LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11472-2019 proposto da:
HDI HOLDING DOLCIARIA ITALIANA S.P.A., in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI DUE MACELLI 66, presso lo studio dell’avvocato GIAMPIERO FALASCA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
N.A.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato PIER LUIGI PANICI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARGHERITA GIANNICO, GIOVANNI GIOVANNELLI;
– controricorrente –
nonché contro HDI HOLDING DOLCIARIA S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, LANZONE CINQUE S.R.L.;
– intimate –
avverso la sentenza n. 1925/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 05/02/2019 R.G.N. 122/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/07/2021 dal Consigliere Dott. PAGETTA ANTONELLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO RITA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato GIOVANNI GIOVANNELLI.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte di appello di Milano, pronunziando sugli appelli riuniti proposti da HDI Holding Dolciaria Italiana s.r.l. in liquidazione, HDI Holding Dolciaria Italiana s.p.a. e Lanzone Cinque s.r.l., ha confermato la sentenza di primo grado con la quale era stato annullato il licenziamento intimato il 26 luglio 2016 da HDI Holding Dolciaria Italiana s.r.l. in liquidazione a N.A.F. e HDI Holding Dolciaria Italiana s.p.a. condannata, quale cessionaria, alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro con decorrenza 18 aprile 2016 ed al pagamento, in solido con HDI Holding Dolciaria Italiana s.r.l. in liquidazione e Lanzone Cinque s.r.l., dell’indennità risarcitoria maturata dal giorno del licenziamento a quello della sentenza.
2. La conferma della sentenza di primo grado è stata fondata sul rilievo, assorbente rispetto a tutte le ulteriori questioni dedotte dalle società appellanti con i rispettivi atti di impugnazione, dello stato di gravidanza della lavoratrice al momento del licenziamento intimato in esito a procedura collettiva ex L. n. 223 del 1991, stato di gravidanza del quale il datore di lavoro era stato peraltro in precedenza reso edotto; non era invocabile l’ipotesi derogatoria di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b), rappresentata dalla cessazione dell’attività aziendale, posto che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, la deroga al divieto di licenziamento nel periodo di operatività dello stesso era consentita solo in presenza di cessazione dell’intera attività aziendale e non anche di un suo ramo, come in concreto avvenuto.
3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso HDI Holding Dolciaria Italiana s.p.a. sulla base di tre motivi; N.A.F. ha resistito con tempestivo controricorso; HDI Holding Dolciaria Italiana s.r.l. in liquidazione e Lanzone Cinque s.r.l. non hanno svolto attività difensiva.
4. N.A.F. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., così riqualificate le “note conclusive per la pubblica udienza”.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 4 e comma 3, lett. c), censurando la sentenza impugnata per avere interpretato le disposizioni richiamate nel senso che il divieto di licenziamento della lavoratrice madre viene meno solo nell’ipotesi di totale cessazione dell’attività aziendale e non anche nel caso di cessazione di un ramo o reparto autonomo al quale la lavoratrice era addetta.
2. Con il secondo motivo di ricorso deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’interpretazione della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4 bis; si duole in sintesi che la Corte di merito, ritenendo la questione assorbita, avesse omesso di pronunziare sul motivo di gravame incentrato sulla corretta interpretazione della disposizione in oggetto; secondo le società appellanti, infatti, la norma in esame andava interpretata nel senso che la deroga tramite accordi aziendali, consentita in ipotesi di procedura di insolvenza concernente il cedente, non era limitata alle condizioni del rapporto di lavoro trasferito ma contemplava anche la possibilità di incidere sul principio della necessaria continuità dei rapporti di lavoro facenti capo alla cedente con il soggetto cessionario.
3. Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente denunzia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’individuazione dei motivi di licenziamento; censura la sentenza impugnata per avere ritenuto assorbita la questione relativa al fatto che la ristrutturazione della forza lavoro non aveva avuto fondamento nel trasferimento di azienda ma nell’obiettivo del risanamento perseguito attraverso il tempestivo avvio della procedura di mobilità.
4. Il primo motivo di ricorso è infondato.
4.1. Al fine del corretto inquadramento della vicenda occorre premettere che HDI Holding Dolciaria Italiana s.r.l., datrice di lavoro di N.A.F., a seguito di gravi perdite di esercizio, aveva presentato domanda di ammissione a concordato preventivo sulla base di un piano che prevedeva la perdita di controllo della società da parte dell’attuale azionariato in continuità diretta ovvero della cessione dell’azienda ad una società di nuova costituzione, HDI Holding Dolciaria Italiana s.p.a., controllata da Lanzone Cinque s.r.l. quale assuntore; in tale ultimo caso a condizione che fossero attuati alcuni interventi di risanamento dell’azienda assunta, tra cui la ristrutturazione della forza lavoro; la complessiva operazione aveva comportato la vendita dell’azienda a HDI Holding Dolciaria Italiana s.p.a. con passaggio di parte dei lavoratori; HDI Holding Dolciaria Italiana s.r.l. in liquidazione aveva quindi attivato la procedura collettiva ex L. n. 223 del 1991 in esito alla quale la N.A., lavoratrice in gravidanza, era stata licenziata.
4.2. La fattispecie, per il profilo che viene in rilievo nell’esame del primo motivo di ricorso, è regolata dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, recante il “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma della L. 8 marzo 2000, n. 53, art. 15”. Tale disciplina, che deriva da quella della L. n. 1204 del 1971, art. 2, sancisce il divieto di licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza al compimento di un anno di età del figlio, con le eccezioni di cui al comma 3, tra le quali si colloca quella relativa alla “cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta”.
4.3. Il tenore testuale della norma, come già osservato da precedenti di questa Corte (Cass. 18/05/2005, n. 10391, in motivazione; Cass. 07/08/2013, n. 18810; Cass. 31/07/2013 n. 18363, e, Cass. 28/09/2017 n. 22720) ai quali si ritiene di dare continuità e che devono intendersi qui richiamati anche ai sensi dell’art. 118 disp att. c.p.c., indica che solo in caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda è possibile il collocamento in mobilità della lavoratrice madre, in quanto il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b), prevede la non applicabilità del divieto di licenziamento di cui al comma 1 nell’ipotesi chiara di “cessazione dell’attività dell’azienda” alla quale la lavoratrice è addetta e trattandosi di norma che pone un’eccezione ad un principio di carattere generale (e cioè quello fissato dall’art. 54, comma 1, di divieto del licenziamento della lavoratrice che si trovi nelle condizioni ivi specificate), essa non può che essere di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica. Tale soluzione interpretativa si impone, del resto, anche alla luce della considerazione che essa appare come quella maggiormente idonea a garantire gli interessi, anche di rilievo costituzionali, cui è finalizzata e la disciplina in tema di tutela della maternità nonché a scoraggiare possibili condotte elusive della parte datoriale che per sottrarsi agli oneri connessi al periodo di tutela potrebbe essere indotta a trasferimenti della lavoratrice presso autonome strutture aziendali destinate alla chiusura.
4.4. I precedenti di legittimità invocati da parte ricorrente, precedenti che, con riferimento alla L. n. 1204 del 1971, art. 2, avevano interpretato la locuzione “cessazione dell’attività di azienda” come estensibile alla soppressione di un ramo o reparto del tutto autonomo e salva la prova del repe’chage (Cass. 21/12/2004 n. 23684, conf. Cass. 08/09/1999, n. 9551), non appaiono persuasivi anche per un ulteriore ordine di ragioni. Come evidenziato da Cass. 22720/2017 cit., L. n. 1204 del 1971, art. 2, comma 3, seppure conteneva una previsione analoga a quella del D.Lgs. 30 dicembre 2001, n. 151, art. 54, comma 3, lett. b) al comma 4 era priva della specificazione (del divieto di collocamento in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salva l’ipotesi della cessazione dell’attività dell’azienda) introdotta dal legislatore del 2001 in funzione rafforzativa della tutela della lavoratrice madre.” La collocazione di tale previsione dopo quella relativa alla sospensione dal lavoro (“…la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l’attività dell’azienda o del reparto cui essa è addetta, sempreché il reparto stesso abbia autonomia funzionale”) costituisce un’indicazione interpretativa che porta a ritenere che quello che costituiva il parametro comune assunto dalla giurisprudenza per giungere ad assimilare l’ipotesi di cessazione dell’attività di un ramo o reparto autonomo a quella dell’intera azienda, ai fini dell’operatività delle deroga al divieto legale, non sia più validamente richiamabile per le fattispecie regolate (come quella in esame) dal D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 e che, dunque, non sia argomentabile l’estensione interpretativa prima sostenuta.”.
5. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono inammissibili.
5.1. Con tali motivi parte ricorrente denunzia omesso esame ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censurando la sentenza impugnata per omessa pronunzia questioni devolute dalle società appellanti relative alla derogabilità da parte degli accordi sindacali al principio della necessaria continuazione dei rapporti in capo alla società cessionaria dell’azienda o di un suo ramo, anche qualora, come nel caso di specie la procedura di insolvenza della cedente non abbia finalità liquidatoria ma contempli la prosecuzione dell’attività aziendale da parte del cessionario (secondo motivo) e relative alla corretta individuazione delle ragioni alla base del licenziamento (terzo motivo) contestandosi da parte delle società appellanti che esse risiedessero nel trasferimento dell’azienda e non nel suo risanamento, in conformità della previsione del piano industriale.
5.2. Secondo quanto si evince dalla relativa illustrazione i motivi in esame, pur formalmente denunziando vizio motivazionale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non sono intesi ad incrinare la ricostruzione fattuale alla base del decisum come proprio del mezzo formalmente denunziato ma si dolgono dell’omesso esame e quindi della omessa pronunzia sulle questioni richiamate, così implicitamente mostrando di far valere un vizio riconducibile all’ambito dell’error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
5.3. Essi, anche all’esito della operata riqualificazione sono inidonei alla valida censura della decisione, posto che nulla deducono né argomentano per contrastare, sotto il profilo logico-giuridico la valutazione di assorbimento del giudice di appello, laddove solo l’illogica dichiarazione di assorbimento di un motivo di appello si risolve in una omessa pronuncia censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (Cass. 30/04/2019, n. 11459), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
6. In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto.
7. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.
8. Sussistono i presupposti processuali, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento a carico di parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge. Con distrazione.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle società ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 7 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021