LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18625-2019 proposto da:
I.N.P.S., – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati ANTONIETTA CORETTI, MAURO SFERRAZZA, VINCENZO STUMPO, VINCENZO TRIOLO;
– ricorrente –
contro
F.V., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ROSARIO SANTESE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 695/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 14/12/2018 R.G.N. 516/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/09/2021 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato SAMUELA PISCHEDDA per delega verbale Avvocato MAURO SFERRAZZA.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale giudice del lavoro di Salerno, con sentenza del 22 giugno 2016, grado rigettò la domanda proposta da F.V. nei confronti dell’INPS, avente ad oggetto la reiscrizione della stessa negli elenchi dei lavoratori agricoli per 102 giornate lavorative svolte nell’anno 2012 alle dipendenze della s.p.a. S. Fratelli.
Impugnata tale sentenza dalla lavoratrice, che lamentava una inadeguata valutazione delle emergenze istruttorie e l’irrilevanza, ai fini del riconoscimento della natura agricola dell’attività prestata, dell’inquadramento nel settore industriale dell’azienda disposto dall’INPS, la Corte d’appello di Salerno ha accolto l’appello.
Ad avviso della Corte territoriale, in particolare, quanto alla questione dell’accertamento della natura industriale dell’azienda, scaturito dall’attività ispettiva di cui al verbale del 5 ottobre 2012, relativo ad un periodo compreso tra il 1.9.2007 ed il 30.9.2012, doveva farsi riferimento alla sentenza della stessa Corte n. 674 del 2018 che aveva definito la questione tra la società e l’INPS ritenendo corretto il nuovo inquadramento ma illegittima la pretesa dell’Istituto di farlo retroagire da epoca precedente alla data di notifica del provvedimento di variazione. Ciò peraltro non poteva non riflettersi sulla posizione dei dipendenti, per cui la F., che aveva svolto l’attività indicata nella propria domanda, andava riconosciuta lavoratrice agricola per 102 giornate nell’anno 2012 ai fini del riconoscimento del diritto all’indennità di disoccupazione.
Avverso tale sentenza ricorre l’Inps sulla base di un motivo.
Resiste F.V. con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso, l’INPS deduce la violazione e o la falsa applicazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, L. n. 352 del 1978, artt. 1, 2,3 e 4 e D.L. n. 269 del 2003, art. 44 bis, con modificazioni nella L. n. 326 del 2003.
Si denuncia l’errore interpretativo in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nel negare l’effetto retroattivo dell’inquadramento nel settore industriale, a fronte dell’accertamento ispettivo relativo all’omessa comunicazione di circostanze attinenti al mutamento dell’attività aziendale in origine agricola; tale circostanza avrebbe dovuto condurre all’applicazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, secondo il quale l’effetto retroattivo del nuovo inquadramento si determina anche laddove non siano state comunicate talune circostanze che si aveva l’obbligo di comunicare e non solo laddove siano state comunicate circostanze inesatte.
Il ricorrente critica l’orientamento di legittimità cui ha aderito la sentenza impugnata (Cass. n. 4521 del 2006, n. 26886 del 2006; n. 27347 del 2017 e n. 3460 del 2018) e che ha superato quello espresso da Cass. n. 13383 del 2008 e n. 8558 del 2014, in considerazione del fatto che l’Ente ha contezza degli elementi caratterizzanti il rapporto contributivo solo nel caso in cui il datore di lavoro comunichi anche le variazioni degli elementi necessari ai fini del computo della relativa obbligazione, come espressamente previsto dalla L. n. 352 del 1978, artt. 1, 2,3 e 4 e dal D.L. n. 269 del 2003, art. 44 bis, con modificazioni nella L. n. 326 del 2003. Se ciò non avviene, l’omessa comunicazione equivale giuridicamente ad una inesatta comunicazione.
Osserva la Corte che, come già chiarito da ultimo da Cass. n. 5541 del 2021, il motivo del ricorso dell’INPS è infondato.
Con la citata pronuncia questa Corte di cassazione, in ordine all’interpretazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, ha ormai consolidato il principio secondo il quale la disposizione in questione, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti di variazione della classificazione dei datori di lavoro producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento o della richiesta dell’interessato, ha valenza generale, ed è quindi applicabile ad ogni ipotesi di rettifica di precedenti inquadramenti operata dall’Istituto dopo la data di entrata in vigore della L. n. 335 del 1995, indipendentemente dai parametri adottati, in base ad una lettura sistematica e costituzionalmente orientata della norma, volta ad uniformare il trattamento di imprese di identica natura ed attività, ma disomogenee nella classificazione (Cass. S.U. n. 16875 del 12/08/2005).
La norma impone invece la retroattività degli effetti della variazione ogni volta che vi sia stato nel momento iniziale dell’attività un comportamento del datore di lavoro positivo e volontario tale da determinare un inquadramento errato, qual è l’inoltro di dichiarazioni inesatte.
La condotta ivi prevista è affatto diversa dal comportamento omissivo intervenuto nel corso dell’attività del datore di lavoro, che trova una specifica sanzione nell’ordinamento nel D.L. n. 352 del 1978, art. 2, comma 1, convertito in L. n. 467 del 1978, che prevede l’obbligo dell’impresa di comunicare agli enti previdenziali le variazioni relative all’attività imprenditoriale svolta e la sanzione per la relativa violazione, ma non determina la retrodatazione dell’inquadramento (Cassazione n. 14258/2019).
Tale decisione, in particolare, ha dato ulteriore continuità all’orientamento assunto da questa Corte negli arresti n. 4521 del 1/03/2006 e nei più recenti n. 27347 del 2017, nn. 3459 e 3460 del 2018, in consapevole dissenso dalla diversa tesi sposata da ultimo da Cass. n. 8558 del 11/04/2014.
La prima soluzione deve infatti essere preferita, in quanto è coerente con la natura eccettiva della deroga all’operatività della classificazione ex nunc, deroga prevista testualmente per il solo caso delle inesattezze nella dichiarazione iniziale e che dunque non può essere applicata al di fuori delle ipotesi ivi tassativamente indicate e tipizzate, stante il divieto anche di interpretazione analogica ed estensiva, posto con riferimento alla legge speciale, dall’art. 14 preleggi; essa inoltre privilegia le esigenze di certezza nel rapporto contributivo, che ha ripercussioni sul bilancio dell’istituto ed anche sulle posizioni previdenziali dei singoli lavoratori.
Tale orientamento si è oramai affermato e poggia su considerazioni di carattere sistematico che resistono alle critiche formulate dal ricorrente; tali critiche risultano, invece, improntate, per un verso, a considerazioni di carattere generale quali quelle che evidenziano la conoscenza degli eventi relativi al rapporto di lavoro solo in capo al datore di lavoro e non da parte degli Enti, ovvero alla mera considerazione dei diversi obblighi di comunicazione imposti dalle norme citate, diverse da quella relativa alla decorrenza dei nuovi inquadramenti.
Si tratta di osservazioni che non incidono sulla ratio della scelta legislativa sottesa alla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, ed alla specificità del bilanciamento operato dalla stessa disposizione tra interesse pubblico alla retrodatazione degli effetti del nuovo inquadramento ed interesse dell’impresa a non essere soggetta ad obbligazioni per periodi ormai trascorsi.
In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese vanno compensate in ragione del consolidarsi dell’orientamento sopra ribadito in tempi successivi all’introduzione del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 28 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021