Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.33599 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11286/2017 proposto da:

C.F., C.G., elettivamente domiciliati in Roma, Via F. Confalonieri n. 5, presso lo studio dell’avvocato Manzi Andrea, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Meneghini Mauro, giuste procure in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Banca Alto Vicentino Credito Cooperativo S.c.p.a. – Schio, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Sistina n. 42, presso lo studio dell’avvocato Galoppi Giovanni, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Carretta Renato, Lillo Antonella, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

G.G.;

– intimato –

E sul ricorso 8468/2018 proposto da:

C.F., C.G., elettivamente domiciliati in Roma, Via F. Confalonieri n. 5, presso lo studio dell’avvocato Manzi Andrea, rappresentati e difesi dall’avvocato Meneghini Mauro, giuste procure in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Banca Alto Vicentino Credito Cooperativo di Schio Pedemonte e Roana Soc. Coop., già Banca Alto Vicentino Credito Cooperativo S.c.p.a. –

Schio, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Sistina n. 42, presso lo studio dell’avvocato Galoppi Giovanni, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Carretta Renato, Lillo Antonella, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza parziale n. 2460/2016 e la sentenza definitiva n. 2931/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, pubblicate rispettivamente il 02/11/2016 e il 20/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/09/2021 dal cons. NAZZICONE LOREDANA.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 7 aprile 2011, il Tribunale di Vicenza ha condannato in solido la Banca Alto Vicentino Credito Cooperativo s.c.p.a. e G.G., funzionario che aveva collocato i titoli, al pagamento, in favore di F. e C.G., della somma di Euro 325.000,00, oltre interessi e rivalutazione monetaria, dedotto il valore dei nuovi titoli Parmalat e le cedole riscosse, con gli interessi su queste, in accoglimento della domanda di risarcimento proposta (fra le altre) dai medesimi, in relazione all’acquisto di titoli “Parmalat Finance Corporation” eseguito il 22 maggio 2003.

La Corte d’appello di Venezia – adita con impugnazione principale della banca e incidentale degli attori e del G. – con sentenza del 2 novembre 2016, definendo parzialmente il giudizio, ha dichiarato inammissibile la chiamata in causa di G.G. in primo grado, condannando gli attori alle spese di lite nei suoi riguardi, assorbito l’appello incidentale del medesimo e rimessa la causa in istruttoria per il prosieguo, in relazione all’appello principale ed quello incidentale dei C..

Con sentenza del 20 dicembre 2017, in riforma della decisione di primo grado, definendo il giudizio, ha respinto tutte le domande proposte nei confronti della banca.

Avverso le due sentenze di appello hanno proposto due distinti ricorsi per cassazione F. e C.G., il primo per quattro ed il secondo per tre motivi.

Ha resistito la banca ad entrambi, mentre G.G., intimato nel primo procedimento, non ha svolto difese.

Con ordinanza interlocutoria del 16 aprile 2021, assunta dopo il deposito delle memorie di parte, la Corte ha rinviato a nuovo ruolo il ricorso r.g. 11286/2017, ai fini della trattazione congiunta con quello r.g. 8468/2018.

Le parti hanno depositato le memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I due ricorsi vanno riuniti, in quanto vertenti l’uno contro la sentenza parziale ed l’altro secondo contro la sentenza definitiva.

2.1. – I motivi del primo ricorso propongono avverso la sentenza impugnata n. 2460/2016 censure, che possono essere come di seguito riassunte:

1) violazione del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, artt. 6, 12, 13 e 17 artt. 269,272 e 354 c.p.c., prevedendo il D.Lgs. citato, art. 13 il rilievo delle decadenze solo su eccezione della parte che vi abbia interesse nella prima difesa ex art. 157 c.p.c., mentre l’art. 6 del medesimo decreto non richiede una preventiva valutazione ed autorizzazione del giudice alla chiamata del terzo, le quali restano assorbite o nel decreto del giudice relatore di cui all’art. 12 del decreto, o nella decisione di merito: nel caso in esame, la valutazione del Tribunale era positiva, dato che il decreto ex art. 12 non ha menzionato la questione e la sentenza ha condannato la convenuta in solido con il terzo chiamato in causa, mentre tale profilo non era sindacabile in appello;

2) violazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, artt. 6,13 e 17, in quanto – per l’ipotesi che la sentenza impugnata non abbia errato nel non ravvisare l’autorizzazione alla chiamata da parte del Tribunale, ma nel ritenere maturata la decadenza al riguardo – non era maturata nessuna decadenza in ordine alla chiamata del terzo, non essendo gli attori tenuti a notificare l’atto anche alla convenuta, né il terzo ha eccepito alcunché in ordine alla ritualità o tempestività della citazione o al rispetto delle regole dell’art. 6 del citato decreto;

3) violazione dell’art. 157 c.p.c., perché, essendo l’unica ratio delle preclusioni in tema di chiamata del terzo la tutela del diritto di difesa del medesimo, solo il terzo può dolersi della chiamata, non anche la convenuta principale, nei cui confronti la chiamata neppure ha comportato un ampliamento del thema decidendum;

4) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e alla statuizione sull’erronea pronuncia dell’incapacità a testimoniare di G.G., omesso esame di circostanza decisiva ai fini della valutazione della capacità a testimoniare – posto che un promotore finanziario riceve una remunerazione ulteriore per il suo servizio, accanto allo stipendio di dipendente – dedotta nella memoria di replica notificata alla banca in primo grado, e consistente nel fatto che il medesimo era un promotore finanziario iscritto all’albo, ai sensi dell’art. 31, comma 4, t.u.f., come risulta dall’allegata la deliberazione Consob n. 13816 del 13 novembre 2002, circostanza ribadita nella comparsa di risposta in appello, non contestata dalla Banca né dal terzo chiamato.

2.2. – Tale ricorso avverso la sentenza n. 2460/2016 è infondato. 2.2.1. – La corte territoriale, con la sentenza parziale, ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che:

a) il tribunale ha errato nel disattendere l’eccezione di inammissibilità della chiamata del terzo, sollevata dalla banca, reputando il primo giudice che essa non sarebbe stata legittimata a sollevarla e la chiamata rispettosa della legge: al contrario, da un lato, sia stato violato D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 6, che ammette la chiamata ad opera dell’attore solo se l’esigenza sia sorta dalle difese del convenuto; dall’altro lato, si tratta di questione su cui è necessario il rilievo d’ufficio, dato che la disciplina sulla chiamata in causa del terzo tutela anche l’interesse alla concentrazione e speditezza del processo, con principio di ordine pubblico; dall’altro lato ancora, la banca ha comunque sollevato regolare eccezione al riguardo, avendone l’interesse giuridico, dal momento che la chiamata irrituale in giudizio può pregiudicarne il “diritto alla prova”;

b) sussiste la capacità a testimoniale del G., sebbene funzionario della banca, trattandosi di cause diverse e sussistendo solo un interesse riflesso in capo al medesimo.

2.2.2. – I primi tre motivi, che si appuntano contro il capo menzionato sub a), non colgono nel segno.

D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 6, che ha inteso rendere il processo societario ampiamente affidato alle parti, con l’intervento solo finale del giudice dopo che le medesime avessero operato tutti gli scambi ritenuti opportuni, prevedeva che, nella “memoria di replica dell’attore”, successiva alla notifica della comparsa di risposta, quegli potesse precisare o modificare le domande e le conclusioni, proporre nuove domande ed eccezioni che fossero conseguenza della domanda riconvenzionale o delle difese proposte dal convenuto, nonché per quanto ora interessa “a pena di decadenza dichiarare che intende chiamare un terzo ai sensi dell’art. 106 c.p.c., se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto”, oltre che depositare nuovi documenti o formulare nuove richieste istruttorie.

Dal suo canto, l’art. 13 del citato decreto, al comma 4, sanciva che “l’inosservanza dei termini previsti dagli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7, 9 e 10, nonché le decadenze, sono rilevabili soltanto su eccezione della parte che vi abbia interesse da proporsi nella prima istanza o difesa successiva, a norma dell’art. 157 c.p.c.”.

Si tratta della nota opzione, fatta propria dal processo societario, della c.d. privatizzazione del processo, in quanto esso riservava alle parti (il c.d. ping-pong) ogni scelta e opzione circa il voluto andamento del giudizio.

Le condizioni per la chiamata del terzo in giudizio non facevano eccezione a tale principio di massima: anche la violazione dell’art. 6 era soggetta alla eccezione di parte.

Nella specie, è incontestato che sussistesse l’eccezione della banca avverso la chiamata in causa de qua: e la sentenza impugnata ha esposto, tra le plurime rationes decidendi sul punto – accanto al ritenuta necessità che l’esigenza sia sorta dalle difese della banca e alla rilevabilità d’ufficio – anche quella relativa alla sussistenza ed all’interesse della banca a sollevare la detta eccezione.

Tale conclusione è ineccepibile: dal momento che la chiamata in causa del funzionario della banca, al non celato fine di rendere il medesimo – non convenuto in giudizio, ma solo in un secondo momento chiamato e senza relazione con le difese della banca incapace a deporre: situazione che, oltre che integrare un tipico caso di c.d. abuso del processo, era tale da implicare il pericolo di una limitazione al “diritto alla prova”, come dalla corte territoriale correttamente affermato, e da giustificare legittimazione e fondamento alla relativa eccezione.

2.2.3. – Il quarto motivo è infondato.

La corte del merito ha motivato le ragioni per cui il G., funzionario dipendente della banca, non era incapace a deporre.

Tale conclusione non è suscettibile di essere inficiata dal motivo, il quale pretende di considerare “fatto decisivo” che il suddetto avesse la qualifica di promotore finanziario, onde di regola questo incarico riceve una maggiore remunerazione.

Ed invero, si tratta di circostanza che, da un lato, è stata considerata (cfr. ad es. pag. 15 della decisione impugnata, ove viene chiaramente riportata la qualità del G., laddove si tratta della sua legittimazione passiva alla domanda; o alla pag. 17, nel punto in cui si parla proprio del ruolo di consulente finanziario del medesimo); e, dall’altro lato, essa non è tale da inficiare la conclusione raggiunta dalla corte territoriale, posto che la maggiore remunerazione, che nella specie si ferma sul piano di una mera ipotesi teorica, non potrebbe indurre, essa sola, l’incapacità del teste o la valutazione tout court della sua inattendibilità: situazioni soggettive che non sono, in sé, suscettibili di essere influenzate dalla mera allegazione di un maggiore guadagno dal dipendente ricavato in relazione alla operazione di investimento in discorso.

3.1. – I motivi del secondo ricorso propongono avverso la sentenza impugnata n. 2931/2017 censure, che possono essere come di seguito riassunte:

1) violazione degli artt. 21 e 23 t.u.f., 26, 28 e 29 reg. Consob n. 11522 del 1998, in quanto la sentenza impugnata ha ritenuto assolti gli obblighi informativi, senza considerare che l’informazione preventiva deve essere quanto più completa, dovendo la banca assumere informazioni circa le condizioni economiche e finanziarie dell’emittente, acquisire la conoscenza del prodotto finanziario trattato, disporre di risorse e procedure idonee al servizio e compiere una indagine sul mercato su cui il prodotto è collocato, non essendo sufficiente il documento sui rischi generali, nonché indicare le ragioni per le quali l’operazione sia giudicata inadeguata, ai sensi degli artt. 26, 28 e 29 reg. Consob predetto: ma la banca non ha operato in conformità a tali obblighi;

2) omesso esame di fatto decisivo, consistente nella circostanza di non avere la banca adempiuto al dovere di acquisire la conoscenza del prodotto finanziario trattato e di disporre di risorse e procedure idonee al servizio, evenienze non considerate dalla corte del merito;

3) omesso esame di fatto decisivo, consistente nell’avere il dipendente G. anche la qualità di promotore finanziario iscritto all’albo.

3.2. – Il ricorso avverso la sentenza n. 2931/2017 è infondato. 3.2.1. – La corte territoriale, con la sentenza n. 2931/2017 ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che:

a) vi è la prova dell’integrale assolvimento della banca ai propri obblighi informativi, essendo stati gli attori compiutamente e specificamente informati in ordine all’investimento, sia quanto alla società emittente, quale finanziaria del gruppo Parmalat, sia quanto al rating, al rendimento del titolo, alla sua quotazione e negoziabilità sul mercato, alla scadenza rispondente alla richiesta dei clienti, al rischio insito nel titolo;

b) il teste G. è pienamente attendibile, per le ragioni ivi indicate e comprendenti il riscontro con documenti ed audizioni parlamentari sui titoli coinvolti;

c) la banca fornì tutte le informazioni e le avvertenze circa l’inadeguatezza dell’investimento, ai sensi dell’art. 29 reg. Consob n. 11522 del 1998;

d) la domanda di annullamento per vizio del consenso è infondata, non essendo stato provato l’errore oppure il dolo;

e) la domanda di risoluzione per inadempimento della banca è infondata, non sussistendo nessun inadempimento agli obblighi sulla medesima gravanti.

3.2.2. – Ciò posto, il primo motivo è inammissibile, perché, pur formulato sotto l’egida del vizio di violazione di legge, finisce nella sostanza con il censurare l’accertamento fattuale compiuto dalla sentenza impugnata.

Invero, dal complesso dei documenti e delle prove in atti la corte del merito ha tratto il convincimento – esercitando il potere di accertamento e valutazione dei fatti ad essa riservato dell’assolvimento degli obblighi di informazione, attiva e passiva, a carico della banca.

Non giova, in questa sede, parcellizzare gli obblighi in questione, alla ricerca di una specifica omissione nel ragionamento della corte del merito: non rileva, in altri termini, l’assunto che sarebbe stata omessa la verifica con riguardo all’assunzione di informazioni sul titolo da parte dell’intermediario o su altro similare profilo, per censurare le conclusioni cui la corte del merito è giunta all’esito di un esame compiuto, dapprima analitico e poi sintetico, delle prove in atti, concludendo per l’assolvimento degli obblighi gravanti sull’intermediario.

La corte territoriale ha esaminato tutte le risultanze istruttorie, nell’esercizio del suo prudente e discrezionale apprezzamento, concludendo per la sussistenza delle dovute informazioni al cliente.

Dunque, la censura di cattiva valutazione delle risultanze istruttorie risulta dal contenuto del motivo, che evidenzia in fondo una critica alla valutazione della realtà fattuale, come è stata operata dalla corte territoriale; e, riproponendo l’esame degli elementi fattuali già sottoposti al giudice del merito e disattesi, mira ad una nuova valutazione delle risultanze processuali, tuttavia non consentita in sede di legittimità.

Ed infatti, premesso che la valutazione degli elementi di prova e l’apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice di merito, deve ritenersi preclusa ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa. Con la conseguenza che è inammissibile la doglianza mediante la quale la parte ricorrente avanzi, nella sostanza delle cose, un’ulteriore istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. n. 4983/18, Cass. n. 21439/15, Cass. n. 9233/06, e plurimis).

3.2.3. – Il secondo motivo è inammissibile, in quanto censura di violazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1, con riguardo ad un profilo vertente non su fatto storico decisivo, ma in parte su questione di diritto interpretativa ed in parte sugli accertamenti compiuti.

3.2.4. – Il terzo motivo è infondato, per le ragioni sopra esposte con riguardo al quarto motivo del ricorso avverso la sentenza parziale: invero, la veste di promotore finanziario in capo al dipendente, dunque incaricato specificamente di vendere detti prodotti, non integra di per sé una ragione ineluttabile di inattendibilità del testimone nelle controversie in discorso.

4. – Le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 10.200,00 complessivi, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie del 15% sui compensi ed agli accessori, come per legge.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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