LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9090/2019 proposto da:
D.C.M., elettivamente domiciliato in Roma Viale Africa, 40 presso lo studio dell’avvocato Sordini Federica, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Vitale Gaetano;
– ricorrente –
contro
Cerved Credit Management S.P.A. quale mandataria della società per la Gestione di Attività – S.G.A. S.P.A., in persona del Dott. A.G., elettivamente domiciliata in Roma Via Germanico 109 presso lo studio dell’avvocato Sebastio Giovanna, rappresentata e difesa dall’avvocato De Palma Francesco;
nonché contro D.C.F.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 486/2018 della CORTE D’APPELLO SEZ.DIST. DI TARANTO, depositata il 19/11/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/04/2021 da Dott. GRAZIOSI CHIARA.
RILEVATO
che:
Banca Apulia S.p.A. conveniva davanti al Tribunale di Taranto D.C.F. e suo figlio D.C.M. perché ai sensi dell’art. 2901 c.c. fosse nei propri confronti dichiarata inefficace la compravendita immobiliare stipulata il 21 dicembre 2006 tra il primo come alienante e il secondo come acquirente. Ciò in relazione a un credito che l’attrice adduceva di vantare nei confronti di D.C.F. per la revoca di affidamenti a lui concessi in un conto corrente acceso il 19 giugno 2006.
Entrambi i convenuti si costituivano, resistendo.
Il Tribunale, con sentenza del 2 maggio 2016, accoglieva la pretesa attorea.
D.C.M. proponeva appello, cui resisteva la banca, mentre D.C.F. restava contumace.
La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 19 novembre 2018 rigettava il gravame.
D.C.M. ha presentato ricorso, articolato in tre motivi, da cui figura essersi difesa con controricorso Cerved Credit Management S.p.A., mandatario di Società per la Gestione di Attività S.p.A., agente per il patrimonio di Gruppo Veneto, includente anche i rapporti già di Banca Apulia.
CONSIDERATO
che:
Prima di vagliare il ricorso occorre rilevare che la costituzione di Cerved Credit Management S.p.A. è nulla – onde si deve ritenere che entrambe le parti intimate non si sono difese – in quanto la procura speciale che dovrebbe corredare il ricorso non è completa nel testo e non è sottoscritta.
1. Il primo motivo del ricorso denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.
La Corte d’appello avrebbe ritenuto che la compravendita fosse posteriore alla nascita del credito, inteso questo come aspettativa del creditore da valutarsi probabile: il 20 giugno 2007 era stato concesso a D.C.F. un fido di Euro 10.000 finalizzato allo scoperto formatosi sul conto corrente acceso un anno prima, per avere la banca, pur senza aver concesso un espresso affidamento, consentito al correntista di sconfinare, “alle condizioni previste ed accettate nel relativo contratto”, giungendo così ad uno scoperto di Euro 10.175,91; reputa inoltre la corte territoriale che il fido fu poi aumentato, ancora per effettuare una copertura dello scoperto, a Euro 25.000, il che, ad avviso della corte, sarebbe dimostrato dalla documentazione prodotta dalla banca con la seconda memoria di cui all’art. 183 c.p.c.
Adduce invece il ricorrente che da tale documentazione non risulterebbero sconfinamenti, né risulterebbe lo scoperto di Euro 10.175,91. Vengono elencati allegati alla suddetta memoria, sostenendo che nessuno di essi confermerebbe quanto rilevato dal giudice d’appello, il quale pertanto avrebbe violato l’art. 115 c.p.c., che vieta di decidere su fatti mai allegati o su prove “immaginarie”.
2. Il secondo motivo – per un evidente errore materiale numerato come terzo – denuncia omesso esame di fatto discusso e decisivo.
Tale fatto consisterebbe nell’anteriorità del credito (anche come ragioni di credito) rispetto alla compravendita. Secondo la banca, il credito sarebbe insorto il 6 luglio 2006, data della accensione del conto corrente affidato. L’attuale ricorrente, nell’atto d’appello, avrebbe poi censurato il giudice di prime cure per una “interpretazione non collimante” con quanto chiaramente avrebbe espresso il testo contrattuale – che era solo di un contratto di conto corrente – e altresì per non avere percepito la “ontologica differenza tra il conto corrente e l’apertura di credito, attribuendo rilevanza a clausole previste in via generale su modelli standard… senza tenere in debito conto la posizione di terzietà” rispetto a tale contratto dell’attuale ricorrente; e dalla “ulteriore documentazione prodotta dalla stessa banca” sarebbe risultata – sempre come evidenziato nell’atto d’appello – la posteriorità dell’affidamento rispetto alla stipulazione del conto corrente e quindi pure alla compravendita.
Si trascrivono poi rilievi presenti nell’appello che avrebbero dimostrato come il conto corrente fosse soltanto tale e non includesse invece anche la pattuizione di un’apertura di credito, contestando il ragionamento al riguardo formulato dal giudice di prime cure (ricorso, pagine 18-20). Il giudice d’appello avrebbe omesso di considerare “la circostanza decisiva” dell’esatto momento temporale in cui sarebbe insorto il credito (alias la ragione di credito)”. Così avrebbe pure omesso di esaminare la circostanza, a ciò “strettamente connessa”, che gli estratti del conto corrente dal 30 giugno al 31 dicembre del 2006 non mostravano alcuno scoperto. Dunque non sarebbe esistito quando fu stipulata la compravendita alcun affidamento, né di fatto né formale, onde il credito della banca sarebbe insorto posteriormente; e l’art. 2901 c.c. prevede che, se il credito è posteriore rispetto all’atto dispositivo, occorre per sostenere l’azione pauliana il dolo specifico, e non una “mera generica consapevolezza”, come del resto riconosce la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Cass. 13446/2013). Avrebbe pertanto errato la corte territoriale accogliendo la domanda che la banca avrebbe fondato sull’anteriorità del credito, e quindi accertando solo una generica consapevolezza di nuocere alle ragioni del creditore, elemento soggettivo qui non pertinente.
3. Il terzo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2901 c.c., comma 1, e art. 1842 c.c., anche in relazione alla L. n. 154 del 1992, art. 3 e art. 117 TUB quanto alla determinazione dell’anteriorità del credito rispetto all’atto dispositivo.
Il giudice d’appello avrebbe reputato che fosse esistito un accreditamento di fatto avvenuto con l’accensione del conto corrente, indipendentemente da un effettivo prelievo del correntista; avrebbe altresì ritenuto irrilevanti il momento in cui il credito sarebbe insorto e il suo ammontare, seguendo la giurisprudenza di legittimità per cui ai fini dell’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. è sufficiente una “mera aspettativa di credito che possa valutarsi come probabile”. La corte territoriale avrebbe ritenuto appunto che con l’accensione del conto corrente si fosse realizzata tale mera aspettativa di credito (rectius, ragione di credito) che avrebbe reso il credito anteriore alla compravendita.
L’art. 117 TUB stabilisce che il contratto bancario deve essere stipulato con forma scritta, pena nullità. In particolare, la L. n. 154 del 1992, art. 3, comma 3, e successivamente l’appena citato art. 117, al comma 2, hanno conferito il potere alla Banca d’Italia, su conforme Delib. del C.I.C.R., di consentire a “particolari contratti” una forma diversa; e la Banca d’Italia ha dunque consentito che non occorra la forma scritta per le operazioni compiute “in esecuzione di previsioni contenute in contratti redatti per iscritto”. Ciò peraltro non eliderebbe la necessità di forma scritta, dovendo il “contratto madre” contenere il “contratto figlio”. E Cass. 14470/2005 insegna che ciò deve riguardare “operazioni e servizi già individuati e disciplinati in contratti stipulati per iscritto” (principio affermato proprio per un caso di apertura di credito rispetto a un conto corrente scritto).
Come già censurato in appello, si rileva che il conto corrente, nel caso in esame, non conterrebbe il contratto di apertura di credito di cui all’art. 1842 c.c., “nemmeno in via programmatica e/o eventuale”, non indicando né il quantum né la durata dell’affidamento. Se non sussiste contratto scritto o comunque nel conto corrente non sussiste previsione del fido, qualora il correntista sia in debito nei confronti della banca per avere prelevato giungendo allo scoperto, il debito “non può considerarsi intervenuto con l’accensione del conto corrente”.
La scopertura in conto corrente può costituire ragione di credito ai fini dell’azione pauliana, ma in tal caso dovrebbe farsi riferimento all’effettivo prelievo nel conto corrente per valutare l’anteriorità o la posteriorità rispetto all’atto dispositivo; ciò applicando, il giudice d’appello avrebbe dovuto attestarsi sui prelievi avvenuti dalla stipulazione del conto corrente (19 giugno 2006) all’atto di compravendita (21 dicembre 2006), periodo che difetterebbe di scoperture. Dunque, prima del rogito di compravendita non vi sarebbe stata alcuna ragione di credito ai sensi dell’art. 2901 c.c., onde si sarebbe dovuta affermare la posteriorità del credito, con necessità conseguente della dimostrazione del dolo specifico e non di una mera generica consapevolezza. Al contrario, la banca avrebbe agito ex art. 2901 c.c. prospettando l’anteriorità del credito e quindi, come elemento soggettivo, la necessità della mera consapevolezza del pregiudizio.
4. Il primo motivo, ictu oculi, è fondato su doglianze direttamente fattuale, perché diretto ad una revisione del merito, e pertanto patisce una evidente inammissibilità.
Peraltro, anche qualora fosse stato correttamente conformato in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avrebbe patito comunque inammissibilità ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5.
5. Quanto al secondo motivo, il ricorrente espressamente riconosce nell’incipit del motivo precedente che il giudice d’appello ha ritenuto la compravendita posteriore all’insorgenza del credito. Pertanto è palesemente infondato sostenere che il giudice d’appello abbia omesso l’esame di tale fatto.
Ad abundantiam, si rileva altresì che il giudice d’appello davvero lo ha esaminato nelle pagine 6 s. della sentenza impugnata, ove afferma che non fu acceso solo un contratto di conto corrente, bensì fu anche concesso di fatto un affidamento proprio quando venne stipulato il conto corrente, salvo poi formalizzare ciò con il fido del 20 giugno 2007, che sarebbe servito proprio per coprire la scopertura sorta da quella apertura di credito coeva al conto corrente: e come pura ricostruzione di fatto tutto questo non è censurabile.
Nel successivo motivo si censura però, come proprio ora si vedrà, la sussunzione di tale accertamento di fatto nel paradigma giuridico dell’apertura di credito in conto corrente.
6.1 A proposito allora del terzo motivo, va anzitutto premesso che nell’atto d’appello il secondo motivo aveva, tra l’altro, negato che nel conto corrente fosse contenuto anche un contratto di apertura di credito, rilevando che nel conto corrente la previsione di tassi e commissione di massimo scoperto “era riconducibile unicamente al fatto che il meccanismo era stato redatto su di un Modello standard, denominato “conto corrente”” e che in esso “non vi era alcuna pattuizione riguardante l’apertura di credito in c/c; non vi era… indicazione dell’importo affidato, non vi era indicazione della natura e della durata dell’affidamento” (così espone il ricorso, pagine 7-8).
Nel terzo motivo del ricorso, come si è visto nella sintesi che ne è stata offerta, viene espresso quel che era ineludibilmente e logicamente sotteso a tali censure, ovvero l’inesistenza di un contratto scritto di apertura di credito come incluso nel “contratto madre” di conto corrente, giacché le clausole necessarie per ritenerlo già delineato nel “contratto madre” nei suoi fondamenti non sarebbero esistite nel contenuto di quest’ultimo.
6.2 Invero, il giudice d’appello (motivazione della sentenza, pagina 6-7) dapprima nulla ammette sulla forma scritta in modo espresso come inclusa nel contratto di conto corrente, e al contrario, anzi, afferma che lo scoperto per cui in data 20 giugno 2007 fu poi “espressamente concesso” un fido per Euro 10.000: precisamente, fu “concesso al correntista di fatto, pur in assenza di un espresso affidamento”.
Subito dopo però osserva che nel contratto sono pattuiti “il tasso massimo nominale creditore” e le commissioni di massimo scoperto (cms) “entro il limite del fido concesso ed oltre il limite del fido concesso”, per cui al fido “di fatto” sarebbe stato concesso, “alle condizioni previste ed accettate nel relativo contratto, di sconfinare oltre le sue poste attive fino a raggiungere uno scoperto” di Euro10.175,91, per la cui copertura fu poi dato il fido di Euro10.000, in seguito ulteriormente aumentato. Quindi “lo scoperto di c/c, intervenuto prima dell’affidamento espresso del 20/06/2007, si è formato sulla scorta delle condizioni di cui al contratto del 19/06/2006 relative al tasso creditore, a quello per massimo scoperto ecc. specificatamente determinati in relazione a quel contratto”, e alcune anche approvate ai sensi dell’art. 1341 c.c. Per questo il giudice d’appello dichiara di non approvare la prospettazione che “quello firmato dal correntista sia stato un modulo standard non vincolante”.
6.3 Dopo questa ricostruzione nel senso, dunque, che tali clausole riguardassero proprio anche un fido, la corte territoriale ritorna però al fido “di fatto”, affermando: “Quindi… deve ritenersi che in concreto l’accreditamento di fatto sia già intervenuto” alla stipulazione del conto corrente.
Non indica però la corte né quale sarebbe stato il massimo credito concesso in fido all’epoca dell’accensione del conto corrente, né la durata dell’affidamento.
7. Di recente la significativa Cass. sez. 1, 22 novembre 2017 n. 27836, in motivazione, ha rilevato che è vero che l’ormai risalente Cass. sez. 1, 9 luglio 2005 n. 14470 affermò che, in tema di forma di contratti bancari, la L. n. 154 del 1992, art. 3, comma 3 e successivamente art. 117, comma 2 TUB, prevedendo che il C.I.C.R. può stabilire che determinati contratti, per motivate ragioni tecniche, siano stipulabili in forma diversa da quella scritta, conferiscono al C.I.C.R. il potere – da esso passato alla Banca d’Italia – “di emanare disposizioni che integrano la legge e, nei limiti dalla stessa consentiti, possono derogarvi e che, perciò, costituiscono norme di rango secondario” in cui “l’onere della motivazione” è adempiuto indicando il tipo di contratto “e la precisazione che esso deve riferirsi ad operazioni e servizi già individuati e disciplinati nei contratti stipulati per iscritto”. Però – ha precisato l’arresto del 2017 – “tale principio deve essere correttamente inteso”, giacché, come affermato pure, in precedenza, da Cass. sez. 1, 7 aprile 2017 n. 9068 (non massimata), l’intento di agevolare “particolari modalità della contrattazione” non può radicalmente sopprimere la forma scritta, ma soltanto apportarne “una relativa attenuazione” che in particolare salvaguardi “la necessaria indicazione delle condizioni economiche del contratto ospitato” – qui viene richiamata pure Cass. sez. 1, 27 marzo 2017 n. 7763, riguardante un ricorso avverso la decisione di merito che aveva “rilevato la carenza sia di una stretta connessione funzionale ed operativa tra il contratto di apertura di credito e quello di conto corrente, sia di una sostanziale regolamentazione del contratto accessorio desumibile da quello formato per iscritto” -. E a questo punto Cass. 27836/2017 rileva che dal testo contrattuale di cui si occupava “non emerge alcun regolamento economico dell’ipotetico contratto di apertura di credito, ivi previsto solo come possibile, se non l’indicazione di condizioni quadro, generali ed astratte”.
8.1 Nel caso qui in esame, in effetti, da un lato il giudice d’appello afferma che il fido è “di fatto”, dall’altro poi individua (salvo in seguito nuovamente qualificarlo “accreditamento di fatto”) elementi nel contratto che sarebbero le sue “condizioni”. Ma questi elementi attinti dal contratto di conto corrente (tasso del creditore e tasso per massimo scoperto, cui si aggiunge poi un mero “ecc.”) non sono certo sufficienti per fornire una sostanziale regolamentazione di un contratto di apertura di credito, non risultando indicato, da quanto espone la corte territoriale, né l’importo del fido come massimo ottenibile dall’accreditato, né la durata del prestito, come rileva il motivo in esame. Soprattutto l’omessa determinazione del quantum del fido induce proprio a ritenere che il giudice d’appello non ha individuato elementi sufficienti rinvenibili nel “contratto madre” per regolare il “contratto figlio” senza illegittimamente fuggire alla forma scritta, ma solo attenuandola come consente l’interpretazione corretta giurisprudenziale.
8.2 Il motivo, pertanto, risulta meritevole di accoglimento, avendo la corte territoriale effettuato in tal modo una falsa applicazione della normativa pertinente, ovvero una erronea sussunzione del fatto alla norma.
La censura di erronea sussunzione del fatto – dopo averlo giudicato come esistente, ovvero avere compiuto il relativo accertamento di merito, non direttamente censurabile dinanzi al giudice di legittimità – alla norma, nel senso di evincere dalla norma stessa conseguenze giuridiche che contraddicono la sua pur corretta interpretazione o, ancor più a priori, nel senso di ricondurre la fattispecie concreta giudicata ad una norma non pertinente perché relativa ad una fattispecie astratta diversa e quindi non idonea a regolarla, integra il vizio di falsa applicazione di legge denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio di violazione di legge essendo circoscritto alla identificazione e alla interpretazione della norma da ritenere regolatrice del caso concreto effettuate in modo erroneo (ex plurlmis, quali esempi tra i più recenti arresti massimati, v. Cass. sez. 5, 25 settembre 2019 n. 23851 – per cui, appunto, il vizio denunciabile mediante l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 “ricomprende tanto quello di violazione di legge, ossia l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una previsione normativa, implicante un problema interpretativo della stessa, quanto quello di falsa applicazione della legge, consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione” -, Cass. sez. 1, ord. 14 gennaio 2019 n. 640 – che rimarca come il vizio di violazione di legge “investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione a essa di un contenuto” in realtà non sussistente, mentre il vizio di falsa applicazione di legge consiste “nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice”, perché la fattispecie astratta in essa prevista, pur rettamente individuata e interpretata, non è idonea a regolarla, o anche nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicono la pur corretta sua interpretazione – e la conforme Cass. sez. 3, ord. 30 aprile 2018 n. 10320 -).
Nel caso in esame, una volta accertato il fatto nella sua concreta conformazione, il giudice d’appello ha evinto dalla norma che impone forma scritta al contratto de quo almeno negli elementi essenziali propri di un c.d. contratto figlio la sussistenza di tali elementi, in realtà normativamente insufficienti, così da pervenire a conseguenze giuridiche che contraddicono la pur corretta interpretazione del dato normativo.
9. In conclusione, il primo motivo del ricorso va dichiarato inammissibile, il secondo va rigettato mentre il terzo deve essere accolto, da ciò derivando cassazione della sentenza e rinvio, anche per le spese, alla medesima corte territoriale in diversa composizione.
PQM
Dichiara inammissibile il primo motivo, rigetta il secondo e accoglie il terzo, cassa con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appallo di Lecce, sezione distaccata di Taranto, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 21 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021
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