Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.33348 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10345-2020 proposto da:

T.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PO 22, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLO CIERVO, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCA MANDRO;

– ricorrente –

Contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (C.F. *****), in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 4421/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/10/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/07/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MASSIMO FALABELLA.

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Venezia, pubblicata il 16 ottobre 2019, con cui è stato respinto il gravame proposto da T.D. nei confronti dell’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., comma 5, del Tribunale del capoluogo veneto. La nominata Corte ha negato che avesse fondamento la domanda di protezione internazionale proposta dal detto appellante.

2. – Il ricorso per cassazione si fonda su quattro motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha notificato controricorso, ma ha depositato un “atto di costituzione” in cui non è svolta alcuna difesa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi di ricorso sono rubricati come segue.

Primo motivo: violazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e del principio di verosimiglianza delle dichiarazioni di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in relazione al punto del provvedimento in cui si rappresenta che il ricorrente non è credibile.

Secondo motivo: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione alla pronuncia sulla domanda relativa alla concessione dello status di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, sub lett. b).

Terzo motivo: violazione, falsa ed erronea interpretazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e 8 dir. 2011/95/UE, con riferimento alla domanda di concessione della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 14, lett. c).

Quarto motivo: violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte col D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018.

2. – I primi due motivi sono inammissibili.

La Corte di appello ha rilevato che il richiedente non si era confrontato con gli specifici rilievi del giudice di prima istanza in punto di illogicità e contraddittorietà della narrazione: narrazione vertente su di un sinistro stradale, in occasione del quale sarebbe morta una persona, sulle rappresaglie minacciate dai familiari di quest’ultima e su di una successiva fuga del richiedente in altra zona del Mali, presso uno zio che sarebbe deceduto in occasione di una rapina. La Corte territoriale ha osservato, in particolare, come non risultasse articolata, nella fase di gravame, “una reale critica alla ratio decidendi adottata dal Tribunale nel provvedimento gravato inerente alla non credibilità della narrazione” (sentenza impugnata, pag. 7) e come, inoltre, lo stesso istante non avesse nemmeno allegato di aver richiesto la protezione degli organi statuali (sentenza impugnata, pag. 9).

Il ricorrente, coi mezzi di censura che si sono richiamati, si duole, anzitutto, del giudizio di inattendibilità della vicenda narrata espresso dai giudici di merito, i quali avrebbero preferito “tacciare di incoerenza e di non credibilità il ricorrente, senza prima stimolare un adeguato contraddittorio circa i punti controversi della vicenda ritenuti rilevanti” (ricorso, pag. 12). E’ osservato, in particolare, che nei procedimenti di protezione internazionale, il dovere di cooperazione implica che eventuali deficienze relative all’attività dell’amministrazione possano e debbano essere colmate in sede giurisdizionale e che il dovere di cooperazione si articola attraverso la formulazione al richiedente di domande appropriate volte ad acquisire chiarimenti in relazione agli elementi poco circostanziati o contraddittori. Osserva il ricorrente che la Corte di appello avrebbe mancato di considerare: l’accusa, a lui rivolta da parte dei familiari della persona rimasta uccisa, di essere egli stesso corresponsabile della morte del loro congiunto; la concreta possibilità che esso ricorrente potesse essere arrestato e ristretto in carcere; l’impossibilità di ricevere protezione dalle autorità nazionali.

I motivi in questione non si misurano con la decisione impugnata, la quale, come si è visto, ha posto in evidenza che in appello non era stata formulata alcuna specifica censura vertente sugli elementi di contraddittorietà delle dichiarazioni dell’istante. Orbene, in tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (Cass. 10 agosto 2017, n. 19989).

Mette conto di aggiungere che, ove pure il ricorrente avesse contestato le richiamate affermazioni del Tribunale quanto alla non credibilità, egli avrebbe avuto l’onere, imposto dal principio di autosufficienza del ricorso, di indicare a questa Corte i passi dell’atto di appello che supportavano tale difesa; aspetto, questo, su cui l’impugnazione odierna non fornisce, per la verità, indicazioni.

Il ricorrente manca del resto di censurare in maniera appropriata anche altro tema specificamente affrontato nella decisione della Corte di appello: quello relativo alla mancata allegazione di una richiesta di protezione alle autorità statuali a fronte dei supposti atti integranti persecuzioni o minacce di morte; il dato della denegata tutela accordata dalla Stato assumeva incontestabile rilievo, valendo a integrare la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c). Rammentato che la proposizione del ricorso al tribunale nella materia della protezione internazionale dello straniero non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 28 settembre 2015, n. 19197; in senso conforme: Cass. 29 ottobre 2018, n. 27336; Cass. 31 gennaio 2019, n. 3016), occorre rilevare che l’istante si limita a citare, a pag. 16 del ricorso per cassazione, un passo delle proprie dichiarazioni rese avanti alla Commissione territoriale in cui era stato posto in evidenza che aveva “fatto denuncia alla polizia, ma i familiari della persona erano ricchi”: evenienza, questa, inidonea a confutare l’affermazione della Corte di appello circa la mancanza di una vera e propria allegazione, in giudizio, della richiesta di protezione.

In assenza di appropriate censure che abbiano investito, in appello, il giudizio di credibilità espresso dal Tribunale, è ovviamente da escludere che la questione possa essere riproposta in sede di legittimità. Le richiamate argomentazioni risultano, d’altro canto, prive di decisività ove pure si consideri il dato della mancata prospettazione, nel corso del giudizio di merito, di un rifiuto delle autorità statuali di offrire protezione (rifiuto che, come si è visto, assume centralità ai fini della configurabilità della persecuzione e del danno grave).

3. – Il terzo motivo, che investe il giudizio espresso dalla Corte di appello, circa l’insussistenza nella regione di provenienza del ricorrente (Kayes) di una situazione di violenza indiscriminata in presenza di conflitto armato D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), è nel complesso infondato.

Per un verso, la detta situazione costituisce oggetto di un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32064), suscettibile di essere censurato in sede di legittimità a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 21 novembre 2018, n. 30105), oltre che per assenza di motivazione (nel senso precisato da Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054): censure – queste – che il ricorrente non ha formulato. Per altro verso, non sussistono i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), nel caso in cui il pericolo di minaccia grave, derivante da violenza indiscriminata non sia presente nella regione di provenienza del richiedente, essendo tale ipotesi diversa da quella prevista dall’art. 8 della direttiva 2004/83/CE, non recepita nel nostro ordinamento, in cui il pericolo di persecuzione sussiste nel territorio di provenienza, ma potrebbe tuttavia essere evitato con il trasferimento in altra parte del territorio del medesimo paese (Cass. 24 dicembre 2020, n. 29621):

Pertanto si mostra pienamente corretta l’indagine della Corte di appello, la quale ha avuto ad oggetto la regione di provenienza del richiedente.

4. – Il quarto motivo è inammissibile.

Come è evidente, il riconoscimento della protezione umanitaria non può basarsi sulla vicenda narrata dal ricorrente, che è stata reputata non credibile. Il ricorrete mostra poi di non cogliere, nella sua precisa dimensione fattuale, il rilievo, svolto dalla Corte di appello, secondo cui dall’effettuazione di prestazioni lavorative regolarmente retribuite non era desumibile il dato dell’effettiva integrazione del ricorrente nel tessuto sociale e culturale italiano.

5. – Il ricorso è respinto.

6. – Non deve farsi luogo a pronuncia sulle spese di giudizio, essendo mancata la resistenza dell’intimato Ministero.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6a Sezione Civile, il 15 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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