LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21749-2020 proposto da:
C.A., rappresentati e difesi dall’Avvocato GIOVANNI DI SALVO per procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.G., rappresentata e difesa dall’Avvocato SABRINA PUGLIA per procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la SENTENZA n. 796/2020 della CORTE D’APPELLO DI PALERMO, depositata il 22/5/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/6/2021 dal Consigliere Dott. DONGIACOMO GIUSEPPE.
FATTI DI CAUSA
Il tribunale, con sentenza del 7/7/2015, ha dichiarato risolto il contratto stipulato tra il committente C.A. e l’appaltatore B.G. avente ad oggetto l’esecuzione da parte di quest’ultimo di opere e manufatti destinati alla ristrutturazione di locali del primo, che ha condannato al pagamento della somma di Euro 44.543,16, oltre IVA, per le opere eseguite.
C.A. ha proposto appello, deducendo che: – non v’era la prova che le opere rinvenute presso il negozio del B. fossero riferibili al contratto d’appalto stipulato tra le parti o che comunque fossero state eseguite in epoca precedente alla risoluzione; – la risoluzione era stata dichiarata in violazione dell’art. 112 c.p.c., non essendo stato oggetto di domanda il diritto di recesso ma solo ma valutazione dell’inadempimento; – la violazione degli artt. 1458 e 1671 c.c., per avere il tribunale applicato la disciplina in materia di appalto piuttosto che quella dell’art. 1454 c.c..
B.G. ha resistito al gravame e ne ha chiesto il rigetto.
La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello.
La corte, in particolare, dopo aver affermato che non era contestato che tra le parti esisteva un contratto d’appalto per la fornitura di mobili e arredi e la ristrutturazione con opere edili dei locali di proprietà del C. e che pure l’appellante aveva riconosciuto che dopo mesi dalla stipula non aveva dato esecuzione al contratto, addirittura completando l’arredo del suo locale con un’altra impresa, ha ritenuto: – innanzitutto, che il tribunale, nell’ambito di una valutazione dell’inadempimento, che ha evidentemente escluso, avesse correttamente riconosciuto al C. il diritto di recesso previsto dall’art. 1671 c.c. e all’appaltatore il conseguente diritto “al ristoro… dei pregiudizi economici subiti in esito all’unilaterale recesso del committente”; – in secondo luogo, che, una volta provata l’esistenza delle opere, che sono state valutate secondo le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, il tribunale avesse altrettanto correttamente accolto la domanda proposta dal B. nella misura indicata in sentenza.
La corte, quindi, ha rigettato l’appello, condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite.
C.A., con ricorso notificato il 3/8/2020, ha chiesto, per un motivo, la cassazione della sentenza.
B.G. ha resistito con controricorso notificato il 18/11/2020 nel quale ha, tra l’altro, dedotto l’inammissibilità del ricorso per intervenuta cessazione della materia del contendere per effetto della sottoscrizione di transazione tra le parti il 18/9/2020 ed ha chiesto la rimessione in termini.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo, il ricorrente, lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che l’appaltatore avesse il diritto all’indennità prevista dall’art. 1671 c.c. senza, tuttavia, considerare che: – il B. non aveva dimostrato in giudizio di aver realizzato le opere prima che il committente, nel settembre del 2010, recedesse dal contratto; – le opere realizzate dal C. devono essergli restituite; – il B. non aveva dimostrato il mancato guadagno; – le spese di lite dovevano essere quanto meno compensate.
2.1. Il motivo è manifestamente inammissibile. Il ricorrente, infatti, ha, in sostanza, lamentato l’erronea ricognizione dei fatti storici che, alla luce delle prove raccolte, hanno operato i giudici di merito: lì dove, in particolare, questi, ad onta delle asserite emergenze delle stesse, hanno ritenuto che l’appaltatore, a seguito del recesso del committente ai sensi dell’art. 1671 c.c., avesse, in relazione alle opere (evidentemente) eseguite per effetto dell’appalto, il (conseguente) diritto “al ristoro… dei pregiudizi economici subiti in esito all’unilaterale recesso del committente”, determinato in base al valore che alle stesse era stato attributo da consulente tecnico d’ufficio.
2.2. La ricostruzione della vicenda fattuale, tuttavia, e’
sindacabile cassazione (oltre per l’anomalia motivazionale, nella specie neppure invocate, che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia, nella specie neppure invocata, si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione) solo per il vizio che si configura, come stabilito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nel caso in cui il giudice abbia del tutto omesso l’esame di uno o più fatti storici, principali o secondari – che il ricorrente, a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, ha l’onere di indicare specificamente – la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbiano costituito oggetto di discussione tra le parti e abbiano carattere decisivo, vale a dire che, se esaminati, avrebbero determinato un esito diverso della controversia.
2.3. L’omesso esame di elementi istruttori non dà luogo, pertanto, al vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. SU n. 8053 del 2014; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). E’, quindi, inammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per sostenere semplicemente il mancato esame di deduzioni istruttorie ovvero di documenti da parte del giudice del merito (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.).
2.4. Nel caso di specie, il ricorrente non ha specificamente dedotto quali sono stati i fatti storici che la corte d’appello, benché decisivi ed oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, avrebbe omesso di esaminare, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio.
2.5. La valutazione delle prove raccolte, però, anche se si tratta di presunzioni (Cass. n. 2431 del 2004; Cass. n. 12002 del 2017; Cass. n. 1234 del 2019), costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). Rimane, pertanto, estranea al vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116 c.p.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova. La deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non consente, quindi, di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito.
2.6. Il compito di questa Corte, del resto, non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata né quello di procedere ad una rilettura degli elementi istruttori posti fondamento della decisione al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, piuttosto, solo controllare, ove investita di tale compito con una specifica censura sul punto, se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, non sia né apparente, né perplesso, né contraddittorio.
2.7. Nel caso in esame, la corte d’appello, esaminate le prove raccolte in giudizio, ha, in sostanza, ritenuto, per un verso, che il committente avesse esercitato il diritto di recesso ai sensi dell’art. 1671 c.c., e, per altro verso, che l’appaltatore, in ragione delle opere (già) realizzate e del valore attribuito alle stesse dal consulente tecnico d’ufficio, avesse il diritto “al ristoro… dei pregiudizi economici subiti in esito all’unilaterale recesso del committente”. Ed una volta stabilito, senza che tale apprezzamento in fatto sia stato utilmente censurato (nell’unico modo possibile, e cioè, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5) per l’omesso esame di una o più circostanze decisive ovvero per inesistenza della motivazione sulla ricognizione dei fatti ovvero ancora per motivazione apparente, perplessa o contraddittoria, che l’appaltatore aveva realizzato le opere previste dall’appalto, non si presta, evidentemente, a censure la decisione che lo stesso giudice ha conseguentemente assunto, e cioè l’accoglimento, nella misura determinata dal consulente tecnico d’ufficio, della domanda proposta dallo stesso siccome volta, in ragione del recesso unilaterale del committente, al conseguimento dell’indennità prevista dall’art. 1671 c.c. per i lavori eseguiti.
2.8. Nessuna censura può essere, poi, svolta nei confronti della sentenza impugnata per non avere la corte d’appello condannato il committente alla restituzione delle opere eseguite dall’appaltatore, posto che tale domanda non risulta proposta.
2.9. Non e’, infine, ammissibile la doglianza che investe il mancato esercizio del potere di compensazione delle spese, atteso che la relativa valutazione, anche in relazione al riscontro della prevalente soccombenza, è riservata al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità. In tema di spese processuali, infatti, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, sicché, al di fuori (come nel caso in esame) di questa ipotesi, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (Cass. n. 8421 del 2017; Cass. n. 24502 del 2017).
3. Il ricorso dev’essere, quindi, respinto. Peraltro, poiché il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.
4. Nulla per le spese di lite, a fronte della tardività (e, quindi, dell’inammissibilità del controricorso) e della mancanza dei presupposti per la invocata rimessione in termini.
5. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
PQM
La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile – 2, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021
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