Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.33369 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 12492/2019 r.g. proposto da:

N.U., rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato Sergio Antonelli, con cui elettivamente domicilia in Roma, alla via Appia Nuova n. 493, presso lo studio dell’Avvocato Cristiano Guida.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso, ope legis, dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede domicilia in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto, n. cronol. 2351/2019, del TRIBUNALE DI NAPOLI depositato il 13/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/10/2021 dal Consigliere Dott. CAMPESE Eduardo.

FATTI DI CAUSA

1. N.U., nativo della Nigeria (Imo State), ricorre per cassazione, affidandosi a tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., contro il decreto del Tribunale di Napoli del 13 marzo 2019, reiettivo della sua domanda volta ad ottenere una delle forme di protezione internazionale (status di rifugiato; protezione sussidiaria; rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari). Resiste, con controricorso, il Ministero dell’Interno.

1.1. In particolare, quel tribunale ritenne: i) i fatti narrati dal richiedente, benché attendibili, comunque inidonei a giustificare le sue richieste di riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b); ii) insussistenti, nell’Imo State, in Nigeria, Paese di provenienza del ricorrente, le condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c), dell’appena menzionato D.Lgs.; iii) parimenti insussistenti fatti o accadimenti giustificativi della invocato rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I formulati motivi denunciano, rispettivamente:

1) “Violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché della L. n. 241 del 1990, art. 3 e il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 1, lett. b-bis, per il combinato disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”, censurandosi la ritenuta infondatezza, ad opera del tribunale, ed ancor prima della Commissione territoriale, della domanda volta al riconoscimento della protezione sussidiaria il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c);

2) “Violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) ed h), e art. 14, comma 1, lett. c), nonché il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per il disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, ulteriormente criticandosi il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria, per avere il tribunale, “nell’assumere la decisione gravata, colpevolmente omesso di considerare quelle parti del rapporto EASO del novembre 2018 che dimostravano sussistere le condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c)”: ciò malgrado avesse posto proprio quel rapporto a fondamento della propria decisione negativa circa la suddetta protezione;

3) “Violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonché dell’art. 25 del 2008, art. 32, comma 3, nonché del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nonché dell’art. 10 Cost., per il disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, contestandosi il diniego di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

2. Tali doglianze, scrutinabili congiuntamente perché connesse, si rivelano inammissibili, risolvendosi, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo, cui il ricorrente intenderebbe opporre, sotto la formale rubrica di violazione di legge o di vizio motivazionale, una diversa valutazione, totalmente obliterando, però, da un lato, che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non può essere mediato dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie, ma deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr. Cass. n. 16700 del 2020); dall’altro, che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (formalmente invocato dallo N. con il primo motivo), nel testo introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (e qui applicabile ratione temporis, risultando impugnato un decreto decisorio reso il 13 marzo 2019), riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 395 del 2021; Cass., SU, n. 16303 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015), sicché sono inammissibili le censure che, come nella specie, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., pure nelle loro motivazioni, ex aliis, Cass. n. 4477 del 2021; Cass. n. 395 del 2021, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).

2.1. In proposito, infatti, è sufficiente rimarcare che:

i) come reiteratamente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, il giudizio introdotto dal ricorso dell’interessato avverso il rigetto dell’istanza di protezione internazionale da parte dell’apposita Commissione non ha ad oggetto il provvedimento amministrativo, bensì il diritto soggettivo dell’istante alla protezione invocata. Infatti, la legge (D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 10) stabilisce può contenere, alternativamente, il rigetto del ricorso ovvero il riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria, e non anche il puro e semplice annullamento del provvedimento della Commissione (cfr., ex aliis, Cass. n. 7385 del 2017; Cass. n. 420 del 2012; Cass. n. 26480 del 2011);

certamente non sussiste la pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c., come prospettata nel primo motivo, atteso che il tribunale partenopeo si è pronunciato sulla domanda di protezione sussidiaria sottopostagli dallo N.. In proposito, è sufficiente ricordare che il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, medesimo codice, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto (cfr., ex multis, Cass. n. 18545 del 2020, in motivazione; Cass. n. 24830 del 2017; Cass. n. 13716 del 2016. Cfr. pure, Cass. n. 15255 del 2019, in relazione all’omesso esame di un motivo di appello), mentre, nella specie, la relativa doglianza investe la mancata valutazione di fatti e/o circostanze asseritamente poste a fondamento della domanda predetta, sicché il preteso loro mancato esame deve farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e come difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione adottata e sulla decisività dei fatti di cui sarebbe stato pretermesso l’esame;

iii) il menzionato tribunale, sul punto, ha escluso che la vicenda descritta dal ricorrente (essersi allontanato dal proprio Paese di origine “per motivi di lavoro, in quanto il padre, deceduto ad aprile del 2017, era molto anziano per lavorare…”; “essere partito per aiutare la sua famiglia e di non avere altri motivi per andare via”; “non poter fare ritorno nel suo Paese perché non potrebbe aiutare la madre, con la quale ha mantenuto i contatti e che gli ha riferito che vi sono problemi in corso per il B.”. Cfr. pag. 5 del decreto impugnato), benché credibile, fosse riconducibile ad una vicenda persecutoria suscettibile di giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato o che potesse configurare un’ipotesi di rischio di danno grave individualizzato il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b). Tali conclusioni si rivelano ampiamente coerenti con il suddetto parametro normativo, rendendo, così, irrilevante, su questi specifici aspetti, l’effettiva situazione socio politica della sua zona di provenienza. Quanto, poi, a quella stessa lett. c) del medesimo articolo, il decreto impugnato ha comunque esaminato la situazione fattuale ed operato la ricostruzione della realtà socio-politica dell’Imo State, in Nigeria, Paese di provenienza del richiedente, ha compiutamente indicato le fonti utilizzate (tra cui i Rapporti Easo del 2017 e 2018, nonché il Rapporto Amnesty International 2017/2018), da ritenersi adeguatamente aggiornate rispetto alla data (marzo 2019) di decisione della controversia, ed ha escluso che quello Stato sia caratterizzato dalla presenza di un conflitto armato (che, ricorda questo Collegio, va intesa alla stregua di quanto recentemente sancito da Cass. n. 5675 del 2021) generatore di una situazione di violenza tanto diffusa ed indiscriminata da interessare qualsiasi persona ivi abitualmente dimorante. Va solo rimarcato che, come recentemente chiarito da Cass. n. 29056 del 2019, l’eventuale omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI (country of origin information) assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché, in tal caso, l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il tribunale renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica in sede di impugnazione; sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio. Nella specie, però, non vi è prova alcuna, né è stato specificamente dedotto dal ricorrente, di aver sottoposto all’attenzione del tribunale fonti diverse da quelle richiamate da quest’ultima. E’ opportuno ricordare, infine, che l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” che sia causa, per il richiedente, di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (cfr. Cass. n. 7713 del 2020; Cass. n. 30105 del 2018);

iv) la censura attinente al diniego di protezione umanitaria, astrattamente riconoscibile ratione temporis (cfr. Cass., SU, n. 29459 del 2019), è inammissibilmente tesa a sollecitare, sul punto, una diversa valutazione fattuale rispetto a quella operata dal tribunale, il quale ha escluso la sussistenza di situazioni di vulnerabilità del ricorrente anche in rapporto alle concrete condizioni di provenienza. Nessun decisivo rilievo assume, infine, da sola, ai fini della corretta applicazione delle norme di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, l’eventuale integrazione socio-lavorativa asseritamente raggiunta dal richiedente (ma concretamente esclusa dal tribunale), posto che vige nella materia de qua il principio di diritto secondo il quale non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (cfr., nelle rispettive motivazioni, Cass., SU, n. 24413 del 2021, secondo cui “…occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano”; Cass., SU, n. 24959 del 2019. Cfr. anche Cass. n. 24104 del 2021, secondo cui “…lo svolgimento di attività lavorativa nel nostro Paese, da solo, non costituisce una ragione sufficiente per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per più ragioni: i) perché la legge non stabilisce alcun automatismo tra lo svolgimento in Italia di attività lavorativa e la sussistenza di una condizione di “vulnerabilità”; il) perché il permesso di soggiorno per motivi umanitari è una misura temporanea, mentre lo svolgimento di attività lavorativa, in particolare a tempo indeterminato, legittimerebbe un permesso di soggiorno sine die; iii) perché la “vulnerabilità” richiesta ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, non può ravvisarsi nel mero rischio di regressione a condizioni economiche meno favorevoli (ex multis, Sez. 1, Ordinanza n. 17832 del 3.7.2019; Sez. 1, Ordinanza n. 17287 del 27.6.2019). Lo svolgimento di attività lavorativa in Italia, per contro, può essere solo uno dei fattori indizianti che, valutati unitamente a tutte le altre circostanze del caso concreto, può dimostrare la sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo…”). A tanto deve solo aggiungersi che, come condivisibilmente affermato da Cass. n. 24904 del 2020, “in tema di protezione umanitaria, la condizione di vulnerabilità che legittima il rilascio del permesso di soggiorno di cui alla L. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, non comprende quella di svantaggio economico o di povertà estrema del richiedente asilo, perché non è ipotizzabile un obbligo dello Stato italiano di garantire ai cittadini stranieri parametri di benessere o di impedire, in caso di rimpatrio, l’insorgere di gravi difficoltà economiche e sociali”. Inoltre, la situazione del Paese di origine prospettata in termini generali ed astratti, come nel caso di specie, e’, di per sé, inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (cfr. Cass. n. 17787 del 2021, in motivazione);

v) il diritto di asilo è interamente attuato e regolato, attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, adottato in attuazione della Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, e di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Ne consegue che non vi è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi abbia diritto all’esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione (cfr. Cass. n. 19176 del 2020).

3. Il ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile, restando le spese di questo giudizio di legittimità regolate dal principio di soccombenza, dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna N.U. al pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 29 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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