Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.33405 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22644-2020 proposto da:

V.G., rappresentato e difeso dall’avv. FRANCESCO LAURETTA;

– ricorrente –

contro

VA.GI., V.S., V.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA RUBICONE 27, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE TEDESCHI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALFONSO TEDESCHI;

VA.GU., rappresentato dall’avv. FRANCESCO ATIANASIO;

– controricorrenti –

V.M., VA.AN.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1804/2020 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 20/05/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 24/06/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO.

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Per quanto interessa in questa sede, la Corte d’appello di Napoli ha definito la causa ereditaria fra i fratelli Varone, relativa alla duplice successione dei genitori Va.Sa. e D’.Ro.; la Corte di merito ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale: a) era stata dichiarata la nullità del testamento olografo di Va.Sa. e l’autenticità della disposizione testamentaria di D’.Ro., rispettivamente padre e madre delle parti in causa; b) era stata inoltre dichiarata l’inefficacia della scrittura privata del *****, che era stata fatta valere nel giudizio da V.G., il quale pretendeva, sulla base di essa, che fossero esclusi dalla divisione i beni oggetto della stessa scrittura; c) era stata operata la divisione del compendio ereditario fra le parti in causa; d) era stata infine rigettata l’eccezione di usucapione sollevata dal medesimo V.G., in relazione a porzione immobiliare proveniente dalla successione del padre, essendo la parte richiedente detentore in forza di comodato.

Per la cassazione della sentenza V.G. ha proposto ricorso affidato a un unico motivo, (rubricato “Vizio di motivazione; erronea ricognizione di una fattispecie concreta”), con il quale si duole del rigetto della propria eccezione di usucapione, che era stata tempestivamente proposta; si duole inoltre della conferma, in grado d’appello, della statuizione del primo giudice sulla inefficacia della scrittura del *****.

Hanno resistito con unico controricorso Va.Gi., V.A. e V.S.; ha resistito con separato controricorso Va.Gu..

La causa è stata fissata dinanzi alla Sesta sezione civile della Suprema su conforme proposta del relatore di inammissibilità del ricorso.

I controricorrenti hanno depositato memoria.

Il ricorso è inammissibile.

Il ricorrente sembra dolersi del fatto che la Corte d’appello, nel verificare il titolo del suo potere di fatto sulla cosa, non abbia tenuto conto del testamento paterno, dichiarato apocrifo in un secondo momento. La deduzione sembra intesa a sostenere che il potere di fatto, esercitato sulla cosa dall’attuale ricorrente, dovesse qualificarsi come possesso in quanto giustificato da un titolo idoneo ad attribuire la proprietà, quanto meno a partire dalla data della morte del genitore. Ma sotto questo profilo il ricorrente non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, nella quale si mette in luce che, dalla data della morte a quella di introduzione del giudizio da parte del coerede, era trascorso un tempo inferiore a quello occorrente per l’acquisto a titolo originario del diritto: tale statuizione, idonea da sola a giustificare il rigetto della eccezione, non ha costituito oggetto di censura. Costituisce principio acquisito che “quando la sentenza assoggettata ad impugnazione sia fondata su diverse rationes decidendi, ciascuna idonea a giustificarne autonomamente la statuizione, la circostanza che tale impugnazione non sia rivolta contro una di esse determina l’inammissibilità del gravame per l’esistenza del giudicato sulla ratio decidendi non censurata, piuttosto che per carenza di interesse” (Cass. n. 13880/2020).

In verità il ricorrente pretende di stabilire il termine finale del possesso utile non nella data di introduzione del giudizio di divisione, ma dalla della sentenza che ha dichiarato apocrifo il testamento. La deduzione, però, si atteggia quale petizione di principio. Non si propone alcun argomento inteso a dimostrare l’errore in cui sarebbe era incorsa la Corte d’appello nel ritenere il supposto possesso interrotto a far tempo dalla data di introduzione della causa da parte del coerede (Cass., sez. un., n. 8777/2021).

Il ricorrente si duole ancora delle considerazioni della Corte di merito nella parte in cui questa ha dubitato della tempestività della propria iniziativa volta a far valere l’usucapione. Ma, in questo caso, la censura si dirige contro un semplice passaggio argomentativo della decisione, proposto dalla Corte d’appello per inciso, rimasto privo di qualsiasi incidenza sulla decisione. Infatti, l’eccezione di usucapione non è stata dichiarata inammissibile, ma è stata rigettata nel merito, perché ritenuta infondata. Si sa che la censura che investa una considerazione della sentenza impugnata che non abbia spiegato alcuna rilevanza sul dispositivo è inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 10420/2005; n. 8087/2007).

Con il motivo in esame il ricorrente si duole ancora perché la Corte di merito ha confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui era stata dichiarata l’inefficacia della scrittura del 13/04/1984.

Anche tale ulteriore censura è palesemente inammissibile.

E’ invero noto che i motivi del ricorso per cassazione devono essere formulati, secondo i principi consolidati enunciati da questa Corte, in modo che essi rientrino in una delle figure dell’art. 360 c.p.c., essendo il ricorso per cassazione ancorato rigidamente ad uno dei cinque vizi del provvedimento impugnato, cui ciascuna doglianza deve poter essere agevolmente ricondotta; ogni motivo deve essere autosufficiente, ossia intellegibile da solo, senza il ricorso ad elementi esterni. Il ricorrente, quindi, ha l’onere di indicare puntualmente, a pena di inammissibilità, le norme asseritamente violate e l’esatto capo della pronunzia impugnata, prospettando altresì le argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, siano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie, secondo l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni (Cass., sez. un., n. 8777/2021; n. 25392/2019; Cass. n. 287/2016; Cass. n. 16760/2015); ove rilevanti, inoltre, vanno indicati anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione, ai fini di consentire alla Corte la corretta sussunzione del fatto nelle norme che si assumono violate o erroneamente applicate (Cass. n. 16872/2014; Cass. n. 15910/2005).

Nulla di tutto questo nel ricorso così come proposto dal V.G., il quale su tale contenuto della decisione così si esprime: “Anche in riferimento alla scrittura del ***** è opportuno ribadire, le osservazioni di legittimità già sollevate in sede di giudizio e mai adeguatamente affrontate con la sentenza d’appello”. Fatta tale premessa il ricorrente trascrive le deduzioni operate in appello; quindi fa seguire alla trascrizione la seguente considerazione: “Per quanto sopra, la sentenza impugnata merita le indicate censure”.

E’ fin troppo chiaro che tale perentoria e immotivata affermazione non è idonea, secondo i principi sopra richiamati, a fondare un’idonea censura proponibile in cassazione.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente, al pagamento, in favore dei controricorrenti Va.Gi., V.A. e V.S. delle spese del giudizio, che liquida nell’importo di Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; condanna altresì il ricorrente, al pagamento, in favore del controricorrente Va.Gu., delle spese del giudizio, che liquida nell’identico importo di 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 24 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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