Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.33187 del 10/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11611-2019 proposto da:

I.N.P.S., – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. – Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, ESTER ADA SCIPLINO;

– ricorrenti –

contro

AGRICOLA S. FRATELLI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PIRENEI n. 1, presso lo studio dell’avvocato ALFONSO GENTILE, rappresentata e difesa dall’avvocato RODOLFO VITOLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 674/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 11/12/2018 R.G.N. 451/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/09/2021 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANTONINO SGROI.

udito l’Avvocato RODOLFO VITOLO.

FATTI DI CAUSA

La vicenda in esame trae origine dal contenzioso relativo a due cause, proposte separatamente e poi riunite in primo grado, dalla società agricola S. F.lli s.p.a. nei confronti dell’INPS.

Per quanto ora di interesse, la sentenza di primo grado aveva dichiarato inammissibile il ricorso depositato il 3 febbraio 2015, in quanto meramente reiterativo di quello depositato l’8 ottobre 2013; aveva accolto in parte il primo, avente ad oggetto opposizione ad avviso di addebito per contributi dovuti dal settembre 2007 a giugno 2012 derivanti dalla variazione dell’inquadramento dell’impresa da agricola ad industriale, ritenendo che i presupposti per l’inquadramento nel settore industriale fossero stati effettivamente accertati solo dall’anno 2008 e riducendo l’importo preteso nei medesimi termini.

La Corte d’appello di Salerno, adita in via principale dalla società in ragione della declaratoria di inammissibilità del secondo ricorso, dell’inquadramento nel settore industriale e dell’effetto retroattivo che allo stesso era stato riconnesso, ed in via incidentale dall’INPS, per il profilo della affermata definitività dell’atto di nuovo inquadramento operato in via amministrativa, ha accolto il solo motivo dell’appello principale relativo alla decorrenza del nuovo inquadramento ai sensi della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8.

In particolare, la Corte territoriale ha affermato che il nuovo inquadramento doveva decorrere dal periodo di paga in corso alla data di notificazione del provvedimento, giacché l’inquadramento iniziale non era stato determinato da una omessa dichiarazione dell’imprenditore e tale circostanza non era parificabile a quella della dichiarazione inesatta.

Avverso tale sentenza ricorre l’Inps sulla base di unico motivo.

Resiste la Società con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, va disattesa l’eccezione di improcedibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., sollevata dalla controricorrente in ragione del fatto che il ricorso è stato depositato presso questa Corte di cassazione in data 19 aprile 2019, mentre il termine di venti giorni previsto dal codice di rito avrebbe dovuto decorrere solo dal 7 giugno 2019, data in cui il ricorso è in effetti pervenuto nella sfera giuridica del destinatario. Nella sostanza, ci si duole del fatto che il deposito del ricorso sia avvenuto in anticipo rispetto al termine previsto e ciò, ad avviso della controricorrente, comporterebbe l’improcedibilità del ricorso anche perché, in mancanza, lo stesso controricorso sarebbe inevitabilmente tardivo.

Deve osservarsi che l’art. 369 c.p.c. prevede che il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena d’improcedibilità, nel termine di giorni venti dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto.

Si tratta di un termine perentorio ed acceleratorio, nel senso che svolge la funzione di contenere entro tempi massimi prefissati lo svolgimento della fase di costituzione del ricorrente.

Questa Corte di legittimità (Cass. n. 14742 del 2007) ha accolto il principio in base al quale la regola della scissione del momento perfezionativo del procedimento notificatorio trova applicazione limitatamente al tema della tempestività della notifica dell’atto, ma non anche con riguardo alla tempestività del deposito del ricorso ex art. 369 c.p.c., per cui è alla data di consegna dell’atto al destinatario della notifica che deve guardarsi per verificare che il termine di venti giorni per il deposito non sia stato sforato, ma ciò non significa che l’eventuale deposito antecedente sia sanzionato con l’improcedibilità.

Infatti, la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 5, comma 3, consente al notificante di provvedere al deposito del ricorso nella cancelleria della Corte anche prima che l’atto notificato gli sia restituito dall’ufficiale giudiziario.

Tale scelta del ricorrente non lede alcuna prerogativa del destinatario della notifica, giacché, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., il termine finale per la notifica ed il deposito dell’eventuale controricorso è quello di venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso e non certo dall’effettivo deposito.

Con l’unico motivo di ricorso, l’INPS deduce la violazione e o la falsa applicazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, L. n. 352 del 1978, artt. 1, 2,3 e 4 e D.L. n. 269 del 2003, art. 44 bis, con modificazioni nella L. n. 326 del 2003. Si denuncia l’errore interpretativo in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nel negare l’effetto retroattivo dell’inquadramento nel settore industriale, a fronte dell’accertamento ispettivo relativo all’omessa comunicazione di circostanze attinenti al mutamento dell’attività aziendale in origine agricola; tale circostanza avrebbe dovuto condurre all’applicazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, secondo il quale l’effetto retroattivo del nuovo inquadramento si determina anche laddove non siano state comunicate talune circostanze che si aveva l’obbligo di comunicare e non solo laddove siano state comunicate circostanze inesatte.

Il ricorrente critica l’orientamento di legittimità cui ha aderito la sentenza impugnata (Cass. n. 4521 del 2006, n. 26886 dei 2006; n. 27347 del 2017 e n. 3460 del 2018) e che ha superato quello espresso da Cass. n. 13383 del 2008 e n. 8558 del 2014, in considerazione del fatto che l’Ente ha contezza degli elementi caratterizzanti il rapporto contributivo solo nel caso in cui il datore di lavoro comunichi anche le variazioni degli elementi necessari ai fini del computo della relativa obbligazione, come espressamente previsto dalla L. n. 352 del 1978, artt. 1, 2,3 e 4 e dal D.L. n. 269 del 2003, art. 44 bis, con modificazioni nella L. n. 326 del 2003. Se ciò non avviene, l’omessa comunicazione equivale giuridicamente ad una inesatta comunicazione.

Osserva la Corte che, come già chiarito da ultimo da Cass. n. 5541 del 2021, il motivo del ricorso dell’INPS è infondato.

Con la citata pronuncia questa Corte di cassazione, in ordine all’interpretazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, ha ormai consolidato il principio secondo il quale la disposizione in questione, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti di variazione della classificazione dei datori di lavoro producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento o della richiesta dell’interessato, ha valenza generale, ed è quindi applicabile ad ogni ipotesi di rettifica di precedenti inquadramenti operata dall’Istituto dopo la data di entrata in vigore della L. n. 335 del 1995, indipendentemente dai parametri adottati, in base ad una lettura sistematica e costituzionalmente orientata della norma, volta ad uniformare il trattamento di imprese di identica natura ed attività, ma disomogenee nella classificazione (Cass. S.U. n. 16875 del 12/08/2005).

La norma impone invece la retroattività degli effetti della variazione ogni volta che vi sia stato nel momento iniziale dell’attività un comportamento del datore di lavoro positivo e volontario tale da determinare un inquadramento errato, qual è l’inoltro di dichiarazioni inesatte.

La condotta ivi prevista è affatto diversa dal comportamento omissivo intervenuto nel corso dell’attività del datore di lavoro, che trova una specifica sanzione nell’ordinamento nel D.L. n. 352 del 1978, art. 2, comma 1, convertito in L. n. 467 del 1978, che prevede l’obbligo dell’impresa di comunicare agli enti previdenziali le variazioni relative all’attività imprenditoriale svolta e la sanzione per la relativa violazione, ma non determina la retrodatazione dell’inquadramento (Cassazione n. 14258/2019).

Tale decisione, in particolare, ha dato ulteriore continuità all’orientamento assunto da questa Corte negli arresti n. 4521 del 1/03/2006 e nei più recenti n. 27347 del 2017; nn. 3459 e 3460 del 2018, in consapevole dissenso dalla diversa tesi sposata da ultimo da Cass. n. 8558 del 11/04/2014.

La prima soluzione deve infatti essere preferita, in quanto è coerente con la natura eccettiva della deroga all’operatività della classificazione ex nunc, deroga prevista testualmente per il solo caso delle inesattezze nella dichiarazione iniziale e che dunque non può essere applicata al di fuori delle ipotesi ivi tassativamente indicate e tipizzate, stante il divieto anche di interpretazione analogica ed estensiva, posto con riferimento alla legge speciale, dall’art. 14 preleggi; essa inoltre privilegia le esigenze di certezza nel rapporto contributivo, che ha ripercussioni sul bilancio dell’istituto ed anche sulle posizioni previdenziali dei singoli lavoratori.

Tale orientamento si è oramai affermato e poggia su considerazioni di carattere sistematico che resistono alle critiche formulate dal ricorrente; tali critiche risultano, invece, improntate, per un verso, a considerazioni di carattere generale quali quelle che evidenziano la conoscenza degli eventi relativi al rapporto di lavoro solo in capo al datore di lavoro e non da parte degli Enti, ovvero alla mera considerazione dei diversi obblighi di comunicazione imposti dalle norme citate, diverse da quella relativa alla decorrenza dei nuovi inquadramenti.

Si tratta di osservazioni che non incidono sulla ratio della scelta legislativa sottesa alla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, ed alla specificità del bilanciamento operato dalla stessa disposizione tra interesse pubblico alla retrodatazione degli effetti del nuovo inquadramento ed interesse dell’impresa a non essere soggetta ad obbligazioni per periodi ormai trascorsi.

In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese vanno compensate in ragione del consolidarsi dell’orientamento sopra ribadito in tempi successivi all’introduzione del presente giudizio.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021

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