LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26724/2016 R.G. proposto da:
D.S.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Walter Tammetta, elettivamente domiciliato presso il Sig. Pietro Pernarella, in Roma, Via Vinceno Ugo Taby, n. 19, giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;
– resistente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio.
sezione distaccata di Latina, n. 3727/40/2016, depositata il 13 giugno 2016.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 28 ottobre 2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.
RILEVATO
che:
1. La Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione distaccata di Latina, accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Latina (n. 214/2013), che aveva accolto il ricorso presentato da D.S.M., commerciante al dettaglio di carne, contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle entrate, anche con l’utilizzo di studi di settore, per l’anno 2007, ai fini Irpef, Iva ed Irap. In particolare, il giudice d’appello evidenziava, per quel che ancora qui rileva, che le condizioni di salute del contribuente non inficiavano la legittimità dell’avviso, sia perché riferibili ad eventi pregressi, sia perché non avevano precluso lo svolgimento, da parte sua, di attività economica, essendo dunque inidonee ad introdurre tra gli elementi di valutazione un coefficiente di riduzione delle sue potenzialità quanto ad un proficuo svolgimento di attività lavorativa. Inoltre, era rilevante la circostanza che il contribuente avesse, per tre anni di seguito, aperto una posizione Iva per poi chiuderla dopo alcuni mesi, pur svolgendo sempre la sua attività nel medesimo esercizio commerciale. Ciò costituiva un chiaro sintomo di modalità di svolgimento dell’attività finalizzato a non evidenziare i ricavi ottenuti. Era errata, dunque, la valutazione del giudice di prime cure che aveva ritenuto che l’Ufficio avesse fatto illegittima applicazione di uno studio di settore, pur in assenza delle condizioni che ne legittimavano l’utilizzazione, ossia l’attività economica protrattasi per meno di un anno. Inoltre, l’accertamento era stato effettuato anche ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), mentre l’unico riferimento contenuto nell’accertamento allo studio di settore era quello relativo alla percentuale di ricarico, determinata nella misura del 69%. Tale indice era stato desunto dallo studio di settore allegato dallo stesso contribuente alla propria dichiarazione. Doveva, però, tenersi conto della perdita non evidenziata dall’Agenzia, pari ad Euro 44.691,00, sicché i ricavi dovevano essere ridotti ad Euro 71.428,00, partendo dei ricavi originariamente determinati in Euro 115.959,00.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente.
3. L’Agenzia delle entrate si limita a depositare “atto di costituzione”, al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1, non avente le caratteristiche minime del controricorso.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce la “violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, sugli studi di settore, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. In realtà, poiché il contribuente ha iniziato e cessato l’attività dello stesso anno oggetto di accertamento, quindi nel 2007, l’Agenzia delle entrate non avrebbe potuto utilizzare lo studio di settore per la determinazione dei maggiori ricavi. L’unico elemento fondante l’accertamento sarebbe stato costituito dalle risultanze dello studio di settore e, in particolare dai ricarichi dallo stesso previsti, pari a 69%, da applicare sul totale degli acquisti di merce per Euro 114.332,00. La L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 4, prevede espressamente la non applicabilità degli studi di settore sia alla annualità in cui l’impresa inizia l’attività sia a quella in cui cessa l’attività e, nella specie, il ricorrente ha iniziato l’attività nel 2007, per poi chiuderla nello stesso anno.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Invero, va premesso che l’avviso di accertamento non era fondato esclusivamente sugli studi di settore, ma questi ultimi erano l’innesco per l’inizio di un accertamento analitico-induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).
Sul punto è chiara la ricostruzione in fatto compiuta dal giudice di merito, laddove afferma che “in proposito, appare sufficiente ribadire che l’accertamento è stato svolto ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), per osservare che l’unico riferimento contenuto nell’accertamento lo studio di settore è quello relativo alla percentuale di ricarico, determinata nella misura del 69%”.
Va anche immediatamente evidenziato che il giudice d’appello, su espressa richiesta dell’Agenzia delle entrate appellante, ha limitato l’importo dei ricavi, sottraendo dall’importo accertato, pari ad Euro 115.959,00, le perdite di esercizio riportate dal contribuente nella dichiarazione oggetto di controllo automatico, pari ad Euro 44.691,00, così determinando i ricavi non dichiarati in Euro 71.428,00, con la conseguente rideterminazione delle imposte e delle sanzioni dovute in relazione a tale minore importo.
1.3. Inoltre, la L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 4, relativa agli studi di settore, nella versione all’epoca vigente (anno 2007), come modificata dalla legge finanziaria del 2006, prevede che, “la Disp. del presente art., comma 1, non si applica nei confronti dei contribuenti: … b) che hanno iniziato o cessato l’attività nel periodo di imposta. La Disp. di cui al comma 1, si applica comunque in caso di cessazione e inizio dell’attività, da parte dello stesso soggetto, entro sei mesi dalla data di cessazione, nonché quando l’attività costituisce mera prosecuzione di attività svolte da altri soggetti”.
La novità normativa, dunque, è tesa ad eliminare la possibilità che un contribuente, per evitare l’applicazione delle disposizioni in tema di studi di settore, apra e chiuda continuamente, di anno in anno, la propria attività, in modo da impedire l’utilizzo da parte dell’Agenzia delle entrate degli studi di settore.
La norma, quindi, ha allargato la platea degli obbligati agli studi di settore, rimuovendo alcune cause di esclusione dalla loro applicazione. Se è vero che gli studi di settore non sono applicabili nei confronti dei soggetti che iniziano o cessano la propria attività nel corso del periodo di imposta, tuttavia, la legge finanziaria per il 2007 (L. n. 223 del 2006), ha previsto che, con effetto dal periodo d’imposta 2006, l’applicazione degli studi di settore è consentita nei confronti dei soggetti che hanno cessato l’attività ed entro sei mesi l’hanno nuovamente intrapresa. La nuova disciplina si concentra sul contrasto a diffusi fenomeni elusivi da parte di contribuenti che si sottraggono alla compilazione di studi di settore con le chiusure fittizie dell’attività (cfr. Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 31/E del 22 maggio 2007).
Pertanto, la cessazione ed il successivo inizio dell’attività non determinano una causa di esclusione dall’applicazione degli studi di settore qualora ricorrano contestualmente tre requisiti: 1) l’attività iniziata venga svolta dallo stesso soggetto che precedentemente aveva cessato l’attività; 2) l’attività venga iniziata nuovamente entro il termine di 6 mesi dalla sua cessazione; 3) l’attività presenta il carattere della omogeneità rispetto a quella precedente. Il giudice d’appello, con congrua valutazione, fondata su valutazione di fatto, non attaccata in alcun modo con il motivo di ricorso per cassazione, ha accertato che “appare erronea la valutazione espressa dalla CTP in ordine alla non rilevanza del fatto che il contribuente abbia per tre anni di seguito aperto una posizione Iva per poi chiuderla dopo alcuni mesi, pur svolgendo sempre la sua attività nel medesimo esercizio commerciale”. Ha aggiunto anche che “lungi dal potersi ritenere che tale modus operandi sia sintomatico della volontà del contribuente di superare le proprie difficoltà, anche di salute, deve ritenersi che non implausibilmente l’Ufficio abbia desunto da tale circostanza un chiaro sintomo di una modalità di svolgimento dell’attività finalizzato a non evidenziare i ricavi ottenuti”.
Pertanto, il giudice di merito ha evidenziato l’esistenza dei tre presupposti necessari per consentire l’applicazione degli studi di settore anche a contribuenti che hanno iniziato e cessato l’attività nell’arco dello stesso esercizio: lo svolgimento per tre anni consecutivi di attività commerciale; lo stesso soggetto imprenditoriale a capo dell’impresa; la medesima attività produttiva svolta.
Su tale porzione di motivazione non si incentra in alcun modo il ricorso per cassazione del contribuente. Anzi, il ricorrente fa solo riferimento alla annualità 2007, ribadendo che l’attività è iniziata ed è cessata nell’ambito del 2007, senza considerare in alcun modo l’accertamento di fatto compiuto dal giudice d’appello, che, invece, ha ritenuto che il contribuente abbia iniziato e cessato la sua attività ogni anno, nell’arco di tre anni successivi.
2. Va, poi, rimarcato che, come affermato dal giudice d’appello, l’avviso di accertamento era fondato anche sugli studi di settore, ma poggiava sulla antieconomicità della condotta del contribuente.
2.1. Il fatto che l’accertamento sia basato sullo studio di settore non esclude, dunque, che esso possa trovare anche altre giustificazioni, come nel caso di gestione antieconomica. Si è affermato, quindi, che un accertamento tributario può dirsi fondato su uno studio di settore solo nel caso in cui trovi in esso il suo fondamento prevalente. Ciò non si verifica quando, mediante l’utilizzo degli studi di settore siano emerse incongruenze nella contabilità di impresa che abbiano indotto l’Ente accertatore ad approfondire l’analisi, scoprendo altri, e prevalenti, indici rivelatori dell’esistenza di una operatività economica non dichiarata, raccogliendo l’Amministrazione finanziaria elementi gravi, precisi e concordanti, posti a fondamento dell’accertamento tributario (Cass., 5 dicembre 2019, n. 31814, Cass., 6 giugno 2019, n. 15344).
Nella specie, il giudice di appello ha evidenziato che l’unico dato desunto dagli studi di settore, predisposti dal contribuente per l’anno 2007, era quello della percentuale di ricarico, indicata dallo stesso D.S. nella misura del 69% (“l’unico riferimento contenuto nell’accertamento lo studio di settore è quello relativo alla percentuale di ricarico, determinata nella misura del 69%. Tale indice, peraltro, non è stato dall’Agenzia desunto dalle medie di settore ma dallo studio di settore dello stesso contribuente allegato alla propria dichiarazione e quindi da ritenersi aderente alla realtà aziendale del contribuente stesso”). In realtà, però, per la Commissione regionale, l’avviso di accertamento si fondava soprattutto sulla antieconomicità della condotta imprenditoriale del contribuente.
In particolare, si legge nella motivazione che “si tratta, quindi, di accertamento non riconducibile ad una mera applicazione degli studi di settore, ma scaturito dall’esame della contabilità ad opera della Guardia di Finanza”, che aveva evidenziato una “condotta assolutamente antieconomica da parte del contribuente” (cfr. pagina 3 della motivazione della CTR). In particolare, mentre le spese per l’acquisto delle merci erano pari ad Euro 114.332,00, i ricavi dichiarati erano di appena Euro 77.262,00, con inesistenza di giacenze di merce sia all’inizio dell’attività sia alla cessazione dell’attività. Inoltre, si è valorizzata anche la circostanza che le fatture erano state emesse in violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21. Il giudice d’appello ha anche fatto riferimento alle perdite emerse in più anni di esercizio, proprio considerando la circostanza che l’imprenditore ha iniziato e cessato la sua attività ogni anno, per poi riprenderla l’anno successivo, per tre anni consecutivi.
Invero, per questa Corte, in tema di imposte sui redditi, la tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare non è di ostacolo alla rettifica delle dichiarazioni fiscali e, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva, ed il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie – nella specie la S.C. ha cassato la decisione che aveva contraddetto, senza addure argomentazioni utili a proprio sostegno, il quadro emergente contrassegnato da una persistente perdita del profitto negli anni di esercizio di riferimento, un reddito di esercizio negativo, un esorbitante costo del lavoro, un incremento progressivo del costo del lavoro in misura inversamente proporzionale al “trend” degli utili – (Cass., sez. 5, 14 ottobre 2020, n. 22185; Cass., sez. 5, 15 ottobre 2007, n. 21536).
3. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), nonché omesso esame circa un fatto decisivo ai fini del giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”. In particolare, il giudice d’appello non avrebbe tenuto conto delle particolari condizioni di salute del contribuente, che sarebbero state idonee a giustificare sia i ricavi dichiarati dal contribuente stesso sia l’annullamento dei maggiori ricavi accertati dall’ufficio. Non sarebbe condivisibile l’affermazione del giudice d’appello che aveva fatto riferimento a condizioni di salute “pregresse” del D.S., oltre che allo svolgimento dell’attività economica per più anni da parte del contribuente. Se, infatti, era vero che le condizioni di salute erano riferibili ad eventi pregressi, e in particolare all’anno 1992, quando il contribuente aveva riportato un trauma cranico encefalico a seguito di incidente stradale, tuttavia nell’anno 2007 il D.S. presentava disturbi della concentrazione, uno stato ansioso-depressivo, cefalea, insonnia, instabilità emotiva ed era stato dichiarato non idoneo alla guida, come da certificato del 16 novembre 2007. Inoltre, era stata confermata l’invalidità con totale e permanente inabilità lavorativa al 100%, in data 22 novembre 2007. In merito a tale documentazione il giudice d’appello avrebbe omesso qualsiasi esame.
3.1. Il motivo è infondato.
3.2. In realtà, il giudice d’appello ha affrontato espressamente la questione delle condizioni di salute del contribuente, valutando tutta la documentazione prodotta, ma affermando, con ragionamento condivisibile e congruo, che le condizioni di salute dipendevano da eventi pregressi, datati nel tempo, e che le stesse non avevano impedito al D.S. di svolgere la propria attività per tre anni consecutivi, sia pure con le interruzioni sopra riferite, dettate dalla volontà di evitare che i ricavi emergessero ai fini fiscali. Il ricorrente, chiede, dunque, una nuova rivalutazione di tutti gli elementi di fatto, già precedentemente compiuta in modo corretto dal giudice d’appello, e non più consentita in sede di legittimità. Del resto, il giudice di merito non è tenuto a considerare tutti gli elementi istruttori presenti agli atti, ma può effettuare una scelta all’interno di tutta la produzione depositata, dando atto delle ragioni per cui ha valorizzato alcune prove a discapito di altre. Nella specie, con chiarezza, la Commissione regionale ha evidenziato che le condizioni di salute del contribuente dipendevano da eventi pregressi, molto lontani nel tempo, che non avevano impedito comunque lo svolgimento di attività imprenditoriale per tre anni.
Per questa Corte, infatti, sia pure con riferimento alla censura sulla motivazione, prima delle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass., sez. L., 2 febbraio 2007, n. 2272). I documenti, il cui esame sarebbe stato omesso da parte del giudice d’appello, non sono peraltro decisivi, proprio alla stregua delle considerazioni contenute nella motivazione della sentenza del giudice di merito. Si tratta di eventi accaduti in tempi molto risalenti, nel 1992, mentre l’attività commerciale è stata svolta dal contribuente per tre anni, senza profili di marginalità, ma con l’acquisto di merce per Euro 114.332,00 nel 2007, e con ricavi dichiarati per Euro 77.262,00, oltre che con perdite ragguardevoli per gli esercizi precedenti pari ad Euro 44.691,00.
4. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente si duole “in merito alla asserita condotta anomala ed antieconomica del contribuente. Violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Il giudice d’appello avrebbe erroneamente affermato l’esistenza di una condotta anomala ed antieconomica, desumendola dalla circostanza che l’imprenditore, per più anni di seguito, avesse subito perdite. In realtà, la perdita di esercizio attiene ad un solo anno e, non potrebbe essere diversamente, avendo il ricorrente operato solo nell’anno 2007, e precisamente da gennaio a settembre 2007. Una volta riconosciuta la sussistenza e la legittimità della perdita di esercizio dichiarato dal contribuente, non sarebbe plausibile nel contempo per lo stesso esercizio la condotta commerciale anomala o antieconomica. Le perdite erano effettive ed esistenti, come riconosciute dalla stessa Agenzia delle entrate e poi dal giudice d’appello.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. Anche con questo motivo di ricorso, il contribuente tenta di ottenere una nuova valutazione dei fatti, già compiuta in modo adeguato da parte del giudice d’appello.
L’antieconomicità della condotta contestata al contribuente si fonda, non soltanto sulla perdita di esercizio, effettivamente sussistente, ma anche sulla antieconomicità della condotta imprenditoriale, tanto che a fronte di spese per l’acquisto di merci pari ad Euro 114.332,00, i ricavi dichiarati erano di appena Euro 77.262,00.
Va anche rimarcato che il contribuente ha svolto attività imprenditoriale, non soltanto nell’anno 2007, come mostra di far credere nel motivo di ricorso, ma nel triennio, come accertato dalla Commissione regionale in modo limpido a pagina 4 della motivazione, senza che il ricorrente abbia censurato in alcun modo tale accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito.
5. In assenza di attività processuale da parte della controricorrente Agenzia, non si provvede sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021