Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.33235 del 10/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19437-2015 proposto da:

AZIENDA SANITARIA LOCALE DI SASSARI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FILIPPO TURATI 86, presso lo studio dell’avvocato MARCO NESOTI, rappresentata e difesa dall’avvocato PIERFRANCESCO CUBEDDU;

– ricorrente principale –

contro

D.M.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI 123, presso lo studio dell’avvocato RAIMONDO DETTORI, rappresentata e difesa dall’avvocato CESARE BOSCHI;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza non definitiva n. 273/2013 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI – SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 07/12/2013 R.G.N. 355/2012;

– avverso la sentenza definitiva n. 180/2014 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI – SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 08/07/2014 R.G.N. 355/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/04/2021 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, visto il D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza (parziale) n. 273/2013, depositata il 7 dicembre 2013, la Corte di appello di Cagliari, Sez. distaccata di Sassari, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, ha dichiarato il diritto di D.M.P., dipendente dell’Azienda Sanitaria Locale di Sassari con la qualifica di “Collaboratore Professionale Sanitario – educatore, codice retributivo D5”, alle differenze retributive fra tale inquadramento e quello di dirigente psicologo, con decorrenza 1 luglio 1998.

1.1. La Corte di appello ha osservato che la D.M., laureata in pedagogia, indirizzo psicologico, era iscritta all’Albo degli psicologi, in virtù di equiparazione normativa del corso di laurea frequentato con quello di psicologia; era inoltre risultato, dal materiale di prova acquisito al giudizio, che la stessa svolgeva attività di psicologo dirigente, godendo dell’autonomia propria di tale figura professionale e cioè di autonomia nelle valutazioni diagnostiche e nelle scelte terapeutiche, invece assente, in tale misura, nella figura dell’educatore.

2. Con successiva sentenza n. 180/2014, depositata l’8 luglio 2014, definitivamente pronunciando sull’appello, la Corte ha accertato, previa consulenza contabile d’ufficio, l’ammontare delle differenze retributive, condannando l’Azienda al relativo pagamento e dichiarando interamente compensate fra le parti le spese dei due gradi di giudizio.

3. Per la cassazione di dette sentenze ha proposto ricorso l’Azienda Sanitaria Locale di Sassari, con cinque motivi, assistiti da memoria.

4. Ha resistito la lavoratrice con controricorso, con il quale ha proposto ricorso incidentale affidato ad unico motivo.

5. Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso principale viene censurata quella parte della sentenza impugnata in cui la Corte ha rilevato che l’appellante era iscritta all’Albo degli psicologi in virtù di una legge che aveva stabilito una tantum l’equiparazione del corso di laurea frequentato con quello in psicologia, non interessando di conseguenza verificare il titolo di studio o il percorso formativo, e ciò sotto il profilo della violazione o falsa applicazione del D.P.R. 10 dicembre 1997, n. 483, art. 52 che pone il diploma di laurea in psicologia tra i requisiti specifici di ammissione al concorso per la posizione funzionale di primo livello dirigenziale del profilo professionale di psicologo.

2. Con il secondo la ricorrente si duole che la Corte, nel considerare minore l’autonomia dell’educatore professionale rispetto a quella dello psicologo dirigente, non abbia tenuto conto della descrizione che di tale figura è contenuta nel D.M. Sanità 8 ottobre 1998, n. 520, art. 1 (Reg. recante norme per l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’educatore professionale ai sensi del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 6, comma 3), della quale ex art. 360 c.p.c., n. 3 deduce la violazione.

3. Con il terzo motivo la ricorrente principale censura la sentenza impugnata per violazione dell’Allegato 1 (Declaratorie delle categorie e dei profili) del c.c.n.l. per il personale non dirigente del Comparto Sanità (Parte normativa 1998/2001), non avendo la Corte territoriale, nel ritenere che la D.M., pur non in possesso dello specifico titolo di abilitazione, avesse svolto mansioni diverse e superiori in confronto a quelle riferibili alla categoria e al livello retributivo di assegnazione, preso in esame e valutato la declaratoria del “Collaboratore professionale sanitario esperto”, contenente elementi di segno opposto o incompatibili con le conclusioni raggiunte.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per avere la Corte ritenuto accertato lo svolgimento delle mansioni di dirigente psicologo sulla base principalmente di una deposizione (quella di A.G., responsabile dell’unità di neuropsichiatria infantile e superiore della D.M.), le cui risultanze, ove correttamente valutate, anziché sostenere la decisione assunta, avrebbero dimostrato la correttezza dell’inquadramento in essere.

5. Con il quinto motivo viene infine dedotta la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 sul rilievo che le risultanze oggettive delle prove non soltanto non avrebbero consentito di ritenere dimostrato lo svolgimento di mansioni superiori da parte della D.M. ma neppure la loro attribuzione con carattere di prevalenza, elemento richiesto dal comma 3 della disposizione citata quale presupposto per la richiesta di differenze retributive.

6. Il primo motivo risulta inammissibile.

6.1. La D.M. ha, infatti, agito in giudizio non per ottenere l’inquadramento come dirigente psicologo ma per conseguire le differenze retributive che assume spettanti in forza dell’esercizio di fatto di mansioni proprie di tale superiore qualifica professionale.

6.2. In tal senso è la qualificazione che della domanda ha compiuto la Corte di merito, come si desume dal complessivo percorso motivazionale della sentenza e, in termini del tutto chiari ed espliciti, dalla parte finale di esso, là dove è affermato “il diritto alle differenze retributive tra il livello di inquadramento e quello corrispondente alle mansioni espletate di dirigente psicologo, non potendosi procedere all’inquadramento”.

6.3. Nessuna censura risulta proposta dalla ricorrente nei confronti di tale operazione di qualificazione, a fronte di consolidato principio, secondo il quale “Il giudice di merito, nell’esercizio del potere di interpretazione e di qualificazione della domanda, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte ma deve accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella proposta. Il relativo giudizio, estrinsecandosi in valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di legittimità unicamente se sono stati travalicati i detti limiti o per vizio della motivazione” (Cass. n. 13062/2019, fra le pronunce più recenti).

7. Il secondo e il terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono da ritenersi parimenti inammissibili.

7.1. Entrambi si propongono invero di mettere in discussione l’accertamento che ha condotto il giudice di appello a ritenere sovrapponibile l’attività concretamente svolta dalla D.M. con quella del dirigente psicologo e, pertanto, tendono a sollecitare a questa Corte un apprezzamento di fatto incompatibile con il ruolo e con la funzione che alla medesima è assegnata nell’ordinamento, costituendo invece prerogativa del giudice di merito.

7.2. Risulta, d’altra parte, osservato, in tale accertamento, il procedimento c.d. trifasico, il quale – come ripetutamente sottolineato – “si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte, nella individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra i risultati di tali due indagini”, essendo necessario, ai fini dell’osservanza di tale procedimento, che “pur senza rigide formalizzazioni, ciascuno dei suddetti momenti di ricognizione e valutazione trovi ingresso nel ragionamento decisorio, configurandosi, in caso contrario, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, per l’errata applicazione dell’art. 2103 c.c., ovvero, per il pubblico impiego contrattualizzato, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52” (Cass. n. 30580/2019, fra le pronunce più recenti).

8. Alla medesima conclusione di inammissibilità deve pervenirsi con riguardo al quarto e al quinto motivo del ricorso principale.

8.1. Con il quarto, infatti, la ricorrente si duole sostanzialmente della lettura delle risultanze di una prova testimoniale, ritenuta di preminente rilievo dalla Corte di merito: ciò che, a fronte di sentenza di appello depositata in data posteriore all’11 settembre 2012, è in contrasto con il paradigma normativo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte nel 2012 e, con riferimento al perimetro applicativo e agli oneri di deduzione, a seguito delle pronunce di questa Corte a Sezioni Unite n. 8053 e n. 8054 del 2014 e delle numerose successive che ad esse si sono conformate.

8.2. A proposito del quinto è da rilevare come esso, pur denunciando il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, non indichi quali affermazioni in diritto, contenute nella sentenza impugnata, si porrebbero in contrasto con la norma citata o con l’interpretazione che della stessa è data nella giurisprudenza di legittimità, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni (Cass. n. 16038/2013, fra le molte conformi), risolvendosi in una censura di carenza motivazionale (per la quale valgono i rilievi sub 8.1.).

9. Il ricorso principale deve conseguentemente essere dichiarato inammissibile.

10. E’ invece fondato, e deve essere accolto, il ricorso incidentale, con il quale la D.M. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., oltre a nullità della sentenza per omessa motivazione (art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), per avere la Corte, nel dispositivo della sentenza (definitiva), disposto la compensazione per intero delle spese fra le parti, senza peraltro indicare i motivi di tale compensazione e richiamando in motivazione la regola della soccombenza.

10.1. Premesso che il giudizio risulta instaurato nel 2008 e che la disciplina applicabile è quella L. 28 dicembre 2005, n. 263, ex art. 2, comma 1, lett. a) (la compensazione vi era ammessa, oltre che nel caso di soccombenza reciproca, nel concorso di “altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione”), deve confermarsi l’orientamento per il quale “In tema di compensazione delle spese processuali, ai sensi dell’art. 92 c.p.c. (nella formulazione, applicabile ratione temporis, modificata dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. a)), il giudice è tenuto ad indicare, ove non sussista soccombenza reciproca, i giusti motivi posti a fondamento della stessa che non possono essere costituiti dal riferimento alla natura o al modesto valore della controversia ovvero risolversi nell’uso di motivazioni illogiche o meramente apparenti” (Cass. n. 25594/2018; cfr. anche Cass. n. 20617/2018).

11. Peraltro, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto (art. 384 c.p.c., comma 2), la causa viene decisa nel merito come da dispositivo, avuto riguardo all’esito complessivo della lite.

12. La ricorrente principale, sussistendone i presupposti processuali, è tenuta, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, al versamento di ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale e, decidendo nel merito, compensa per intero le spese dei gradi di merito; condanna l’Azienda ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021

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