LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25683/2019 R.G. proposto da:
H.A.D., rappresentato e difeso dall’avv. Manuela Agnitelli, con domicilio eletto in Roma, Via Mazzini n. 6;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, Via Dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
avverso il decreto del tribunale di Venezia n. 6121/2019, depositato in data 24.7.2019;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16.2.2021 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.
FATTI DI CAUSA
Con decreto n. 6121/2019, il tribunale di Venezia ha respinto la domanda di protezione internazionale proposte da H.A.D..
Il ricorrente aveva dedotto di provenire dal ***** e di essersi allontanato dal paese di origine, temendo per la propria incolumità, poiché la sua famiglia, appartenente al culto *****, aveva subito minacce e persecuzioni da appartenenti alla religione sunnita; che, con l’aiuto dei propri familiari, aveva edificato una moschea, scatenando la reazione dei sunniti, che avevano distrutto la sua abitazione e la moschea e gli avevano praticato violenza; che, a seguito della sparizione del padre, aveva sporto denuncia alle autorità di polizia ma che, per il rischio di essere perseguitato dalle autorità, si era determinato ad abbandonare il paese.
Il tribunale ha evidenziato che il richiedente non risultava a conoscenza di aspetti rilevanti del culto ***** e che le vicende dedotte in giudizio non erano coerenti neppure con la localizzazione di tali comunità religiose risultante dal rapporto Easo 2017, non configurandosi comunque il rischio di discriminazioni, avendo l’interessato denunciato i fatti alle autorità locali.
Inoltre, secondo il giudice di merito, non erano stati evocati i presupposti di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b) mentre era escluso che il ***** fosse caratterizzato da un conflitto armato, all’origine di una situazione di violenza indiscriminata.
Quanto alla domanda di protezione umanitaria, la pronuncia ha evidenziato come non fosse emersa alcuna specifica ragione di particolare vulnerabilità soggettiva da riferirsi a traumi subiti anche nei paesi di transito.
Per la cassazione della sentenza H.A.D. ricorre sulla base di quattro motivi di ricorso.
Il Ministero dell’Interno, resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, art. 11, lett. e) ed f), e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
La sentenza avrebbe ritenuto inattendibile il racconto del richiedente asilo senza sottoporre le sue dichiarazioni al vaglio di credibilità, benché l’interessato avesse compiuto ogni sforzo per documentare la domanda, rendendo una versione dei fatti del tutto coerente. Si imputa al giudice di merito di non aver considerato che chi fugge dal proprio paese viene considerato un traditore e non può farvi ritorno, essendo esposto al rischio di subire violenza.
Il secondo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, comma 1, lett. c), art. 3, comma 3, lett. a), artt. 2, 3, 5, 8, e 9 CEDU e D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 27, comma 1 bis, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
Il tribunale avrebbe respinto la richiesta di protezione sussidiaria senza valutare il pericolo che l’interessato fosse sottoposto a tortura o altro trattamento inumano o degradante, e avrebbe omesso di accertare d’ufficio l’eventuale sussistenza di un pericolo generalizzato nel paese di origine.
2. I due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati.
Nel ritenere inattendibile il racconto del ricorrente, il tribunale ha vagliato la coerenza e la plausibilità delle vicende rappresentate in giudizio, rilevando le numerose lacune ed imprecisioni delle dichiarazioni, alla stregua delle informazioni desunte da fonti internazionali.
La presenza di coloro che praticavano il culto ***** era del tutto marginale nell’area di provenienza del ricorrente ed inoltre nessun ulteriore riscontro deponeva a sostegno della credibilità della storia personale dell’interessato.
In ogni caso, secondo il tribunale, non era stato neppure allegato il rischio che l’interessato subisse una condanna a morte o l’esecuzione della pena capitale, né il pericolo di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 14, lett. a) e b) del decreto qualifiche. La valutazione di credibilità del richiedente si palesa, in definitiva, come il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, svolta alla stregua dei criteri stabiliti dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5.
Giova considerare che l’accertamento del giudice di merito deve avere innanzi tutto ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona, e qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva (D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5), non occorre procedere a un approfondimento istruttorio officioso circa la situazione nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 16925/2018; Cass. 4892/2019).
Il giudizio di non credibilità della narrazione integra – in sostanza una autonoma e autosufficiente ratio decidendi che, se non (o, come in questo caso, inammissibilmente) censurata, è destinata a consolidarsi e a precludere lo scrutinio dei motivi inerenti ai profili sostanziali della domanda di protezione, rendendola di per sé insuscettibile di accoglimento (in termini, Cass. 3237/2019; Cass. 33096/2018; Cass. 33137/2018; Cass. 33139/2018; Cass. 21668/2015).
3. Il terzo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, art. 3, comma 3, lett. a) e b), artt. 3 e 7 CEDU, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per aver la pronuncia escluso una situazione di violenza generalizzata senza esaminare la situazione effettiva del paese di origine, avendo fondato le proprie valutazioni su una prognosi futura e contraddittoria, e per non aver considerato la situazione della Nigeria rappresentata in sede di audizione e il permanere del rischio di subire un danno grave alla persona attestato anche da fonti internazionali aggiornate.
Il motivo – a confutazione del contrario accertamento svolto motivatamente dal tribunale – mira ad accreditare, quale ipotesi di violenza indiscriminata, il rischio di attentati, di rapimenti per finalità estorsive o episodi di criminalità dovuti all’azione di gruppi terroristici, mentre, secondo le indicazioni della Corte di giustizia Europea (v. sentenze 30 gennaio 2014 nella causa C-285/12 e 17 febbraio 2009 nella causa C- 465/07), la protezione sussidiaria può essere concesso solo in presenza di un clima di violenza indiscriminata, intesa come quella che abbia raggiunto un livello tale che il richiedente, per la sua sola presenza sul territorio nazionale, sia sottoposto al rischio effettivo di subire una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, configurandosi come situazione eccezionale, che neppure è dato ravvisare nelle deduzioni del ricorrente ed il cui accertamento involge questioni in fatto insindacabili in cassazione.
La valutazione delle condizioni di sicurezza – operata dal tribunale non riposa poi su un giudizio prognostico, ma è basata sulla effettiva ricognizione della situazione del paese, compiutamente descritta in motivazione.
4. Il quarto motivo denuncia la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, art. 19, comma 1, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 3, lett. c e comma 4, nonché illogica, contraddittoria ed apparente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
Il tribunale avrebbe respinto la domanda di protezione umanitaria senza operare alcuna valutazione oggettiva del paese di provenienza e senza tener conto della particolare condizione soggettiva dell’interessato e del grado di integrazione conseguita in Italia. Anche tale censura è infondata.
Il tribunale ha ritenuto insussistente – ed anzi neppure allegata – una specifica situazione di vulnerabilità soggettiva legata a motivi religiosi e ciò dopo aver dato atto delle restrizioni giuridiche che scontano gli appartenenti al culto ***** e all’esito della ricognizione della condizione dei non mussulmani e di quella generale del paese riguardo alla tutela delle libertà religiose.
Non è ravvisabile alcuna lacuna nell’accertamento dei presupposti della protezione umanitaria, essendo stati esaminati sia la condizione personale dell’interessato, che quella generale del paese di origine, con la dovuta comparazione tra la condizione di partenza con il livello di integrazione conseguito in Italia (cfr. decreto, pag. 13), ponendo in rilievo che l’interessato beneficiava di una retribuzione che non gli consentiva di condurre un’esistenza dignitosa o di far fronte alle proprie esigenze essenziali.
Il ricorso è respinto, con aggravio di spese secondo soccombenza. Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 2100,00 per compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Seconda civile, il 16 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021