15177);

16. Con ordinanza interlocutoria 23 giugno 2021, n. 17970, questa Corte ha rimesso alla Corte costituzionale, ritenendone la rilevanza e la non manifesta infondatezza, la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, per contrarietà agli artt. 3,10,24,111 Cost.; per contrasto con l’art. 117 Cost., in relazione alla direttiva 2013/32/UE con riferimento all’art. 28 e art. 46, p. 11 e con l’art. 47 della Carta dei diritti UE, art. 18 e art. 19, p.2 della medesima Carta, artt. 6, 7, 13 e 14 della CEDU.

17. Una sommarla delibazione dei motivi del ricorso (le censure sono inammissibili per genericità, perché non si confrontano con la ratio decidendi del decreto impugnato) esclude la rilevanza a fini decisori della questione di legittimità costituzionale sollevata, sicché ben può essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso per nullità della procura, senza attendere la pronuncia della Corte costituzionale.

18. In conclusione, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso senza assunzione di un provvedimento sulle spese del giudizio, non avendo il Ministero vittorioso svolto attività difensive;

19. Infine, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto, con la precisazione che esso va posto a carico del ricorrente dandosi seguito alla citata sentenza delle Sezioni Unite nella quale sul punto è stato affermato il seguente principio di diritto: “il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, in caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione conseguente alla mancata presenza, all’interno della procura speciale, della data o della certificazione del difensore della sua posteriorità rispetto alla comunicazione del provvedimento impugnato, va posto a carico della parte ricorrente e non del difensore, risultando la procura affetta da nullità e non da inesistenza”.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 14 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021

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