Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.33580 del 11/11/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10543-2019 proposto da:

***** S.P.A Il FALLIMENTO, in persona del Curatore fallimentare e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 16/B, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO LIMATOLA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ENZO PISA, CLAUDIO DAMOLI, ANDREA DELL’OMARINO, LORENZO CANTONE, OSVALDO CANTONE, GILDA PISA;

– ricorrente –

contro

C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CALABRIA 56, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNA RANIERI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDECA GIRARDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5/2019 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata 01/02/2019 R.G.N. 134/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/03/2021 dal Consigliere Dott. GIRADO PAOLO.

PREMESSO IN FATTO

che con sentenza n. 5/2019, depositata febbraio 2019, la Corte di appello di Trento ha respinto il reclamo di ***** S.p.A. in fallimento e confermato la sentenza, con la quale il Tribunale della medesima sede aveva dichiarato illegittimo, per violazione dei criteri di scelta L. n. 223 del 1991, ex art. 5, il licenziamento intimato a C.S. in data 29 settembre 2016 all’esito di procedura avviata con comunicazione del 9 settembre precedente;

– che la Corte territoriale – esaminate le comunicazioni di cui al L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 2 e 9, nonché l’accordo sindacale intervenuto nel corso della procedura – ha ritenuto come in quest’ultimo difettassero completamente indicazioni di natura oggettiva circa il peso da attribuire alle singole posizioni professionali per dare contenuto alle esigenze tecnico-produttive, cui le parti avevano attribuito valore preponderante, e che, sebbene indispensabile per la formazione della graduatoria, sulla base della quale sarebbero stati intimati i licenziamenti, era rimasto del tutto indeterminato; non vi era corrispondenza numerica o per raggruppamento – ha rilevato ancora la Corte – tra le mansioni elencate nella lettera conclusiva della procedura e quelle descritte nell’accordo sindacale, il quale, per la sua genericità e indeterminatezza, era da considerarsi invalido, non realizzando le finalità che gli sono attribuite dalla L. n. 223 del 1991; l’assegnazione dei punteggi ad opera dell’azienda risultava di conseguenza, su tali premesse, arbitraria e non verificabile nella sua correttezza, non rinvenendosi nella comunicazione ex art. 4, comma 9, alcun elemento che consentisse di comprendere quali criteri fossero stati effettivamente applicati;

– che la Corte ha poi osservato, quanto alla disposta reintegrazione nel posto di lavoro, che le omissioni e le carenze rilevate avevano natura sostanziale, indipendentemente dalla loro qualificazione in termini di “nullità”, poiché avevano impedito alla procedura di realizzare lo scopo suo proprio di selezione del personale da licenziare secondo parametri oggettivi e razionali e ai lavoratori di verificare la corretta applicazione nei loro confronti dei criteri di scelta;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Fallimento della società, con quattro motivi, cui la C. ha resistito con controricorso;

– che entrambe le parti hanno depositato memoria.

RILEVATO IN DIRITTO che con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 ss. c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione alla L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 2 e 9, nonché vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata, là dove la Corte ha ritenuto indeterminate le indicazioni presenti nell’accordo sindacale ed evidente la non corrispondenza tra le mansioni ivi descritte e quelle elencate nella lettera conclusiva della procedura, non avendo realmente esaminato tali documenti e avendone comunque dato una lettura non corretta secondo i canoni di ermeneutica contrattuale, in primo luogo di ricerca della comune intenzione delle parti e di valutazione delle clausole le une per mezzo delle altre;

– che, con il secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione delle stesse norme e della L. n. 223 del 1991, art. 5, nonché vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto privo di oggettività l’accordo sindacale 27/9/2016, senza considerare, così oltrepassando i limiti della propria indagine, che i soggetti delle trattative sindacali godono della più ampia autonomia negoziale e decisionale nell’individuare i criteri di scelta dei lavoratori e senza esaminare se, una volta indicati tali criteri nelle esigenze tecnico-produttive e organizzative, le parti non li avessero applicati o li avessero applicati in modo illogico o contraddittorio rispetto alle premesse negoziali: ciò che era la conseguenza di una valutazione erronea e carente della documentazione acquisita in causa e dell’omesso esame di fatti decisivi;

– che, con il terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto impossibile comprendere quali fossero gli effettivi criteri adottati per l’attribuzione dei punteggi nella comunicazione di chiusura, emergendone un’oscurità che era incompatibile con la norma di cui all’art. 4, comma 9, e con le finalità della procedura, posto che – come già sottolineato a proposito degli altri mezzi di impugnazione – la Corte aveva omesso ogni esame dei documenti agli atti e, in ogni caso, non ne aveva rettamente inteso e interpretato il contenuto;

– che, con il quarto ed ultimo motivo, il Fallimento si duole che la Corte di merito abbia confermato la sua condanna alla reintegrazione della lavoratrice, trattandosi nella specie di violazioni di natura procedurale (e non sostanziale, come erroneamente affermato in sentenza), dalle quali sarebbe dovuta conseguire l’applicazione della tutela meramente indennitaria;

osservato:

che i primi tre motivi, da esaminare congiuntamente per il rapporto di connessione che li unisce e per il fatto di porre questioni comuni a tutti, non possono trovare accoglimento;

– che, in primo luogo, la denuncia del vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) è da ritenersi preclusa, in presenza di c.d. “doppia conforme” (art. 348-ter c.p.c., u.c.); né il ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive numerose conformi);

– che, con riferimento alla denuncia di violazione e falsa applicazione di norme di diritto, si deve nuovamente affermare il principio, nella specie disatteso, per il quale il vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, alla stregua del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, non solo con l’indicazione delle norme di diritto che si assumono violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si reputino in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla Corte di cassazione di adempiere il proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 16038/2013, fra le molte conformi);

– che, d’altra parte, la sentenza impugnata, concludendo – in esito ad una ricognizione del suo contenuto – nel senso che l’accordo 27 settembre 2016 non è tale da realizzare “le finalità che dalla legge gli sono attribuite” e, quindi, da risultare invalido (cfr. p. 17), fa applicazione del principio, ampiamente consolidato, secondo il quale “In tema di licenziamenti collettivi, tra imprenditore e sindacati può intercorrere un accordo per la determinazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare in adempimento della funzione regolamentare delegata dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, stabilendo criteri anche difformi da quelli legali, purché rispondenti a requisiti di obiettività, razionalità e non discriminazione” (Cass. n. 118/2020; negli stessi termini, già Cass. n. 4186/2013); e altresì concludendo – dopo di avere vagliato il contenuto della comunicazione ex art. 4, comma 9 – nel senso che essa difetta di “qualsiasi indicazione circa i parametri in base ai quali si è definito il diverso peso” da attribuire alle varie mansioni e abilità e che tale radicale assenza “determina il mero arbitrio e conseguentemente l’impossibilità di una verifica della corretta applicazione” (cfr. sentenza, p. 18), ha fatto, ancora, applicazione di un principio egualmente consolidato, il principio per il quale “L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, secondo cui il datore di lavoro deve dare una “puntuale indicazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, impone oltre all’individuazione dei criteri con cui selezionare il personale, anche la specificazione del concreto modo di operatività degli stessi, in modo che il lavoratore possa comprendere perché lui, e non altri, sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto inidonei, alla formazione della graduatoria dei lavoratori con metodo obiettivo ed univoco, accordi sindacali che non precisavano la modalità in cui i vari criteri, pur razionali, concorressero tra loro, consentendo l’esplicazione di una discrezionalità non controllabile del datore di lavoro)”: Cass. n. 18306/2016;

– che deve poi ribadirsi, quanto alla dedotta violazione degli artt. 1362 ss. c.c.: – che l’interpretazione di un contratto e, più in generale, di un atto di autonomia privata è attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità unicamente per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione; che, ai fini della censura di erronea applicazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, con puntuale trascrizione dei documenti sui quali la censura si fonda; – che, in ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, con la conseguenza che, quando di un contratto o di una sua clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. n. 4187/2007 e successive conformi);

– che, in realtà, nella sostanza delle censure svolte, il ricorso tende, nei suoi primi tre motivi, ad una rilettura dei documenti di causa e ad un nuovo apprezzamento di fatto, conforme alla tesi prospettata dalla parte, e cioè a provocare un’attività giurisdizionale che è estranea ai compiti di questa Corte e propria, invece, del giudice di merito;

– che il quarto motivo è infondato;

– che la sentenza impugnata ha invero esattamente applicato il principio di diritto, per il quale “In tema di licenziamenti collettivi, la non corrispondenza al modello legale della comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, costituisce “violazione delle procedure” e dà luogo alla tutela indennitaria (L. n. 300 del 1970, ex art. 18, comma 7, terzo periodo), quantificabile tra dodici e ventiquattro mensilità, previa dichiarazione di risoluzione del rapporto alla data del licenziamento; viceversa, la violazione dei criteri di scelta, illegittimi per violazione di legge ovvero illegittimamente applicati in difformità dalle previsioni legali o collettive, dà luogo all’annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità (ex art. 18, comma 4, della legge citata)”: Cass. n. 2587/2018; conformi, fra altre: Cass. n. 19010/2018; n. 12095/2016;

ritenuto:

in conclusione che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472