Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.33258 del 10/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14967-2018 proposto da:

UNICOOP FIRENZE SOC. COOP., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI N. 22 (Studio Legale associato Maresca, Morrico, Boccia & Associati), presso lo studio degli avvocati ARTURO MARESCA, MONICA GRASSI, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente

contro

B.F., C.F., G.S., M.F., P.M., R.M., S.R., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE n. 9, presso lo studio dell’avvocato ENRICO LUBERTO, che li rappresenta e difende unitamente all’Avvocato ANDREA CONTE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1130/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 14/11/2017 R.G.N. 1218/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/09/2021 dal Consigliere Dott. BOGHETICH ELENA.

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. La Corte di appello di Firenze, confermando la sentenza di primo grado, ha dichiarato che il tempo utilizzato per indossare e dismettere la divisa dagli originari ricorrenti, dipendenti della Unicoop Firenze soc.coop. presso un supermercato, rientrava nel normale orario di lavoro ed andava pertanto remunerato; ha condannato la società al pagamento delle correlative differenze retributive, da quantificarsi in separata sede, indicando quale tempo necessario per detta attività in 10 minuti complessivi nell’ambito della giornata lavorativa (per la vestizione, all’inizio del turno e per la svestizione, alla fine del turno).

2. Il giudice di appello – premesso che non erano contestate le circostanze di fatto, confermate dal Regolamento aziendale, alla base della pretesa azionata in merito alla obbligo alla divisa aziendale, obbligatoriamente da custodire presso il luogo di lavoro (nell’armadietto personale sito in apposito spogliatoio) – in dichiarata adesione ai principi affermati dal giudice di legittimità, ha ritenuto che l’attività preparatoria concernente la vestizione, ove eseguita secondo pregnanti disposizioni del datore di lavoro circa il tempo ed il luogo dell’esecuzione, assumeva i connotati di attività eterodiretta ed andava pertanto retribuita; né l’esclusione del computo del tempo per indossare la divisa poteva desumersi dall’art. 99 del CCNL di settore, che non fa riferimento alcuno al tempo di vestizione/svestizione.

3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la società sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria. I ricorrenti originari resistono con controricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. Con il primo motivo parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi (D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 1, 98 del CCNL Commercio, distribuzione cooperative, 2104 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) dovendo considerarsi il tempo di vestizione come tempo di lavoro solo nell’ipotesi in cui lavoratore durante tale tempo sia eterodiretto dal datore di lavoro che imponga modalità per lo svolgimento di quelle che, diversamente, sono solo attività propedeutiche alla prestazione lavorativa, non essendo sufficiente che l’attività venga esercitata nel contesto del vincolo negoziale (mediante presenza fisica nella sede di lavoro) ma occorre un quid pluris cioè che il lavoratore sia realmente sottoposto all’esercizio di un potere organizzativo direttivo imprenditoriale e che, dunque, in quanto eterodiretto, risulti carente della disponibilità effettiva del proprio tempo; il legislatore non prevede in alcun modo la computabilità del tempo di vestizione (non potendosi ritenere che il lavoratore sia “a disposizione” quando indossa la tuta, bensì solamente dopo averla indossata ed essere entrato nella sfera di azione dei poteri direttivi e gerarchici del datore) e facendo riferimento, l’art. 98 del CCNL, esclusivamente al lavoro effettivo, avendo – le parti sociali – specificato che tutte le attività propedeutiche all’inizio del lavoro (prepararsi fisicamente e psichicamente al lavoro, raggiungere il posto di lavoro, parcheggiare, ecc.) non hanno alcun rilievo.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c., 2697, 2727 e 2729 c.c. in ordine alla prova della etero direzione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in quanto non è stata svolta alcuna prova su tale elemento nonostante le specifiche e puntuali contestazioni dei fatti allegati dai lavoratori (essendo stato, in particolare, contestato dalla società l’obbligo, riferito dai lavoratori, di vestirsi esclusivamente nei locali aziendali ed essendo stato considerato solamente il Regolamento aziendale che prevede l’obbligo di conservare gli abiti da lavoro presso gli spogliatoi).

3. Con il terzo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. in ordine alla quantificazione del tempo di vestizione svestizione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte territoriale, trascurato di svolgere attività istruttoria circa i tempi di vestizione e basandosi su fatti di comune esperienza.

4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) con riguardo al presunto esercizio del potere di eterodirezione nelle operazioni di vestizione e svestizione, avendo, la Corte territoriale, omesso di esaminare puntualmente la circostanza della mancanza di eterodirezione nella vestizione, avendo desunto dalla lettura sbrigativa del Regolamento aziendale che il datore di lavoro ha eterodiretto l’attività di vestizione, senza considerare che la circostanza che il datore di lavoro abbia predisposto degli armadietti presso gli spogliatoi non è sufficiente a dimostrare l’eterodirezione.

5. Il primo, secondo e quarto motivo, che possono essere valutati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati.

5.1. Si premette che il giudice di appello ha ritenuto che l’attività di vestizione, preparatoria della prestazione, doveva, nel caso di specie, considerarsi eterodiretta in quanto il Regolamento aziendale dispone il divieto di portare gli indumenti fuori dal contesto lavorativo per ragioni di igiene e l’obbligo di indossare la divisa all’interno della sede aziendale, evidenziando inoltre che dalle disposizioni impartite dal Capo negozio la timbratura per l’ingresso al lavoro andava effettuata “al momento in cui si inizia l’attività lavorativa, cioè dopo aver indossato la divisa” con ciò confermando che il momento della vestizione doveva porsi immediatamente prima dell’inizio del lavoro (e così, inversamente, per la timbratura dell’uscita e la svestizione, da effettuarsi immediatamente dopo la fine del turno).

A fronte del chiaro tenore del Regolamento aziendale nonché dell’accertamento di fatto concernente le disposizioni impartite dal Capo negozio, ed evidenziando il profilo di inammissibilità del quarto motivo essendosi in presenza di doppia pronuncia conforme di merito (basata sulle medesime ragioni di fatto della sussistenza di un potere di eterodirezione), il giudice di merito si è comunque conformato all’orientamento consolidato di questa Corte.

6. Come rimarcato da recente pronunzia di questa Corte, nel rapporto di lavoro subordinato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C266/14), il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento (Cass. n. 1352 del 2016).

In particolare è stato precisato che “La soluzione adottata dalla Corte UE conferma quindi l’impostazione assunta da questa Corte anche in relazione alla fattispecie in esame, secondo la quale, riassuntivamente, occorre distinguere nel rapporto di lavoro tra la fase finale, che è direttamente assoggettata al potere di conformazione del datore di lavoro, che ne disciplina il tempo, il luogo e il modo e che rientra nell’orario di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, ma rimesse alla determinazione del prestatore nell’ambito della libertà di disporre del proprio tempo, che non costituisce orario di lavoro. Tale impostazione richiede un’ulteriore precisazione, necessaria al fine di valutare la fattispecie oggetto di causa. L’eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione. Possono quindi determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d’ igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro” (così Cass. 1352/2016 cit.).

7. Tali affermazioni non si pongono in contrasto con quanto affermato da questa Suprema Corte con la sentenza n. 9215 del 2012, secondo cui, “nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio (c. d. tempo tuta) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo”; e ciò, in quanto gli arresti più recenti rappresentano uno sviluppo di quello precedente, or ora citato, ponendo l’accento sulla “funzione assegnata all’abbigliamento, nel senso che la eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina di impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento, o dalla specifica funzione che devono assolvere”, per obbligo imposto, lo si ripete, dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene attinenti alla gestione di un servizio pubblico ed alla stessa incolumità del personale addetto (cfr. Cass. n. 7738 del 2018, Cass. n. 17635 del 2019, Cass. n. 8627 del 2020).

8. Fermo quindi l’accertamento che, nel caso di specie, l’attività di vestizione, risultava assoggettata, in ordine al luogo ed alle modalità, alle specifiche prescrizioni datoriali (Regolamento aziendale), ed era strettamente funzionale all’espletamento della prestazione lavorativa in conformità delle previsioni di legge in tema di igiene, la decisione impugnata risulta conforme al consolidato indirizzo di questa Corte in tema di cd. “tempo tuta”.

9. Va aggiunto che questa Corte ha precisato che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053); costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1, 5/03/2014, n. 5133).

10. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.

Questa Corte ha affermato che il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo, e non anche per inesistenza o insufficienza di motivazione, non essendo il giudice tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, laddove, del resto, allorché si assuma che il fatto considerato come notorio dal giudice non risponde al vero, l’inveridicità del preteso fatto notorio può formare esclusivamente oggetto di revocazione, ove ne ricorrano gli estremi, non di ricorso per cassazione (Cass. n. 13715 del 2019).

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha quantificato il tempo di vestizione e svestizione in base al tipo di indumento indossato dai lavoratori, chiaramente utilizzando massime di esperienza agevolmente appartenenti ad una persona di media cultura.

11. In conclusione, il ricorso va rigettato, le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, da distrarsi a favore dell’avv. Andrea Conte.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 14 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021

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