Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.33515 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24081-2019 proposto da:

COMUNE DI BUONALBERGO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PODESTI, 4, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO FORMICONI, rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTO PROZZO;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA ***** – SOC. COOP. A R.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PAOLO EMILIO 57, presso lo studio dell’avvocato MARCO SERRA, rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTO MAGGIORI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2697/2019 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 30/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del 24/06/2021 dal Consigliere Dott. TEDESCO GIUSEPPE.

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Nella controversia fra il Comune di Buonalbergo e il Fallimento ***** Soc. coop. a r.l., in cui si discuteva, fra l’altro, del diritto del Fallimento di ottenere l’indennizzo per i miglioramenti apportati a un appezzamento di terreno, a seguito della risoluzione del contratto con il Comune ne aveva trasferito la proprietà all'***** in bonis, la Corte d’appello di Roma accoglieva la domanda, condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 127.562,92.

Contro la sentenza il Comune proponeva ricorso per cassazione, affidato a un unico motivo, con il quale lamentava la violazione e falsa applicazione dell’art. 1150 c.c. Il ricorrente sosteneva che il diritto del possessore al pagamento dell’indennizzo, riconosciuto dall’art. 1150 c.c., ha come presupposto la sussistenza dei miglioramenti al momento della restituzione della cosa. Si rimproverava alla Corte d’appello di avere sovrapposto due piani diversi: la domanda, volta al conseguimento dell’indennizzo, è sicuramente proponibile già nel giudizio nel quale di risoluzione del titolo; tuttavia essa non può essere accolta se il possessore, come nel caso in esame, sia ancora nel possesso dell’immobile, non avendolo restituito al proprietario.

La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso.

Avverso la sentenza di rigetto il Comune propone ricorso per revocazione, con il quale si sostiene che la Suprema Corte ha definito la causa presupponendo che la controversia avesse per oggetto l’indennità spettante all’affittuario nell’ambito di un rapporto agrario disciplinato dalla L. n. 203 del 1982. Diversamente, nella specie, la controversia riguardava il diritto del possessore all’indennità per i miglioramenti ex art. 1150 c.c. L’errore di fatto sarebbe reso palese del richiamo dei precedenti, operato dalla Suprema corte al fine di giustificare al decisione. Tali precedenti, infatti, si riferiscono al rapporto fra proprietario e affittuario del fondo nell’ambito di un rapporto agrario, laddove, nel caso in esame, la causa riguardava le conseguenze della risoluzione di un contratto traslativo.

La Curatela del Fallimento ***** ha resistito con controricorso.

La causa è stata fissata dinanzi alla Sesta sezione civile della Suprema Corte su conforme proposta del relatore di inammissibilità del ricorso. Il ricorrente ha depositato memoria.

Il ricorso è inammissibile.

Non è vero che la Corte di cassazione abbia definito la lite supponendo che controversia sottoposta al suo esame avesse ad oggetto un rapporto agrario. Nel provvedimento, infatti, la ragione di censura è univocamente identificata nella denunciata violazione dell’art. 1150 c.c. e in termini esattamente coincidenti con quelli assunti dal Comune nel ricorso per revocazione. Si legge nella sentenza della Suprema Corte oggetto dell’istanza di revocazione: “Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1150 c.c. perché la sentenza impugnata non terrebbe conto del fatto che il Fallimento non ha ancora restituito l’immobile. Di conseguenza, ad avviso del ricorrente, non si può configurare un diritto del possessore all’indennità per le migliorie, perché per determinare tale indennità occorre tenere conto delle condizioni del bene al momento della sua riconsegna materiale”. E’ anche vero che, poi, la Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, in applicazione del principio di diritto secondo cui “Il diritto all’indennità per i miglioramenti apportati al fondo, spettante all’affittuario ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 17, comma 2, ha carattere risarcitorio, in quanto sostituisce la diminuzione al patrimonio del medesimo derivante e, pertanto, sulla stessa compete la rivalutazione monetaria, occorrendo determinare il valore dell’incremento conseguito dal fondo con riferimento alla data di cessazione del contratto, sicché non rilevano gli eventi successivi, quali il degrado sopravvenuto tra la data di cessazione del rapporto e quella successiva della riconsegna” (Cass. n. 6964/2007).

Così identificato il contenuto della decisione, in coordinazione con la ragione di censura, il Collegio condivide e fa propria la proposta del relatore. Non è denunciato, infatti, un errore revocatorio, ma il fatto che la Suprema Corte, dopo avere identificato correttamente i termini della fattispecie sottoposta al suo esame, l’avrebbe poi decisa in applicazione di un principio di diritto non pertinente: il che, appunto, costituisce, in ipotesi, errore di giudizio e non errore di fatto, secondo la nozione di questo quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “L’istanza di revocazione di una sentenza della Corte di cassazione, proponibile ai sensi dell’art. 391 c.p.c., implica, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, e che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso su cui il giudice si sia pronunciato. L’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio” (Cass. n. 22171/2010; n. 442/2018).

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002 ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente, al pagamento, in favore del controricorrente delle spese del giudizio, che liquida nell’importo di Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro, 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 24 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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