LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16881-2019 proposto da:
B.F.A., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONINO DOMENICO GULLO;
– ricorrente –
contro
BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI BUSTO GAROLFO E BUGUGGIATE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI n. 20, presso lo studio dell’avvocato NICOLA DOMENICO PETRACCA, (STUDIO LEGALE PIACCI DE VIVO PETRACCA) che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato EDGARDO DAVIDE RATTI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 448/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 13/03/2019 R.G.N. 481/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/09/2021 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH.
RILEVATO
CHE:
Con sentenza n. 448 depositata il 13.3.2019 la Corte di appello di Milano, confermando la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio e respingendo l’appello di B.F.A., ha respinto la domanda del lavoratore proposta nei confronti di Banca di Credito Cooperativo-BCC di Busto Garolfo e Buguggiate per l’annullamento delle dimissioni rassegnate il 12.2.2016.
La Corte di appello ha rilevato che i fatti contestati al dipendente con nota consegnata il 12.2.2016 (in sintesi, accordo con un cliente della banca per l’ottenimento di un fido mediante apposizione di firme false, procedura posta in essere tra *****) non erano stati oggetto di replica da parte del B. (se non in profili secondari, concernenti gli importi erogati), fatti suscettibili di integrare un grave inadempimento agli obblighi che incombono ad un dipendente che riveste le mansioni di Direttore di filiale, e che la convalida delle dimissioni appariva del tutto valida ed efficace, considerate le circostanze di tempo e di luogo in cui era stata consegnata (ossia alcuni giorni dopo la dichiarazione di dimissioni e a seguito del fine settimana trascorso al di fuori dell’ambiente di lavoro); non essendoci, dunque, prova alcuna di artificio e/o raggiro posto in essere dalla Banca, conformemente alla decisione del Tribunale, il rapporto di lavoro doveva ritenersi validamente risolto per atto di dimissioni proveniente dal lavoratore, restando del tutto irrilevante la eccepita tardività dell’atto di contestazione, non vertendo la causa su questione di impugnativa di un licenziamento.
Avverso questa pronuncia ricorre il B. per cassazione prospettando un motivo di ricorso, e la società resiste con controricorso illustrato da memoria.
CONSIDERATO
CHE:
1. Con il primo e unico motivo, il ricorrente denunzia omesso esame di un punto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo, il Tribunale e poi la Corte di appello, omesso di valutare il fatto decisivo della tardività dell’incolpazione, atteggiandosi, invece, la tempestività della contestazione disciplinare quale elemento costitutivo del legittimo recesso dal datore di lavoro, come da consolidata giurisprudenza di legittimità.
2. Il ricorso è inammissibile per plurimi motivi.
3. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, “la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione… ” (Cass. 3.8.2007 n. 17125 e negli stessi termini Cass. 25.9.2009 n. 20652).
3.1. nel caso di specie difetta la necessaria riferibilità delle censure alla motivazione della sentenza impugnata, in quanto la Corte territoriale ha rilevato che trattandosi di domanda giudiziale tesa ad ottenere l’annullamento delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, era irrilevante approfondire se la contestazione disciplinare era stata o meno consegnata e se era tempestiva o tardiva, “non vertendo, la presente causa, su questione di impugnativa di un licenziamento”.
3.2. Le censure non colgono la ratio decidendi perché il ricorrente insiste sulla mancata considerazione della tardività della contestazione disciplinare ma nulla deduce sulla sussistenza di una diversa (ed esclusiva) causa di risoluzione del rapporto di lavoro (le dimissioni).
4. Opera, inoltre, la modifica che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia “doppia conforme”: l’art. 348 ter c.p.c., comma 5, prescrive che la disposizione di cui al comma 4 – ossia l’esclusione del n. 5, dal catalogo dei vizi deducibili di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1 – si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado, con la conseguenza che il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme.
Nel caso di specie, per l’appunto, la Corte ha confermato la statuizione del Tribunale, che aveva rinvenuto la legittimità delle dimissioni per carenza di artifizi e/o raggiri posti in essere dalla Banca nonché per la rilevanza dei fatti posti in essere dal Direttore di filiale, né il ricorrente in cassazione (per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5) ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528 del 10/03/2014).
5. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, ex art. 91 c.p.c., liquidate come da dispositivo.
6. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 14 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021