LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16609-2015 proposto da:
M.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GAVINANA 2, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO DE FACENDIS, rappresentata e difesa dall’avvocato CARMINE (MINO) SIRACUSA;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI BOCA;
– intimato –
avverso la sentenza n. 97/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 23/03/2015 R.G.N. 1030/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/05/2021 dal Consigliere Dott. SPENA FRANCESCA;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO;
visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza del 23 marzo 2015 n. 97 la Corte d’Appello di Torino confermava la sentenza del Tribunale di Novara nella parte in cui aveva respinto le domande proposte da M.V. nei confronti del datore di lavoro, COMUNE DI BOCA, per l’impugnazione di quattro sanzioni disciplinari del dicembre 2008 e della sospensione cautelare dal servizio (dal 19 agosto 2008 al 14 febbraio 2009) nonché per l’accertamento di una condotta di demansionamento e di mobbing.
2. Riformava la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva disposto la compensazione delle spese di giudizio, condannando la lavoratrice al pagamento delle spese del doppio grado.
3. Quanto alle quattro sanzioni disciplinari (contestazioni del 26 luglio, 28 luglio, 31 luglio e 2 agosto 2008), i fatti addebitati, come analiticamente descritti in sentenza, erano stati provati. Il giudice dell’appello dava dettagliatamente conto delle fonti di prova e delle ragioni per le quali la condotta della lavoratrice non era giustificabile.
4. Quanto al demansionamento, la M., inquadrata nel livello D2 CCNL Enti locali non aveva, diversamente da quanto allegato, piena autonomia e libertà decisionale ed organizzativa ma era in posizione subordinata al Sindaco ed al Segretario Comunale e non aveva personale alle sue dipendenze, essendo l’unico agente di Polizia Municipale in servizio. Non era vero che dopo il suo rientro dalla sospensione cautelare i compiti da lei svolti in precedenza erano stati affidati all’agente CORTI, il quale aveva cessato il suo rapporto lavorativo con il Comune poche settimane dopo. La mansione di consegna delle tessere elettorali le era stata affidata anche dopo il febbraio 2009 ed era rimasta inadempiuta sicché in seguito era stata affidata ad altri. Neppure le era stato sottratto il compito di apporre il protocollo; piuttosto, dall’aprile 2009 la funzione era stata organizzata in modo più ordinato, con l’individuazione di un responsabile (signora M.). La M. non era stata privata dell’auto di servizio; era vero, invece, che ne aveva abusato e, pertanto, era stato istituito un controllo sull’uso. Ne’ era vero che dopo il rientro in servizio soltanto la M. era stata destinataria di ordini di servizio scritti; dal gennaio 2009 avevano ricevuto ordini scritti tutti i dipendenti che non erano responsabili di un servizio. Il servizio di viabilità presso le scuole affidato alla M. dopo il 16.2.2009 era consono al suo ruolo di Comandante della Polizia Municipale, in quanto unico vigile in servizio; non si trattava di servizio inutile, già svolto dal nonno-vigile, in quanto quest’ultimo restava nel cortile interno alla scuola mentre la M. controllava il traffico automobilistico. Il Comune non era tenuto a conferire alla M. la responsabilità di un servizio; a seguito di una riorganizzazione era stata separata l’Area del Commercio dall’Area di vigilanza e la responsabilità della prima era stata affidata al Segretario comunale.
5. Quanto al mobbing, il giudice dell’appello escludeva il verificarsi di numerosi fatti allegati dal lavoratrice (numero dei provvedimenti disciplinari; mancata utilizzo del bagno all’interno degli uffici comunali; mancata consegna del cellulare di servizio e dei bollettini per le sanzioni ammnistrative; mancata assegnazione dell’auto di servizio; mancata fornitura degli indumenti da utilizzare in condizioni atmosferiche avverse; angherie subite da parte dei conducenti dello scuolabus). Affermava non configurare condotta vessatoria la modifica della distribuzione dell’orario di lavoro della M. (su sei invece che su cinque giorni), che derivava dall’esigenza di assicurare il servizio di viabilità davanti alle scuole nell’orario dell’uscita pomeridiana degli alunni.
Ne’ era vero che il Sindaco od altri esponenti della amministrazione avessero creato all’interno del sito istituzionale del Comune il blog “La vigilessa” o non lo avessero comunque tempestivamente eliminato; vi era solo un link per l’accesso ad un blog creato e gestito da un socio della Pro Loco, al quale il Sindaco aveva fornito una collaborazione esterna per il post “dillo al Sindaco”, interrotta dal giugno 2009 con eliminazione del link. Infine, quanto agli asseriti pedinamenti da parte del Sindaco, le condotte, pur trovando occasione nel rapporto di lavoro, riguardavano esclusivamente la sfera dei rapporti personali.
6. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza M.V., affidato a sei motivi, cui il COMUNE DI BOCA non ha opposto difese.
7. Il PM ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
1. Con il primo motivo la parte ricorrente ha dedotto- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, – omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 116 c.p.c., censurando la statuizione resa in punto di demansionamento.
2. Si denuncia l’esame parziale di alcune testimonianze e la mancata motivazione della scelta delle fonti di prova. La ricorrente assume che i testi ed il Sindaco avevano riferito delle mansioni da lei svolte anteriormente al 16 febbraio 2009 e della piena autonomia e libertà, decisionale ed organizzativa nonché della perdita di detta autonomia nel periodo successivo. Sostiene che nei fatti le tre impiegate del Comune, benché aventi inquadramento inferiore, potevano protocollare gli atti, in quanto una di esse responsabile e le altre addette al protocollo in sostituzione del responsabile. Contesta l’affermato carattere non dequalificante del servizio di viabilità presso le scuole e deduce l’omesso esame della deposizione del teste C., che aveva affermato di avere svolto lavoro d’ufficio dopo il rientro della M. dalla sospensione, a conferma del fatto che vi era un secondo vigile in servizio; insite nel sostenere l’inutilità del servizio di viabilità affidatole, già svolto dal nonno vigile. Espone che gli altri destinatari di ordini di servizio avevano qualifica di operai mentre detti ordini non venivano assunti nei confronti delle tre impiegate ( F., M. e M.). Lamenta il demansionamento anche in relazione alla necessità di presentare richiesta per l’utilizzo dell’auto di servizio.
3. Il motivo è inammissibile.
4. Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 nr 19881; Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053), il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”. Al compito assegnato alla Corte di Cassazione dalla Costituzione resta estranea una verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti, la quale implichi un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito. L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.
5. La parte ricorrente, piuttosto che identificare un fatto storico specifico, che non sarebbe stato esaminato nella sentenza impugnata, contesta le conclusioni raggiunte dal giudice del merito rispetto ai fatti esaminati. Nella sostanza si chiede a questa Corte di confrontare la sentenza con le risultanze istruttorie e di prendere in considerazione elementi istruttori diversi rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, devolvendo a questo giudice di legittimità un non-consentito riesame del merito.
6. Con la seconda critica si lamenta- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del CCNL ENTI LOCALI e dell’art. 2103 c.c. sia in ordine alle mansioni proprie della categoria rivestita (D2) che quanto alla responsabilità di un servizio.
7. Si censura la mancata considerazione del fatto che l’agente di polizia municipale C. era rimasto in servizio successivamente al 16 febbraio 2009 per un periodo di diversi mesi e si deduce che nella categoria di inquadramento (D2) rientravano le mansioni svolte prima della sospensione cautelare mentre il servizio di viabilità presso le scuole era pertinente alla inferiore categoria C.
8. Si sostiene che il diritto all’incarico di responsabile dell’area vigilanza e commercio troverebbe titolo nell’art. 10 CCNL. Si deduce che non era stata provata la legittimità della revoca dell’incarico, in quanto la relativa delibera rinviava ad altre delibere di Giunta- non prodotte- ed ad un mansionario che non specificava i motivi per i quali la giunta avrebbe deciso di accorpare l’area commercio all’area tecnica e di eliminare la figura del responsabile dell’area di vigilanza.
9. Il motivo è inammissibile.
10. La parte ricorrente assume come demansionante l’assegnazione del servizio di regolamentazione del traffico all’uscita della scuola prospettando una situazione di fatto contrastante con l’accertamento effettuato dal giudice dell’appello, secondo il quale la M. era l’unica addetta al servizio di polizia municipale, in quanto il vigile C. era cessato dal servizio poche settimane dopo il suo rientro dalla sospensione cautelare. La parte ricorrente lamenta inoltre, del tutto genericamente, che le siano state sottratte le mansioni svolte in precedenza senza specificare di quali mansioni si tratti.
11. Nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 10 del CCNL del Comparto Regioni ed Autonomie Locali per il quadriennio 2002- 2005, la censura non specifica sotto quale profilo la statuizione censurata violerebbe la disposizione contrattuale.
12. In punto di diritto è corretta la affermazione secondo cui il dipendente di categoria D non ha un diritto soggettivo al conferimento della responsabilità di un servizio, trattandosi di scelta organizzativa rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro. La disposizione dell’art. 10 del CCNL 2002-2005 rimanda alla disciplina delle posizioni organizzative (art. 8, comma 1, lett. b e c del CCNL del 31.3.1999; artt. 9, 10, e 11 del medesimo CCNL), in relazione alle quali questa Corte ha già evidenziato che la norma non stabilisce un obbligo incondizionato della amministrazione di istituire le posizioni organizzative, atteso che tale attività rientra nelle funzioni organizzative dell’ente, che in via generale deve tener conto delle proprie esigenze e dei vincoli di bilancio, che altrimenti non risulterebbero rispettati (Cass. 25 ottobre 2019 n. 27384; Cass. 29 maggio 2015 n. 11198).
13. Nella fattispecie in esame, per quanto allegato dalla stessa parte ricorrente, il mancato conferimento della responsabilità di un servizio derivava da una modifica della struttura organizzativa del Comune, essendo stata soppressa l’area di vigilanza ed accorpata l’area Commercio all’Area tecnica.
14. La questione della eventuale illegittimità della revoca di un precedente incarico di responsabilità non è stata trattata nella sentenza impugnata; appare dunque preclusivo il rilievo della novità della censura, in quanto la parte non ha adempiuto all’onere di specificare attraverso quali atti la stessa era stata portata all’esame del giudice del merito.
15. Con il terzo mezzo viene dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 116 c.p.c., lamentandosi “l’omesso esame delle testimonianze nella loro completezza riferibili alle condotte vessatorie”.
16. La censura coglie la statuizione resa sul mobbing. Si deduce l’incompletezza della ricostruzione di alcune testimonianze e la mancata motivazione della scelta degli elementi istruttori, contestandosi le conclusioni raggiunte dalla Corte territoriale in ordine a ciascuno dei denunciati comportamenti mobbizzanti.
17. Il motivo è inammissibile.
18. Si richiamano le osservazioni svolte in ordine ai limiti del sindacato svolto da questa Corte ai sensi dell’art. 360 c.p.c., (Ndr: testo originale non comprensibile).
19. Anche in questo caso la censura non prospetta un fatto storico non esaminato nella sentenza impugnata e di rilievo decisivo ma sottopone in via diretta a questa Corte meri elementi istruttori, che non sarebbero stati valorizzati dal giudice del merito nella formazione del suo convincimento, così devolvendo a questa Corte un inammissibile riesame di merito.
20. Il quarto mezzo è proposto- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., dell’art. 5Statuto dei Lavoratori e della giurisprudenza di questa Corte sulle condotte vessatorie.
21. Il motivo si riferisce alla statuizione secondo cui i pedinamenti del Sindaco, pur trovando occasione nel rapporto di lavoro, riguardavano la sfera dei rapporti personali.
22. La ricorrente assume che detti pedinamenti erano svolti in prevalenza per il controllo del suo stato di infortunio o malattia, come sarebbe emerso dall'”interpello” del Sindaco e dalla dichiarazione della teste A.C., in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 5. Assume, altresì, che i testi avevano confermato i pedinamenti del Sindaco presso la sua abitazione. Si lamenta, inoltre, che il Tribunale aveva escluso il mobbing sulla base di una valutazione atomistica delle singole condotte.
23. Il motivo è inammissibile.
24. La parte ricorrente lamenta ipotetiche violazioni di legge poste in essere dal giudice dell’appello prescindendo dal considerare che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa mentre la allegazione – come prospettata nella specie da parte del ricorrente – di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
25. Nella specie:
– La violazione della L. n. 300 del 1970, art. 5, viene dedotta sul presupposto di un controllo sull’esecuzione dell’obbligazione lavorativa, circostanza, questa, contrastante con quanto accertato nella sentenza impugnata (il giudice dell’appello ha affermato trattarsi di condotte del Sindaco attinenti esclusivamente alla sfera dei rapporti personali);
– la violazione dei principi di diritto sul mobbing viene inammissibilmente dedotta in ragione della decisione resa dal Tribunale (e non dal giudice dell’appello);
– la Corte territoriale nell’affermare che gli “asseriti” pedinamenti restavano nella sfera dei rapporti personali ha escluso, con giudizio di fatto, qualsiasi riconducibilità della condotta denunciata al rapporto di lavoro. Va sul punto evidenziato che una condotta di pedinamento ben può essere significativa del mobbing, purché qualificata dall’intento persecutorio proprio di tale figura, finalizzato a mortificare la personalità e la dignità del “lavoratore” (sull’elemento soggettivo del mobbing, tra le tante: Cassazione civile sez. lav., 29/12/2020, n. 29767; Cassazione civile sez. lav., 23/03/2020, n. 7487); resta dunque estranea al mobbing una condotta priva di ogni collegamento con il rapporto di lavoro.
– le deduzioni sulla lesività delle condotte datoriali sono dirette ad una rivalutazione del fatto, in base ad un nuovo esame degli elementi istruttori.
26. La quinta critica, con la quale parimenti si denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 2087 c.c., dell’art. 5 dello Statuto dei lavoratori e della giurisprudenza di questa Corte in ordine alle condotte vessatorie, afferisce alla statuizione di rigetto della domanda di impugnazione delle sanzioni disciplinari.
27. La parte ricorrente assume l’omesso esame di testimonianze e documenti decisivi, esponendo che i testi avrebbero confermato la insussistenza di ciascuno degli addebiti disciplinari.
28. Il motivo è inammissibile.
29. Si deduce la violazione di norme di diritto per contestare l’accertamento di fatti storici operato dal giudice dell’appello, censurabile davanti a questa Corte nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 30. La censura neppure può essere riqualificata in termini di denuncia di un vizio della motivazione. La parte ricorrente non si confronta con l’accertamento in fatto contenuto nella sentenza impugnata in ordine alle ragioni di illegittimità delle condotte oggetto di contestazione disciplinare ma prospetta in via diretta a questa Corte la legittimità del proprio operato sulla base di una diversa ricostruzione dei fatti. Pertanto, piuttosto che rappresentare, con la necessaria specificità, un preciso fatto storico di rilievo decisivo non esaminato nella sentenza impugnata, sollecita questo giudice di legittimità a compiere un inammissibile riesame di merito.
31. Con il sesto motivo si deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione alla statuizione di condanna al pagamento delle spese dei due gradi di merito; si censura la riforma della compensazione delle spese del primo grado, assumendo che le ragioni della disposta compensazione risultavano dalla motivazione della sentenza del Tribunale, alle pagine 16 e 17.
32. Il motivo è inammissibile.
33. Esso infatti non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, secondo la quale la compensazione delle spese del primo grado era stata erroneamente disposta dal Tribunale in considerazione della “diversa natura delle parti” e “per ragioni di equità” (e non per le motivazioni indicate dalla odierna parte ricorrente).
34. Va in ogni caso confermato in questa sede il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui l’esercizio o il mancato esercizio del potere di compensazione è riservato dal giudice del merito e non è sindacabile in sede di legittimità (ex aliis, Cass. Sez. VI 17 ottobre 2017 n. 24502 e giurisprudenza ivi citata).
35. Il ricorso deve essere conclusivamente dichiarato inammissibile.
36. Non vi è luogo a provvedere sulle spese per la mancata costituzione della parte intimata.
37. Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la impugnazione integralmente rigettata, se dovuto (Cass. SU 20 febbraio 2020 n. 4315).
P.Q.M.
La Corte dichiara la inammissibilità del ricorso. Nulla per le spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 25 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021