Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.33393 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4550-2020 proposto da:

S.S., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA MONICA BASSAN;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona – Sezione di Vicenza, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 2917/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 12/07/2019 R.G.N. 2516/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/07/2021 dal Consigliere Dott. PONTERIO CARLA.

RILEVATO IN FATTO

che:

1. La Corte d’appello di Venezia ha respinto l’appello proposto da S.S., cittadino del Gambia, avverso l’ordinanza del Tribunale che, confermando il provvedimento emesso dalla competente Commissione Territoriale, aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

2. Il richiedente aveva allegato di essere fuggito dal Gambia perché, in seguito alla sua conversione al cristianesimo sollecitata dalla frequentazione dei compagni di scuola, era stato minacciato dallo zio che gli aveva intimato di lasciare l’abitazione dei genitori defunti; che lo zio ed alcuni cugini si erano recati a casa sua armati di bastoni e lo avevano picchiato; che egli per fuggire aveva colpito una cugina che bloccava l’uscita e poi aveva saputo da un amico che questa cugina era deceduta e che era anche incinta. Temeva quindi che, in caso di rimpatrio, sarebbe stato accusato di duplice omicidio, messo in prigione e torturato.

3. La Corte d’appello ha ritenuto il racconto del ricorrente generico e inverosimile, non supportato da alcuna documentazione; ha sottolineato come lo stesso richiedente, dinanzi al Tribunale, aveva ammesso di non aver detto la verità dinanzi alla Commissione “relativamente al contratto di cessione della casa”.

4. Ha quindi negato l’esistenza dei presupposti per lo status di rifugiato e per la protezione sussidiaria, rilevando sotto quest’ultimo profilo come, secondo il “Report by the UN Secretary General on development in West Africa and the Sahel States between 1 st. January and 30th of lune 2017”, non risultasse l’esistenza nella zona di Aljamdou e di Kombo di una situazione di violenza generalizzata o di conflitto armato o infine di anarchia senza controllo delle autorità.

5. Ha negato la protezione umanitaria osservando come il ricorrente nulla avesse dedotto in merito all’avvio di un percorso di integrazione socio culturale nel nostro Paese.

6. Ha revocato l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato sul rilievo che l’appello fosse stato proposto nella consapevolezza della sua totale infondatezza.

7. Avverso tale sentenza il richiedente la protezione ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

8. Il Ministero dell’Interno si è costituito al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

9. Col primo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per carenza di motivazione in merito alla valutazione di credibilità del ricorrente.

10. Il motivo è fondato.

11. La Corte territoriale ha omesso di articolare la valutazione di credibilità del richiedente in relazione a ciascuno dei parametri di attendibilità rilevanti ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, omettendo di applicare i canoni legali di interpretazione delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale e di rispettare la struttura “procedimentale” e “comprensiva” del ragionamento argomentativo imposto ai fini del controllo di quelle dichiarazioni, e tale omissione rileva sotto il profilo della violazione di legge (v. Cass. n. 151 del 2021), dovendo in tal senso essere riqualificata la censura mossa.

12. La Corte di merito si è limitata ad una valutazione di genericità e inverosimiglianza del racconto, anche perché non supportato da alcuna documentazione (si definisce non verosimile la pretesa dello zio in merito alla casa paterna e sproporzionata la reazione del richiedente nel colpire la cugina), in tal modo sostituendo alla procedimentalizzazione legale, considerazioni meramente personali e soggettive, senza peraltro indagare sulla verosimiglianza di simili episodi nel Paese di provenienza del ricorrente.

13. Col secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3 e art. 14, lett. b) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis, per il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria.

14. Si sostiene che la Corte d’appello, rispetto alla vicenda narrata e relativa a minacce da parte organi non statuali e specificamente da parte di gruppi familiari, debba indagare se il Paese di provenienza sia dotato di un sistema giuridico e di organi in grado di assicurare adeguati livelli di protezione (vedi pag. 9 e 10). Si citano inoltre una serie di fonti informative sulle condizioni delle carceri nel Paese di provenienza, ove il ricorrente subirebbe trattamenti inumani e degradanti.

15. Il motivo è fondato in quanto la sentenza impugnata, prescindendo dalla espressa valutazione di non credibilità, ha escluso la sussistenza dei requisiti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), per la “mancata prospettazione del rischio di subire la condanna a morte o l’esecuzione della pena di morte o di essere sottoposto a tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante nel suo Paese d’origine” (pag. 5 della sentenza), benché vi fosse uno specifico motivo di appello sul punto (v. pag. 3 della sentenza) e senza svolgere alcuna indagine.

16. Sul primo profilo oggetto del motivo di ricorso, questa Corte ha anche recentemente ribadito (v. Cass. n. 1343 del 2020) che “In tema di protezione internazionale dello straniero, anche gli atti di vendetta e ritorsione minacciati o posti in essere da membri di un gruppo familiare che si ritiene leso nel proprio onore a causa di una relazione esistente o esistita con un membro della famiglia, sono riconducibili, in quanto lesivi dei diritti fondamentali sanciti in particolare dagli artt. 2,3 e 29 Cost. e dall’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, all’ambito dei trattamenti inumani o degradanti considerati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 lett. b), ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sicché è onere del giudice verificare in concreto se, in presenza di minaccia di danno grave ad opera di soggetti non statuali, ai sensi dell’art. 5, lett. c) del decreto citato, lo Stato di origine del richiedente sia in grado o meno di offrire al soggetto vittima di tali atti una adeguata protezione” (nello stesso senso v. Cass. n. 26823 del 2019; n. 12333 del 2017; n. 25463 del 2016).

17. I giudici di appello non si sono attenuti a tali principi e non hanno per niente adempiuto all’onere di verificare la capacità dello Stato di origine del richiedente di offrire al medesimo una adeguata tutela contro il rischio di vendette e ritorsioni provenienti dal proprio o da altri gruppi familiari o, comunque, da gruppi non statuali.

18. Sul secondo profilo, è stato più volte precisato che, ai fini del riconoscimento della misura della protezione sussidiaria, il grave danno alla persona, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), può essere determinato dalla sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti con riferimento alle condizioni di detenzione e, al riguardo, il giudice è tenuto a fare uso del potere-dovere d’indagine previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, che impone di procedere officiosamente all’integrazione istruttoria necessaria al fine di ottenere informazioni precise sull’attuale condizione generale e specifica del Paese di origine (Cass. n. 16411 del 2019).

19. L’accertamento del rischio di sottoposizione alla pena di morte o quello di subire trattamenti inumani o degradanti nelle carceri non può essere, infatti, ignorato dal giudice nazionale (cfr. Cass. 20.9.2013 n. 21667) in conformità con la consolidata giurisprudenza della Corte EDU, secondo la quale l’eventuale messa in esecuzione di un ordine di espulsione di uno straniero verso il paese di appartenenza può costituire violazione dell’art. 3 CEDU, relativo al divieto di tortura, quando vi sono circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio reale che lo straniero subisca in quel Paese trattamenti contrari proprio all’art. 3 della Convenzione, essendo irrilevante il tipo di reato di cui è ritenuto responsabile il soggetto da espellere, poiché dal carattere assoluto del principio affermato dal citato art. 3 deriva l’impossibilità di operare un bilanciamento tra il rischio di maltrattamenti ed il motivo invocato per l’espulsione (per tutte Corte CEDU sent. 28.2.2008 e Cass. 22.2.2019 n. 5358).

20. La suddetta questione può rilevare anche sotto l’aspetto della protezione umanitaria che, infatti, come prevista dal D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6, (applicabile ratione temporis: Cass. Sez. Un. 13.11.2019 n. 29460), è una misura atipica e residuale, nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione o debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. n. 32044 del 2018; Cass. n. 23604 del 2017).

21. Nel caso in esame, i giudici di appello hanno escluso che ricorressero i requisiti di cui all’art. 14, lett. a) e b) cit., senza previamente adempiere all’obbligo di cooperazione istruttoria sulla capacità del Paese d’origine del richiedente di assicurare protezione contro minacce di organi non statuali e sulle condizioni di detenzione nel Paese di provenienza per chi sia accusato di gravi reati.

22. Col terzo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in relazione all’art. 3, comma 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007) ovvero in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. h-bis (protezione speciale o in casi speciali ex D.I. n. 113 del 2008 e successive modifiche) per mancata valutazione della situazione del Paese di origine del richiedente ai fini del riconoscimento dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

23. Si sostiene che la Corte di merito abbia omesso di svolgere il necessario vaglio comparativo, alla luce di fonti aggiornate e attendibili che aveva il dovere di acquisire, sulla vulnerabilità connessa alla violazione dei diritti fondamentali in ipotesi di rimpatrio, anche in ragione delle condizioni di carcerazione in Gambia.

24. Il motivo è assorbito dall’accoglimento dei primi due motivi di ricorso.

25. Per le ragioni esposte, accolti i primi due motivi di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 14 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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