LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 21436/2020 proposto da:
M.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Valentina Graziani, in virtù di mandato conferito in calce al ricorso per cassazione.
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, nella persona del Ministro in carica.
– intimato –
avverso il decreto del Tribunale di BOLOGNA n. 4119/2020, pubblicato il 29 giugno 2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/09/2021 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.
RILEVATO
Che:
1. Con decreto del 29 giugno 2020, il Tribunale di Bologna ha rigettato il ricorso proposto da M.D., nato in *****, avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale della Commissione territoriale competente.
2. Il richiedente aveva dichiarato di avere lasciato il paese a causa di un conflitto nato tra la comunità di religione musulmana e quella cristiana in occasione della costruzione di una moschea; che era scoppiata una rissa, terminata, dopo l’intervento della polizia, con tre morti tra la fazione cristiana e che lui aveva solo assestato un colpo di bastone ad un rivale che era poi fuggito, ma aveva timore di ritornare per la possibile vendetta della comunità cristiana.
3. Il Tribunale di Bologna ha ritenuto il racconto del richiedente inattendibile perché vago e generico, oltre che contraddittorio; non poteva essere, quindi, riconosciuta la protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); in Costa d’Avorio, inoltre, alla luce delle fonti richiamate ed aggiornate al 2018, non sussisteva una condizione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato tale da porre in pericolo la popolazione civile; per quanto concerne la protezione umanitaria, non erano emerse situazioni peculiari di vulnerabilità ed anche dalla valutazione comparativa non emergevano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.
4. M.D. ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
5. Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.
CONSIDERATO
Che:
1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4, 5, 6, 8, 10, 13 e 27;.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27; artt. 2 e 3 CEDU; art. 16 della Direttiva Europea 2013/32/UE; nonché il difetto di motivazione, il travisamento dei fatti e l’omesso esame di fatti decisivi, avendo il Tribunale, nel valutare le dichiarazioni del ricorrente, omesso di considerare la situazione del paese di provenienza e il fatto che lo stesso aveva assolto l’onere di allegazione su di lui gravante, con la conseguenza che il Tribunale avrebbe dovuto procedere ad ulteriori ed approfonditi accertamenti sui motivi di pericolo dedotti e sulla situazione della città di provenienza.
2. Con il secondo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14 e l’omessa valutazione di fatti decisivi e specificamente della grave situazione sociale e politica in Costa d’Avorio e la reale persecuzione subita dalla ricorrente (rectius: del ricorrente) tale da riconoscere l’applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c).
2.1 I motivi, che vanno trattati unitariamente perché connessi, sono inammissibili.
2.2 Il ricorrente censura, innanzi tutto, la valutazione di non credibilità della sua vicenda personale, sollecitando, inammissibilmente, la rivalutazione di un apprezzamento di merito, che, nel caso di specie, è stato idoneamente motivato e non è pertanto sindacabile in sede di legittimità (Cass., 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., 12 giugno 2019, n. 15794).
2.3 Ed invero, in tema di protezione internazionale, le dichiarazioni rese dallo straniero, se non suffragate da prove, devono essere sottoposte, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ad un controllo di credibilità, avente ad oggetto da un lato la coerenza interna ed esterna delle stesse, ovverosia la congruenza intrinseca del racconto e la sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, dall’altro la plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale, non comportando tale verifica un aggravamento della posizione del richiedente, il quale beneficia anzi di un’attenuazione dell’onere della prova, ricollegabile al dovere del giudice di acquisire d’ufficio il necessario materiale probatorio ed al potere di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto, ferma restando, per l’appunto, la necessità che i fatti narrati superino il predetto vaglio di logicità (Cass., 7 luglio 2021, n. 19377).
2.4 Nel caso in esame, il Tribunale, nel rispetto dei principi sopra richiamati, ha ritenuto le dichiarazioni del ricorrente, rese davanti alla Commissione territoriale e nel giudizio, inattendibili e privi di elementi di dettaglio, oltre che intrise di contraddizioni, specificamente richiamate a pagina 6 del provvedimento impugnato e non oggetto, peraltro, di specifica censura.
2.5 Il giudizio negativo in ordine alla credibilità soggettiva del richiedente, espresso in conformità dei criteri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, risulta di per sé sufficiente a dispensare il giudice dal compimento di approfondimenti officiosi in ordine alla situazione del Paese di origine, ai fini dell’esclusione della configurabilità delle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non trovando applicazione in tal caso il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, il quale non opera laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. tra le altre, Cass., 11 agosto 2020, n. 16925; Cass., 12 giugno 2019, n. 15794; Cass., 27 giugno 2018, n. 16925).
La ritenuta inattendibilità della vicenda personale risulta invece irrilevante ai fini dell’accertamento della fattispecie di cui dell’art. 14 citato, lett. c), che, in quanto correlata alla provenienza del richiedente dall’area interessata dal conflitto armato da cui deriva la situazione di violenza indiscriminata che costituisce fonte della minaccia grave e individuale alla vita o alla persona prospettata a sostegno della domanda, può essere ritenuta insussistente soltanto nel caso in cui i dubbi sollevati in ordine alla credibilità delle dichiarazioni da lui rese riguardino proprio questo profilo (cfr. Cass., 6 luglio 2020, n. 13940; Cass., 24 maggio 2019, n. 14283).
2.6 Nella specie, tuttavia, la configurabilità della predetta situazione è stata correttamente esclusa in virtù del richiamo d’informazioni fornite da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate, puntualmente indicate in motivazione, a pagina 7, dalle quali il decreto impugnato ha desunto che la situazione in Costa d’Avorio appariva gradualmente in via di stabilizzazione e che non si riscontrava un conflitto armato di intensità e violenza tali da mettere in pericolo la vita e l’incolumità persona della popolazione civile.
2.7 D’altra parte, le fonti richiamate dal ricorrente, oltre ad essere del tutto generiche in relazione alla vicenda personale dallo stesso raccontata, sono lungi dal confermare la sussistenza in Costa d’Avorio di un conflitto armato, che, per come affermato da questa Corte, di recente, ricorre nelle situazioni in cui le forze armate governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati antagonisti, o nella quale due o più gruppi armati si contendono tra loro il controllo militare di un dato territorio, purché detto conflitto ascenda ad un grado di violenza indiscriminata talmente intenso ed imperversante da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nella regione di provenienza – tenuto conto dell’impiego di metodi e tattiche di combattimento che incrementano il rischio per i civili, o direttamente mirano ai civili, della diffusione, tra le parti in conflitto, di tali metodi o tattiche, della generalizzazione o, invece, localizzazione del combattimento, del numero di civili uccisi, feriti, sfollati a causa del combattimento – correrebbe individualmente, per la sua sola presenza su quel territorio, la minaccia contemplata dalla norma (Cass., 2 marzo 2021, nn. 5675 e 5676).
3. Con il terzo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19; l’errato e omesso esame dei fatti decisivi anche con riferimento alla integrazione sociale e lavorativa in Italia.
3.1 La censura è inammissibile.
3.2 Sul punto, la sentenza delle Sezioni Unite del 13 novembre 2019, n. 29459 ha affermato che i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, sono accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suol diritti fondamentali inviolabili.
Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio; né il livello di integrazione dello straniero in Italia né il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Cass., 23 febbraio 2018, n. 4455). Quindi l’accertamento delle condizioni per il riconoscimento del permesso di soggiorno fondato su ragioni umanitarie si fonda sui seguenti presupposti: l’allegazione come gravi motivi di elementi derivanti dalla situazione sociale, politica o ambientale del Paese di provenienza del richiedente, pur non configuranti il pericolo di persecuzione o di danno grave, rilevanti ai fini della protezione internazionale, che incidano eziologicamente in modo individuale sulle condizioni personali di vita del richiedente; la valutazione della situazione vissuta nel Paese di accoglienza, rilevante come elemento di comparazione, a cui dare rilievo mediante un giudizio prognostico che fa ritenere che sussisterebbe una grave violazione dei diritti umani se il richiedente fosse rimpatriato.
Il giudice del merito e’, dunque, tenuto ad operare la comparazione, in ragione del proprio dovere di collaborazione istruttoria officiosa, al fine di accertare se con il rimpatrio possa determinarsi, all’attualità, non il mero peggioramento della condizione di vita goduta dallo straniero nel nostro paese, ma, tenuto conto della sua condizione soggettiva ed oggettiva (età, salute, radici relazionali e parentali, condizione personale, appartenenza ad u gruppo sociale ecc.), una compressione dei diritti umani correlati al suo profilo, che lo priverebbe della concreta possibilità di condurre un’esistenza coerente con il rispetto della dignità personale, soltanto dopo che il richiedente abbia documentato il suo grado di integrazione in Italia ed abbia allegato i fatti oggettivi e soggettivi indicativi, a suo dire, della condizione di vulnerabilità cui sarebbe esposto nel paese d’origine il richiedente (Cass., 28 luglio 2020, n. 16119), circostanza che nella specie, non si è verificata.
3.3 Il ricorrente, del resto, nel denunciare dell’impugnato decreto la violazione della normativa protezione umanitaria, non si confronta con lo specifico iter argomentativo del giudice di merito, che, lungi da non considerare l’integrazione sociale e lavorativa del ricorrente in Italia, ha affermato che lo studio della lingua italiana e lo svolgimento di attività lavorativa non possono rappresentare da sole un fattore ostativo al rimpatrio, in mancanza di ulteriori e specifici indicatori di necessità di protezione, dal punto di vista soggettivo e oggettivo, che nella specie non erano ravvisabili, ove si considerava che nel paese di origine viveva ancora la madre e che il richiedente aveva riferito che nel suo Paese aveva studiato e svolgeva un’attività lavorativa (cfr. pagine 7 e 8 del provvedimento impugnato).
3.4 Il richiamo, poi, a precedenti giudiziari favorevoli a persone provenienti dalla Costa d’Avorio non può assumere decisivo rilievo in quanto frutto della valutazione delle circostanze specificamente accertate in detti giudizi.
3.5 Il motivo, dunque, si risolve nella mera istanza di revisione del giudizio di fatto operato dal giudice di merito, nel rispetto, peraltro, del principio statuito da questa Corte secondo cui, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, se il giudice è chiamato a verificare l’esistenza di seri motivi, che impongano di offrire tutela a situazione di vulnerabilità individuale, è comunque “necessario che il richiedente indichi i fatti costitutivi del diritto azionato e cioè fornisca elementi idonei a far desumere che il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione di integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass., 2 luglio 2020, n. 13573).
4. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Nessuna statuizione va assunta sulle spese, poiché l’Amministrazione intimata non ha svolto difese.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021