LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FERRO Massimo – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 32361/2020 R.G. proposto da:
J.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Migliaccio, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 919/20 depositata il 7 maggio 2020.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 5 ottobre 2021 dal Consigliere Guido Mercolino.
RILEVATO
che J.G., cittadino del Gambia, ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, illustrati anche con memoria, avverso la sentenza del 7 maggio 2020, con cui la Corte d’appello di Firenze ha rigettato il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa il 10 luglio 2018 dal Tribunale di Firenze, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;
che il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.
CONSIDERATO
che è inammissibile la costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, dal momento che nel procedimento in Camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione il concorso delle parti alla fase decisoria deve realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835);
che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, commi 3 e 5, e art. 14, lett. b), del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, degli artt. 5, 6 e 13 CEDU, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, art. 47 e della Dir. n. 2013/32/UE, art. 46, sostenendo che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, la sentenza impugnata ha omesso di valutare la situazione del Gambia e di esaminare le dichiarazioni da lui rese e la documentazione prodotta, avendo dato atto dell’intervenuto miglioramento delle condizioni carcerarie, in contrasto con le informazioni desumibili dalle fonti internazionali, e non avendo verificato, attraverso l’utilizzazione dei canali diplomatici, l’esistenza di un procedimento penale e l’eventuale emissione di una condanna a carico di esso ricorrente per i fatti riferiti;
che il motivo è inammissibile;
che, a fondamento del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, la Corte territoriale ha addotto due distinti ordini di considerazioni, riflettenti rispettivamente la mancata impugnazione dell’ordinanza di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto infondato il timore di essere arrestato e processato per reati connessi alla vicenda riferita, e l’intervenuto miglioramento delle condizioni carcerarie del Gambia, desumibile da un rapporto di Amnesty International relativo all’anno 2018;
che, in quanto imperniate sull’inadempimento del dovere di cooperazione istruttoria, le censure riguardanti l’accertamento dei fatti allegati non attingono la ratio della statuizione impugnata, la quale si è limitata a dare atto del giudicato formatosi in ordine all’implausibilità del rischio prospettato a sostegno della domanda, per effetto della mancata impugnazione della decisione di primo grado, correttamente astenendosi dal procedere al riesame della predetta questione;
che, nell’insistere sulle condizioni disumane del sistema carcerario del Gambia, il ricorrente richiama in parte fonti d’informazione diverse dal rapporto indicato nella sentenza impugnata, ma non riguardanti specificamente la predetta questione, in parte lo stesso rapporto di Amnesty International, in tal modo sollecitandone una nuova valutazione, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il materiale probatorio acquisito agli atti, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal riguardo dal giudice di merito, cui sono demandati in via esclusiva l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, il controllo della loro attendibilità e concludenza e la scelta, tra le complessive risultanze del processo, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. VI, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547; Cass., Sez. lav., 14/11/2013, n. 25608);
che con il secondo motivo il ricorrente deduce l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, osservando che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, la sentenza impugnata si è limitata a valutare il livello d’integrazione lavorativa da lui raggiunto in Italia, senza tener conto della situazione generale del suo Paese di origine, del lungo viaggio da lui compiuto prima di giungere in Italia, delle vicende affrontate nel corso del soggiorno in Libia e del periodo di tempo ormai trascorso dall’espatrio;
che il motivo è infondato;
che l’omessa valutazione della situazione generale del Gambia trova infatti giustificazione nel consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’accertamento della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria dev’essere ancorato ad una valutazione individuale, da condursi caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale in cui versava prima dell’allontanamento dal paese di origine ed alla quale si troverebbe nuovamente esposto in conseguenza del rimpatrio, prendendosi altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il paradigma normativo del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 28/06/2018, n. 17072; Cass., Sez. I, 23/02/2018, n. 4455);
che, inoltre, la protezione umanitaria non può essere accordata automaticamente per il solo fatto che il richiedente abbia subito violenze o maltrattamenti nel paese di transito, dal momento che, dovendo il rimpatrio essere disposto verso il Paese di origine (o verso quello di dimora abituale, ove si tratti di un apolide), è in riferimento a quest’ultimo che occorre accertare l’esposizione del richiedente al rischio di persecuzioni o danni gravi (cfr. Cass., Sez. III, 5/06/2020, n. 10835; Cass., Sez. I, 6/12/2018, n. 31676; Cass., Sez. VI, 20/11/2018, n. 29875);
che, nel dolersi dell’omessa valutazione del lungo viaggio da lui affrontato per giungere in Italia e del tempo trascorso dall’epoca dell’espatrio, il ricorrente sollecita infine un riesame, non consentito a questa Corte, dell’apprezzamento relativo alla possibilità di reinserirsi utilmente nel contesto sociale ed economico di provenienza, compiuto dalla sentenza impugnata attraverso il riferimento alla persistenza di legami familiari con il Paese di origine ed all’attività lavorativa svolta dal ricorrente prima dell’allontanamento dal Gambia;
che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021