LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7857-2019 proposto da:
IM.ASS. S.A.S., rappresentata e difesa dall’avvocato SALVATORE ROMEO giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
ARCIDIOCESI DI *****, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 48, presso lo studio dell’avvocato DOMENICA AUDREY DURANTE, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1714/2018 della CORTE d’APPELLO di PALERMO, depositata il 5/9/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/06/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalla ricorrente.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE La Im.Ass. S.a.s. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo l’Arcidiocesi di *****, assumendo di essere proprietaria di un immobile in *****, la cui copertura era in comune con l’Oratorio di *****, i cui beni appartenevano alla convenuta Arcidiocesi.
Rilevava che aveva provveduto ad eseguire degli urgenti interventi di manutenzione, del cui costo chiedeva il rimborso pro quota.
All’esito dell’istruttoria il Tribunale di Palermo, con la sentenza n. 2178 del 14 maggio 2013, rigettava la domanda e la Corte d’Appello di Palermo, con la successiva sentenza n. 1714 del 5 settembre 2018, rigettava il gravame della società, confermando la decisione di prime cure.
A fronte delle critiche dell’appellante che riteneva che in realtà le indagini del consulente tecnico d’ufficio avevano comprovato la proprietà del bene in capo alla convenuta, la Corte d’Appello, dopo avere ricordato che l’onere della prova incombeva sull’attrice, rilevava che le ispezioni ipotecarie richiamate dall’appellante, pur escludendo la proprietà del cespite in capo alla Compagnia di *****, non avevano però documentato che la proprietà spettasse all’Arcidiocesi.
Ancora non aveva valenza probatoria il registro della Soprintendenza ai beni culturali e ambientali della Regione Sicilia, né infine poteva attribuirsi rilievo al contratto di comodato nel quale l’Arcidiocesi si dichiarava proprietaria del bene, dovendosi escludere che a tale dichiarazione potesse annettersi valenza confessoria, in quanto riguardava un diritto, e precisamente il diritto di proprietà, e non anche fatti, come invece richiesto dalla legge.
Avverso tale sentenza propone ricorso l’IM.ASS. S.a.s. sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.
L’Arcidiocesi di Palermo resiste con controricorso.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., laddove il giudice di appello ha escluso che fosse stato assolto l’onere della prova della proprietà dei beni in capo alla convenuta.
Si richiama in particolare il contenuto della CTU, che aveva escluso che la proprietà fosse in capo alla Confraternita Compagnia di *****, dovendosi invece reputare che la titolarità dei beni spettasse proprio all’Arcidiocesi, avuto riguardo alle risultanze del registro tenuto presso la Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali della Regione Sicilia ed al contenuto del contratto di comodato, nel quale la convenuta si qualificava come proprietaria dei beni.
Il secondo motivo denuncia l’omessa valutazione di elementi istruttori decisivi per la controversia, ancora una volta facendosi riferimento a quanto emergeva dagli accertamenti dell’ausiliario d’ufficio.
Il terzo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2720 c.c., avendo la sentenza d’appello negato efficacia probatoria al riconoscimento della proprietà di cui al contratto di comodato.
In via preliminare deve condividersi quanto ritenuto in punto di diritto dalla Corte d’Appello circa l’individuazione della regola di riparto dell’onere probatorio, posto correttamente in capo all’odierna ricorrente, atteso che, agendo la stessa per il rimborso di somme spese per la manutenzione del bene comune, era suo onere dimostrare che la convenuta fosse l’effettiva comproprietaria del bene, e quindi tenuta a sostenere i costi della manutenzione.
A tal fine deve richiamarsi quanto precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 2951/2016, secondo cui la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto.
In relazione al primo motivo, occorre ricordare che per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016). Alla luce di tale considerazione risulta evidente come debba escludersi che ricorra la dedotta violazione di legge, posto che la sentenza impugnata ha esaminato i vari elementi probatori, che a detta della ricorrente, deporrebbero per la dimostrazione della proprietà in capo alla convenuta, pervenendo però a conclusioni diverse da quelle auspicate dall’attrice, ma nell’esercizio legittimo del proprio potere di ricostruzione del fatto, non sindacabile in sede di legittimità laddove sorretto da congrua e logica motivazione.
Quanto al secondo motivo di ricorso, occorre richiamare Cass. S.U. n. 8054/2014, che avuto riguardo al testo novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ha sottolineato che “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”, essendo quindi evidente che il motivo, ove anche ritenuta ammissibile la proposizione del ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non appare idoneo a denunziare l’omesso esame di un fatto decisivo.
Ma ancor più a monte rileva la stessa inammissibilità della censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che alla fattispecie risulta applicabile (trattandosi di giudizio di appello introdotto in data successiva all’11 settembre 2012) la previsione di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., che preclude la deducibilità del richiamato vizio nel caso in cui la sentenza di appello abbia confermato quella di primo grado sulla scorta delle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata.
Ne’ infine meritevole di accoglimento è il terzo motivo, atteso che l’interpretazione del giudice di merito della norma di cui all’art. 2720 c.c. risulta conforme alla costante giurisprudenza di questa Corte, potendosi aggiungere ai precedenti già richiamati nella sentenza gravata, anche quanto sostenuto da Cass. n. 2719/2009, che ha ribadito che l’atto di ricognizione previsto dall’art. 2720 c.c. presuppone l’esistenza di un documento originale contenente una valida dichiarazione, da cui derivi l’esistenza del diritto riconosciuto, e non sostituisce il titolo, costituendo solo una prova della sua esistenza; pertanto, l’applicazione di tale norma presuppone il previo accertamento dell’effettivo significato dell’atto dedotto in giudizio, valutazione riservata al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione congrua, essendo in ogni caso esclusa la possibilità di ricavare dallo stesso la prova della proprietà (cfr. Cass. n. 13625/2007, a mente della quale l’efficacia probatoria dell’atto ricognitivo, avente natura confessoria, si esplica, nei casi espressamente previsti dalla legge, soltanto in ordine ai fatti produttivi di situazioni o rapporti giuridici sfavorevoli al dichiarante. Ne consegue che a tale atto non può riconoscersi valore di prova circa l’esistenza del diritto di proprietà o (al di fuori dei casi previsti) di altri diritti reali).
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021