LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCIOTTI Lucio – Presidente –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –
Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CAPOZZI Raffaele – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20982-2019 proposto da:
R.G., domiciliato presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentato e difeso dall’avvocato ZANGHI FABIO;
– ricorrente-
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;
– controticorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE MESSINA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 5612/10/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA SICILIA, depositata il 13/12/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/09/2021 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE CAPOZZI.
RILEVATO
che R.G., amministratore di condomini, propone ricorso per cassazione e confronti di una sentenza CTR Sicilia, sezione staccata di Messina, di accoglimento dell’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso una sentenza CTP Messina, che aveva in gran parte accolto il suo ricorso avverso un avviso di accertamento IRPEF ed IVA 2010; secondo la CTR, erroneamente la sentenza di primo grado aveva ritenuto che fosse l’ufficio tenuto a provare che le movimentazioni del conto corrente bancario del contribuente fossero imputabili a ricavi professionali del medesimo; era invece quest’ultimo tenuto a provare che le movimentazioni sul proprio conto corrente bancario non fossero collegati ad introiti professionali; e tale prova il contribuente non aveva fornito.
CONSIDERATO
che il ricorso è affidato a tre motivi;
che, con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 5-bis, in combinato disposto con la L. n. 212 del 2000, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., in quanto erroneamente la CTR aveva ritenuto applicabile la sanzione di Euro 14.228,00, di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 6, pari al 100% dell’equivalente imposta IVA non versata, rapportata ai prelevamenti ritenuti non giustificati di Euro 71.140,00; la sanzione anzidetta non avrebbe dovuto essere a lui comminata, non sussistendo da parte sua l’obbligo di versare VIVA; infatti la stessa Agenzia delle entrate nell’avviso di acce’rtamento impugnato aveva rilevato come, ai sensi della sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 2010, non si doveva tener conto dei prelevamenti dal proprio conto corrente bancario non giustificati, ai fini della determinazione del reddito; quindi non dovevano essergli irrogate le sanzioni, per avere egli commesso una mera violazione formale, senza alcun debito d’imposta;
che, con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5 per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e per nullità della sentenza e del procedimento per omessa pronuncia-motivazione; invero nel suo atto di appello esso ricorrente aveva affermato che i prelevamenti per importo di Euro 71.140,00 non fossero a lui imputabili, essendosi trattato di 19 assegni emessi da suo padre, cointestatario del conto, in favore di terzi soggetti, i quali avevano incassato le relative somme per contanti; erano quindi transazioni riguardanti esclusivamente suo padre, quale cointestatario del conto corrente bancario in esame; e detta circostanza non era stata assolutamente presa in considerazione dalla CTR;
che, con il terzo motivo, il ricorrente lamenta violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per travisamento della situazione di diritto ed erronea applicazione di norme; violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa motivazione; violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in quanto la CTR aveva ritenuto non giustificati tutti i versamenti che avevano formato oggetto dell’avviso di accertamento per importo complessivo di Euro 86.884,70 senza fornire al riguardo alcuna motivazione; invero la sentenza di primo grado aveva accolto, con adeguata motivazione, le giustificazioni da lui rese in ordine ai versamenti effettuati sul proprio conto corrente bancario e la CTR aveva affermato di non condividere le prove da lui fornite in primo grado, omettendo al riguardo qualsiasi motivazione ed indagine rigorosa; esso ricorrente aveva assolto all’onere probatorio su di lui gravante, avendo fornito in primo grado adeguata giustificazione di ogni singola movimentazione bancaria, si che non era condivisibile l’affermazione della CTR, secondo cui l’onere della prova sarebbe stata illegittimamente posto a carico dell’Agenzia delle entrate;
che l’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso;
che è fondato il primo motivo di ricorso proposto dal ricorrente; non era invero a lui applicabile la sanzione di Euro 14.228,00, di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, pari al 100% dell’equivalente imposta IVA non versata, rapportata ai prelevamenti ritenuti non giustificati di Euro 71.140,00; invero, come più volte rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 2432 del 2017; Cass. n. 8266 del 2018; Cass. n. 23523 del 2018), la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 228 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, limitatamente alle parole “o compensi”, ritenendo che, con riferimento ai compensi percepiti dai lavoratori autonomi, al cui novero appartiene il ricorrente, che svolge attività di amministrazione di condomini, la presunzione basata sugli accertamenti bancari fosse lesiva del principio di ragionevolezza e della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che anche i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati dai lavoratori autonomi fossero destinati ad investimenti nell’ambito della loro attività professionale; pertanto, a seguito di detta pronuncia, la presunzione legale posta dal citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, secondo la quale i prelevamenti dai conti correnti bancari sono considerati ricavi, può essere utilizzata solo nei confronti degli imprenditori e non anche nei confronti dei lavoratori autonomi, con la conseguenza che appare ingiustificata la sanzione applicata al ricorrente;
che è altresì fondato il secondo motivo di ricorso, per le medesime ragioni esposte con riferimento al motivo di ricorso che precede; nessuna presunzione poteva quindi essere desunta a carico del ricorrente, con riferimento ai prelievi da lui effettuati dal proprio conto corrente bancario;
che è fondato anche il terzo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente ha lamentato omessa motivazione della sentenza impugnata, per avere essa riformato la sentenza di primo grado, senza dare adeguato conto delle argomentazioni svolte per far luogo a detta riforma;
che invero la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 4294 del 2018; Cass. n. 107 del 2015) è concorde nel ritenere che, nel processo tributario, la motivazione di una sentenza d’appello ben può essere redatta “per relationem” rispetto alla sentenza di primo grado, purché essa resti autosufficiente e cioè riproduca i contenuti mutuati e li renda oggetto di autonoma valutazione critica, in modo da consentire la verifica della sua congruenza logico-giuridica; è dunque richiesto che la motivazione della sentenza di appello non si limiti al mero riferimento di quanto contenuto nella sentenza impugnata, ma elabori tale contenuto con modalità autonome, onde consentire di individuare le ragioni poste a fondamento del diverso avviso espresso;
che, nella specie, la sintetica motivazione della sentenza impugnata è affidata alle seguenti parole: “In punto di fatto il contribuente non ha assolto all’onere della prova in ordine alle molteplici operazioni non giustificate. Peraltro l’avviso di accertamento deve ritenersi adeguatamente motivato anche in relazione alle considerazioni del contribuente. Pertanto, in base ai principi generali che regolano il grado di appello, la sentenza impugnata quindi deve necessariamente essere riformata, nei termini di cui sopra, in quanto non basata su di un corretto esame degli elementi processuali e deve essere rigettato l’appello del contribuente ed accolto l’appello incidentale dell’Agenzia delle entrate”;
che le scarne parole sopra riportate sono indubbiamente inidonee ad evidenziare il ragionamento valutativo svolto dalla CTR in ordine a quanto rappresentato dal giudice di primo grado, si da far ritenere che la motivazione della sentenza impugnata sia affetta dalle gravi anomalie sopra enunciate, con conseguente sua collocazione al di sotto del c.d. “minimo costituzionale”, inteso come contenuto minimo che deve avere la motivazione di una sentenza;
che, pertanto, il ricorso proposto dal contribuente va accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rimessione alla CTR Sicilia, sezione staccata di Messina, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso del contribuente; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR Sicilia, sezione staccata di Messina, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 15 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021