Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.33392 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. LEO giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2974-2020 proposto da:

O.P., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato CHIARA BELLINI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI VERONA – SEZIONE DI PADOVA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5130/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 19/11/2019 R.G.N. 4660/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/07/2021 dal Consigliere Dott. ESPOSITO LUCIA.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Venezia, con sentenza n. cronol. 5130/2019, depositata il 19/11/2019, ha confermato il provvedimento di primo grado che aveva respinto la richiesta di O.P., proveniente dalla Nigeria, di riconoscimento, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, dello status di rifugiata e della protezione sussidiaria o umanitaria. In particolare, i giudici di merito hanno ritenuto non credibile e priva di alcun genere di elementi di riscontro la vicenda narrata dalla richiedente, rilevando, inoltre, che “ogni valutazione in punto di sussistenza dei presupposti di legge dell’invocata protezione implica, a monte, e in ogni caso, la prova, o apprezzabile principio di prova, in punto di incapacità dello Stato di provenienza di preservare l’incolumità del richiedente”.

2. Quanto alla protezione sussidiaria, conducendo l’esame in riferimento alla regione di provenienza della richiedente (Edo State), osservavano che, sulla base delle fonti aggiornate e qualificate, non sussisteva una situazione di violenza indiscriminata non controllabile dall’autorità statale.

3. Avverso la suddetta pronuncia O.P. proponeva ricorso per cassazione, affidato tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiarava di costituirsi al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione delle norme che disciplinano i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria: D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g, artt. 5, 7 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6 e art. 19, comma 1, D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, lett. c-ter, osservando che i giudici avevano violato il potere-dovere di cooperazione istruttoria ufficiosa, minimizzando dichiarazioni precise ed esaurienti, in base a valutazioni fondate su principi etici e socio culturali non corrispondenti a quelli dell’ambiente di provenienza vicenda raccapricciante puntualmente descritta dalla richiedente (la quale avrebbe lasciato la Nigeria perché, dopo il suicidio del padre avvenuto a seguito del processo a cui costui e la ricorrente erano stati sottoposti dal capo religioso del villaggio per sapere se tra i due vi fosse una relazione incestuosa dalla quale era nata una figlia, ella aveva confessato che il padre, dopo la morte della madre avvenuta quando lei aveva tre anni, aveva abusato sessualmente di lei fino a farla rimanere incinta: per questo il capo religioso l’aveva condannata a ballare nuda per una settimana attorno a villaggio e poi all’infibulazione).

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione, anche quale vizio di motivazione, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. a), e), in punto di onus probandi, cooperazione istruttoria e criteri normativi di valutazione degli elementi di prova e delle dichiarazioni resa di richiedenti.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione del principio del “non refoulement” di cui agli artt. 3 CEDU e 33 Convenzione di Ginevra, rilevando che lo straniero che, indipendentemente dall’origine della persecuzione, si trovasse, se respinto o espulso, nella condizione di subire la tortura o pene o trattamenti disumani o degradanti, ha un diritto intangibile in forza delle invocate norme a non essere espulso o respinto.

4. Il ricorso, nel suo complesso, è fondato, per quanto di ragione. In base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, infatti, la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere affidata alla mera opinione del giudice ma deve essere il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiere non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e tenendo conto “della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente” (di cui al D.Lgs. cit., art. 5, comma 3, lett. c)), senza dare rilievo esclusivo e determinante a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati del racconto (Cass. 14 novembre 2017, n. 26921; Cass. 25 luglio 2018, n. 19716; Cass. 7 febbraio 2020, n. 2956 e ivi ampi richiami di giurisprudenza); solo sulla base di un esame effettuato nel modo anzidetto, le dichiarazioni del richiedente possono essere considerate inattendibili e come tali non meritevoli di approfondimento istruttorio officioso.

3. Ne deriva che se tale valutazione non discende da un esame effettuato in conformità con i criteri stabiliti dalla legge, è denunciabile in cassazione – con riguardo all’esame medesimo – la violazione delle relative disposizioni (come accade nella specie), la cui sussistenza viene ad incidere “a monte” sulle premesse della valutazione di non credibilità, travolgendola non per ragioni di fatto ma di diritto (Cass. n. 14674 del 09/07/2020).

4. Nella specie i giudici di merito (e, in particolare, la Corte, mediante rinvio alla sentenza di primo grado) hanno escluso la credibilità soggettiva del ricorrente sottolineando che “la descrizione del rapporto col padre come una relazione naturale, quasi neutra, senza traumi e senza problemi psicologici non è attendibile, poiché la dichiarante aveva dei famigliari, frequentava la scuola e certamente doveva comprendere, quantomeno quando aveva 18 anni, che il rapporto sessuale con il genitore non era una condizione ordinaria e normale, anche perché suo padre le aveva raccomandato di mantenere segreto il loro rapporto”.

5. La suddetta valutazione di non credibilità soggettiva della richiedente risulta fondata su un esame delle sue dichiarazioni effettuato in modo difforme da come previsto dalla legge e, in particolare, dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, in quanto in essa, senza alcun approfondimento istruttorio e senza dare rilievo a tutti gli aspetti significativi esposti nella domanda della ricorrente, sono state omesse non solo la contestualizzazione del narrato nell’ambiente soci culturale di provenienza ma anche la valutazione delle implicazioni psicologiche, che, a prescindere dal contesto ambientale, discendono dalla violenza psicologica conseguente a comportamenti inveterati posti in essere in situazioni familiari degradate.

6. Allo stesso modo risulta incongrua la considerazione della Corte territoriale, a sua volta carente di verifica ed approfondimento istruttorio con riferimento alla situazione specificamente rilevante nel caso in esame, secondo cui “ogni valutazione in punto di sussistenza dei presupposti di legge dell’invocata protezione implica, a monte, e in ogni caso, la prova, o (Ndr: testo originale non comprensibile) apprezzabile principio di prova, in punto di incapacità dello Stato di provenienza di preservare l’incolumità del richiedente”, incombendo al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto, in relazione alle pene degradanti minacciate (si veda Cass. n. 19716 del 2018 e, con riferimento all’indagine sull’obbligatorietà o meno della pratica dell’infibulazione nel Paese di origine della ricorrente e alla circostanza che la stessa sia ampiamente imposta da un costume sociale cogente in quel Paese, Cass. 29836/2019).

8. Il deficit valutativo evidenziato si riverbera anche sulla valutazione delle specifiche condizioni per l’eventuale, subordinata, concessione della protezione umanitaria.

9. Conseguentemente la sentenza deve essere cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, che effettuerà l’indagine secondo i parametri indicati, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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